CLAANG THE GAME
“…Il Claang, per chi non lo sapesse, e cioè tutti, è un gioco a squadre di mia creazione, un incrocio fra “Rollerball” e i combattimenti de “Il Gladiatore”. Nel Claang ho cercato di far confluire le mie passioni celtiche. Si gioca in arene. L’idea del combattimento nel mio gioco non è proprio violenta o guerresca, ma agisce come se fosse il motore di tutto ciò che accade nel mondo. In Claang si decidono le sorti di un qualcosa di più importante che una partita, forse perfino la salvezza del mondo. Vince la prima squadra che riesce ad accendere i quattro fuochi situati in un quadrante posto nel campo avversario. Perché “Claang”? Il nome Claang richiama il concetto di Clan, così come il rumore delle spade, o meglio il clangore delle spade che s’incrociano.” (Stefano Milla).
Alla vigilia della battaglia di Hastings, Guglielmo il Conquistatore incontra il viandante Vidr. L’uomo viene fermato dai soldati; è disarmato e porta con sé una tavola pieghevole coperta di rune. È il “Claang”, un gioco analogo agli scacchi che simula antichi scontri rituali e prende il nome da un potente amuleto.
Al riparo da sguardi indiscreti, presso un campo costellato di menhir, il re inizia con Vidr una partita che durerà fino all’alba, durante la quale il viandante narrerà la storia del Claang: un racconto epico che, intrecciando il più lontano passato con l’incerto presente, farà rivivere le gesta dell’eroico Tyr e i fatti di una battaglia decisiva da lui combattuta.
Al sorgere del sole si scoprirà che Vidr non è un semplice pellegrino…
SPADA E FILOSOFIA
Raro esempio di lungometraggio fantasy realizzato in Italia, Claang the Game è un film dai toni epici e al tempo stesso malinconici, non lontani da quelli che si respirano leggendo le pagine di Tolkien. Le atmosfere elegiache esigono una lentezza che normalmente il cinema di genere, sacrificando la spiritualità all’azione, non regala; qui invece – prima prova di originalità – i minuti iniziali sono spesi a descrivere proprio la spiritualità della gente e la storia leggendaria del loro mondo. Il misticismo ispirato alla mitologia celtica e vichinga, e il sapiente uso delle armi sono i veri protagonisti di quest’opera.
Nella fantasiosa antichità di Stefano Milla, il Claang è un amuleto, un simbolo di potere. Presta il suo nome a un gioco gladiatorio, che a sua volta ha originato un gioco da tavolo. Come amuleto, ricorda per aspetto sia l’arte irlandese, sia la ruota del sole indiana. Durante un’immaginaria cerimonia, il prezioso oggetto viene consacrato dai rappresentanti delle quattro terre in cui si divide il mondo, un richiamo alla tradizionale ripartizione che gli antichi attribuivano al creato, e che Platone tramanda. Il concetto delle quattro Età che si ripetono cicliche appartiene a varie religioni: è presente in ambito greco-romano (Esiodo), nella cultura indù (le ere satya-yuga o krita-yuga, treta-yuga, dvapara-yuga e kali-yuga), nella tradizione ebraica (la statua sognata da Nabucodonosor, composta di quattro parti, di materiali differenti). Nel ripetersi di ere, culminanti in un cataclisma da cui si sarebbe originato un nuovo mondo, troviamo echi anche della mitologia germanica.
Qualcosa di analogo riguarda la leggenda tutta cinematografica del Claang: quando l’amuleto venne rubato, terminò l’Età dell’Oro; nell’Età dell’Argento l’umanità si dette a credere al soprannaturale, e vennero celebrati sacrifici umani. Le civiltà persero poi la fede, e, nell’Età del Bronzo, la società venne guidata dai più coraggiosi guerrieri, che si battevano all’ultimo sangue per divenire capi o Vanìr. I potenti finirono per assoldare mercenari che combattessero al loro posto, e fu allora che sopraggiunse l’Età del Ferro e nacque la leggenda del guerriero Tyr.
