JANARA

Le janare nella tradizione dell’appennino campano, nel Beneventano, nella Marsica, in Irpinia e aree limitrofe sono fattucchiere capaci di volare per andare al sabba, spaventare gli incauti contadini, sottrarre giumente e anche rapire neonati. Sono protagoniste indiscusse del folclore locale, probabilmente erano sacerdotesse di Diana oppure di culti germanici, in quanto le aree un tempo Sannite sono state poi ripopolate dai Longobardi secoli dopo la fine delle Guerre Sannitiche, con la deportazione degli indigeni. Il noce di Benevento, teatro dei sabba, sarebbe la versione mediterranea del frassino sacro a Odino. Con l’avvento del Cristianesimo sono state trasformate in streghe malefiche. Queste figure minacciose e protettive sono parte del folclore alla base del film Janara.
L’opera prima di Roberto Bontà Polito, uscita nel 2014, è una fiaba a tinte cupe ambientata nel piccolo paese di San Lupo. Alessandro (Alessandro D'Ambrosi) e Marta (Laura Sinceri) sono due giovani sposi e raggiungono la località in quanto è deceduto il nonno di Marta. Entro un paio di giorni verrà letto il testamento per sapere come l’anziano ha disposto della proprietà di una vecchia casa. Marta, che è incinta, ha una sorella, Veronica ( Noemi Giangrande) da cui si è separata anni prima, a causa delle differenze di carattere troppo marcate e di un tradimento, in quanto Veronica insidiò l’allora fidanzato di Marta. C’è anche Giovanna, una zia pazza (Rosaria De Cicco), che compare all’improvviso e racconta della strega suscitando pietà ma anche disagio in Marta. L’accoglienza dei paesani non è delle migliori, Veronica è scostante, San Lupo offre poco alla coppia, che finisce per venire ospitata dal prete, Don Andrea (Gianni Capaldi) in quanto la sorella si rifiuta di farli dormire da lei. A rendere il borgo cupo e deprimente, c’è l’assenza dei bambini, i vicoli sono spenti, nessuno corre nelle piccole piazze o scivola per le stradine a bordo di una carrozza, il carrettino autocostruito tipico dell’appennino centro meridionale. Non è che sono chiusi in casa o attaccati ai videogiochi, viziati dalle lusinghe tecnologiche e ormai incapaci di divertirsi all’aperto. Da anni i piccoli scompaiono, la gente ne parla malvolentieri, la polizia arranca tra ovvie piste di pedofilia e credenze ancestrali. La gente sembra in preda a una psicosi collettiva, crede a un'antica leggenda su una Janara messa al rogo mentre era incinta, la quale avrebbe maledetto il paese intero, condannandolo a perdere i suoi figli. Addirittura le soglie delle case alla sera espongono piatti con sale poiché si dice che la janara se li trova debba contare i granelli per tutta la notte e così non possa entrare a prendersi i bambini. Marta inizialmente dà poco credito a quelle che per lei sono solo leggende popolari inventate per coprire verità scomode, ma dovrà ricredersi davanti agli strani riti ufficiati dal parroco e a eventi inspiegabili…
L’idea di un horror a chilometri zero, con un soggetto direttamente attinto dal folclore popolare, sembra essere oggi la strada migliore per uscire da soggetti stantii, con i soliti vampiri, esorcismi, maniaci, animali impazziti e fantasmi. Questo è tanto più vero per l’horror italiano, che nel corso degli anni ha dimostrato di funzionare al meglio in tutte quelle occasioni in cui ha smesso di imitare modelli internazionali per aprirsi alla ricca tradizione locale. La paura si basa sull’irrazionale, e per funzionare deve esserci una presenza che popola gli incubi di tanti spettatori, qualcosa che proviene da un passato condiviso, radicato nell’inconscio o qualcosa di ignoto ma tutto da scoprire, proprio come quando si degustano piatti etnici con curiosità. In questo caso c’è una storia narrata per vera di una donna condannata dall’Inquisizione, uccisa per decisione dell’amante, un potente che l’ha consegnata ai sacerdoti pur di liberarsi di lei e dell’inopportuna presenza di un figlio che poteva avanzare rivalse o diritti sui beni paterni.
La sceneggiatura è molto tradizionale, ha pochi guizzi innovativi e una lentezza che può scoraggiare quanti sono abituati a horror contemporanei ricchi di jumpscares. Il ritmo rarefatto serve per immergere lo spettatore in un crescente clima malsano. La gente di san Lupo campa, più che vivere, tira avanti convivendo con certezze che per il resto del mondo sono fole di cui sorridere. La modernità è arrivata nel borgo con auto e telefoni, con i televisori e con una linea internet che è rimasta tecnologicamente ferma ai primi anni del Duemila. Non ci sono alberghi, la campagna sembra essere una campagna qualsiasi, lontana dal turismo, da un vero benessere economico o anche da una sobrietà accettata con dignità e decoro, in quanto le sparizioni hanno gettato le famiglie nella disperazione e grava l’ombra del sospetto sui rari visitatori. Ai residenti non resta che sopportare una vita già predisposta in tappe obbligate, consumando se possibile qualche tradimento e andando avanti tra ipocrisie e disillusioni coniugali. Veronica stessa, che pure si presenta come una donna determinata e di carattere forte, sopporta le scappatelle del marito Walter (Fabrizio Vona). Accetta la lontananza affettiva per il bene del figlio, ultimo ragazzino rimasto nel paese, o perché in fondo è certa di non potersi ribellare per davvero. In un simile contesto anche Alessandro si abbandona alla lussuria con Veronica, per poi far finta che niente sia accaduto per davvero. La Chiesa sembra essere l’unica autorità riconosciuta, almeno fino a quando i cittadini decidono di dare fiducia all’ambiguo sacerdote e alle sue messe al ruscello, e non si abbandonano alla vendetta e al linciaggio. La polizia è inesistente, ha ormai rinunciato ad investire le poche risorse per far luce sulla scomparsa dei bambini in quanto si è scontata con l’omertà e con le credenze superstiziose. Per buona parte della pellicola aleggia il dubbio che dietro alla situazione ci sia una congiura di cittadini viziosi, pronti a coprirsi vicendevolmente le spalle. Solo il coraggio di Marta, pronta a rischiare la sua vita e quella del piccolo che ha in grembo, può mettere fine – forse- al male che incombe sul paesino.
Bisogna superare i due terzi della pellicola per scoprire l’agghiacciante verità, e può essere dura mantenere l’interesse fino a  quel punto, perché sembra di vedere una qualsiasi fiction nostrana, esteticamente scialba e recitata con grosse disomogeneità tre le capacità recitative degli interpreti, Alcuni come Gianni Capaldi e Rosaria de Cicco, sono professionisti con tanta gavetta, il primo come icona dei B-movie d’azione ( che essendo italo scozzese o Tallyscot recita con accento britannico fingendo che il prete sia statunitense), l’altra con un bel percorso tra pellicole di Ferzan Özpetek, televisione e teatro. I protagonisti invece sono poco più che esordienti e in parecchie situazioni si vede, anche perché i loro dialoghi ricalcano quelli delle fiction, con tre stanze a far da sfondo e se capita un ambulatorio e una corsia d’ospedale. A parte Marta, per gli altri personaggi non c’è una vera evoluzione nel corso della vicenda. Possono esser rassegnati al loro destino, fedifraghi se l’occasione gli avvicina la possibilità di sfuggire alla noia stordendosi col sesso, ambigui come chi sa ma non può dire e deve mantenere una facciata ufficiale e una ufficiosa. Come sono. tali restano, al massimo prendono atto dei loro errori e della loro fragilità ma probabilmente se ne avessero l’occasione potrebbero ripetere gli stessi errori. La protagonista stessa matura lentamente, abbandonando finalmente il ruolo di vittima pur di prendere in mano il proprio destino, in un finale che la rende eroica.
La sceneggiatura di Alessandro Ricciardi e Brando Curattin fa il possibile per minimizzare le tante imperizie recitative, e lo fa sfruttando un modo di narrare che può ricordare Stivaletti. Le parti più suggestive sono quelle in cui la presenza malefica si intravede tra le ombre dei vicoli e le cantine abbandonate, nella penombra, tra incubi indotti da stupefacenti e bambini spettrali che invadono anche i sonni sereni, e una realtà che nell’epilogo supera ogni fantasia.
C’è anche una notevole colonna sonora creata appositamente da Sandro di Stefano, e con un brano di Eugenio Bennato; proprio per la sua bellezza talvolta sovrasta le sequenze.
Che sia un film realizzato con mezzi assai limitati è ovvio, sia per gli interni dimessi che la fanno da padrone, sia per la confezione spartana dei movimenti di macchina e del montaggio. Janara è stato prodotto dalla VARGO, neo-costituita società che fonde le esperienze della Imago e del Centro Sviluppo Neapolische.
E’ stato girato proprio nel paesino di San Lupo, e a Guardia Sanframondi, ovviamente ‘imbruttiti’ per l’occasione in quanto nella realtà sono piccoli centri del Beneventano, con qualche bel monumento e l’evocativo torrente delle Janare, attraversato da un ponte in pietra, detto "Ponte delle Janare", posti dove si mangia bene e si può godere di un turismo a passo lento, pronto a cogliere i dettagli.
Non sarà Pupi Avati, e nemmeno Garrone, però è una pellicola molto dignitosa, che può incuriosire e far scoprire meglio il territorio.

 

Cuccussette vi ringrazia della lettura.

Questa recensione è stata edita su questo sito. Se la volete ospitare, contattatemi. Florian Capaldi  su Facebook

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