La trama in sé potrebbe sembrare banale, ricca di situazioni viste già in pellicole più celebri, ma Stefano Milla riesce ugualmente a dare nuova luce ai duelli, ai colpi di scena e agli eventi, proprio attingendo a piene mani dalla spiritualità che guida quel mondo lontano. Il fattore magia è presente nella profonda fede vissuta dai personaggi, che sembrano far parte di un universo permeato dal divino; non ci sono incantesimi spettacolari, ma non se ne avverte la mancanza. In questo senso, insieme a Magnificat di Pupi Avati, Claang the Game è una delle più belle pellicole che affrontano il paganesimo o il cristianesimo influenzato da antiche credenze.
UN NEO, MOLTI PREGI
L’influsso dei classici della cinematografia di genere è evidente: i combattimenti in arena sembrano ispirati da Rollerball e da Il Gladiatore; la rituale ciclicità delle epoche e il duello tra eletti ricorda la saga di Highlander; il gruppo di guerrieri male assortiti che sfida il potere è una presenza costante, basti pensare a Conan il Barbaro, a Krull, a Yado… e al futuro apocalittico di Mad Max e di diversi b-movies.
Claang the Game deve molto anche ai capolavori della cinematografia classica: l’incontro tra Guglielmo il Conquistatore e Vidr richiama quello tra il cavaliere di ritorno dalla Crociata e la Morte ne Il Settimo Sigillo di Ingmar Bergman. In entrambi i casi i protagonisti siedono soli in un paesaggio deserto, sfidandosi in un gioco dalle regole chiare. Lo stesso aspetto del viandante nella penombra ricorda quello della Morte, che Bergman volle intabarrata in un mantello nero, con un cappuccio dal quale sbuca un volto androgino.
La narrazione apre una serie flashback, proprio come avviene in Rashomon di Akira Kurosawa o ne I racconti della pallida luna d’agosto di Kenji Mizoguchi. Il racconto non è lineare, ma è tutto uno scorrere di episodi passati che si affacciano sul presente. Anche durante il combattimento, vediamo alternarsi sequenze di duello e dialoghi tra i due Vanìr avvenuti prima di scendere nell’arena.
La macchina da presa inquadra gli scontri in dettaglio o a figura intera: gli attori sono esperti nell’uso delle armi e non ci sono controfigure, quindi si può mostrare tutto, ci si può concentrare sui volti, sui movimenti dell’intero corpo. Colpisce lo sguardo di un guerriero, l’elmo arrossato dal sangue dei nemici, la ferocia che Hollywood ci ha spesso nascosto o sminuito. Si mostra la violenza, senza edulcorarla troppo ma con pochissime concessioni allo splatter o al trash: i dialoghi sono abbastanza espliciti, pur evitando volgarità, e i particolari più crudi vengono fatti immaginare allo spettatore, sia nelle scene di battaglia che in quelle erotiche.
Gli effetti speciali sono usati con discrezione, per rendere ancora più coinvolgenti i combattimenti e valorizzare gli affascinanti i paesaggi della Liguria, dell’anfiteatro romano di Susa (riportato alla luce negli anni Cinquanta) e di varie location italiane ed europee. Per poter essere effettuare nei periodi dell’anno più adatti, le riprese si sono protratte per molto tempo: la neve è autentica, e così il tramonto sui dintorni di Portovenere.
La colonna sonora è stata composta appositamente per il film, e mescola epica sinfonica, rivisitazioni celtiche e anche una ballad che ricorda l’epic metal.
Se proprio una pecca deve trovarsi, è nel sonoro, nel doppiaggio che non sempre accompagna con puntualità i personaggi. Purtroppo l’uso delle armi bianche storiche è un’arte difficile, tanto quanto il recitare: è complicato eccellere in entrambe e mantenere al contempo la necessaria presenza scenica! I rievocatori sono atleti innamorati della Storia, sono allenati a esibirsi davanti al pubblico e come teatranti, hanno ottime capacità mimiche, ma non sono attori professionisti. O piuttosto, non sempre lo sono: l’intenso protagonista, Francesco Chinchella, ha alle spalle anni di apparizioni cinematografiche, in veste di stuntman, di coreografo, di attore; la bellissima Elanor è interpretata dall’attrice americana Suzi Lorraine. Il doppiaggio è stato quindi necessario, ma purtroppo in alcuni passi c’è poca sincronia con il video. Molti sono i pensieri espressi da voci fuori campo, accompagnati da immagini idilliache o dalle rapide sequenze dei flashback. Nel complesso quella del sonoro è una mancanza perdonabile, in secondo piano rispetto ai pregi della pellicola.
E, finalmente, che duelli! Niente a che vedere con i pur emozionanti scontri dei videogiochi, farciti di inopportune piroette o posture da ballerino. Sul campo di battaglia di Milla non c’è posto per damerini agghindati da torneo, o per giovanotti d’oggi che vogliono imitare i protagonisti dei film d’azione o dei cartoni animati giapponesi. Nell’arena troviamo persone in carne ed ossa, coperte di maglia d’acciaio, con indumenti di stoffa imbottita (i cosiddetti gambeson) sporcati dall’uso, grossi scudi scheggiati dai colpi, spade e asce poco scenografiche per foggia, ma di certa efficacia.
Molti degli attori sono abili spadaccini de “La Compagnia della Commenda” di Genova, o di altre serie associazioni dedite a ricostruire spaccati di vita medievale. Usano armi riprodotte a partire da testimonianze storiche, si muovono con spettacolarità e rispetto dei trattati di duellistica. La macchina da presa inquadra gli scontri valorizzando la cruenta eleganza della lotta. Il primissimo piano dell’elmo caduto sulla cui superficie si riflette Tyr sconfitto è magistrale. I colpi sono inframmezzati da flashback che chiarificano le intenzioni dell’eroe, le sue speranze, i suoi incubi.
Il montaggio è esemplare: asseconda la velocità dell’azione e lascia tempo allo spettatore per rendersi conto dell’abilità dei duellanti. Le sequenze dei sinistri presagi di Elanor si integrano con le parti del duello, così che il sangue assume la stessa tonalità del velo che precipita dalla scogliera.
I personaggi sono credibili anche fuori dall’arena e la psicologia dei protagonisti è approfondita. Spesso i film di genere, anche quelli realizzati con larghezza di mezzi, ci narrano di eroi privi di dubbi e indecisioni. Invece in Claang the Game i personaggi si comportano con verosimiglianza, nessuno appare senza macchia e senza paura, e il tradimento è sempre in agguato con alle spalle motivazioni umanissime. Perfino Tyr, mosso da coraggio, affetto ingenuo e sete di rivalsa, è tentato di lasciare il gioco e fuggire con l’amata abbandonando i compagni al loro destino.
Curiosa la presenza dell’aggraziato cuciniere orientale: il ruolo che ha è importante, eppure non sappiamo chi sia, da dove venga, e perché si sia unito al manipolo di guerrieri. Come bene spiegò Michael Ende, neppure il più verosimigliante dei romanzi sfugge alla condizione di essere una rappresentazione virtuale del mondo, frutto della rielaborazione dell’Autore. Nel caso di Milla, la geografia, descritta con l’aiuto della grafica digitale, disegna una terra diversa da quella che conosciamo, con città e nazioni dai nomi immaginari, popolati da persone di etnia differente.
Sospeso tra fantasy, ricostruzione storica, narrazione epica e poesia, Claang the Game è una pellicola molto coraggiosa.
I primi minuti possono scoraggiare lo spettatore alla ricerca di emozioni facili, e, anche quando i toni epici e avventurosi prendono il sopravvento, i continui flashback impongono attenzione costante. I costumi e le armi poco vistose possono forse deludere qualcuno, ma i combattimenti verosimili fanno la felicità di quanti conoscono la scherma medievale e sanno apprezzare i virtuosismi tecnici.
Nel suo genere, è una pellicola d’essai, assolutamente da non perdere.
Cuccussette vi ringrazia della lettura.
Questa recensione è stata edita da TERRE DI CONFINE https://www.terrediconfine.eu/claang-the-game/
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