I FIGLI DI DUNE
I Figli di Dune (Frank Herbert’s Children of Dune) è una miniserie TV prodotta nel 2003 per Sci Fi Channel ed è ispirata alla saga di Dune di Frank Herbert. Si tratta del seguito della prima trilogia, Dune – Il destino dell’universo (Frank Herbert’s Dune) realizzata tre anni prima da John Harrison, che curò l’adattamento del primo romanzo edito (Dune, del 1965).
Nel sequel, diretto da Greg Yaitanes, Harrison ha proseguito il suo lavoro di sceneggiatore con un occhio attento alle richieste dei fan, da sempre molto attenti alla fedeltà delle trasposizioni. Le pagine sono state tradotte in immagini visivamente accattivanti e la narrazione mantiene inalterate le proporzioni dei due romanzi. Harrison ha condensato in un episodio il più breve Messia di Dune, e ha sviluppato nel corso delle altre due puntate il più corposo I Figli di Dune. La continuità narrativa e stilistica tra le due serie è indiscutibile: sono concepite come se si trattasse di un’unica opera suddivisa in sei capitoli. La sceneggiatura evita di inserire riassunti tra la terza e la quarta puntata, oppure dialoghi studiati ad arte per ricordare allo spettatore gli eventi passati. La nuova serie presuppone la conoscenza degli elementi tipici dell’universo creato da Frank Herbert: il delicatissimo equilibrio ambientale, il ciclo di produzione della Spezia, i Fremen e la dura vita nel deserto, le Bene Gesserit e il loro misticismo, gli intrighi politici… L’autore è stato tra i primi a trattare il sottogenere della space opera inserendo le imprese eroiche dei singoli in una scenografia sorprendente ed ecologicamente verosimile. I poteri di Paul Atreides risultano credibili poiché agiscono in quell’universo fittizio, lacerato da complotti tra nobili e popolato da uomini superstiziosi che attendono un messia. L’ambientazione è importante quanto i protagonisti, e finalmente la prima miniserie ha dato voce agli aspetti ecologici e culturali sottintesi alle gesta del giovane leader. Per comprendere quanto avviene ne I Figli di Dune lo spettatore è ‘costretto’ alla lettura delle pagine oppure alla visione di Dune – Il destino dell’universo: il pregevole film di David Lynch del 1984 sorvola sui molti dettagli etnografici, e racconta i poteri arcani con sequenze visionarie, ricche di poesia.
Il sequel televisivo si apre con il resoconto di quanto è avvenuto dopo la caduta dell’Imperatore Shaddam IV. Nei dodici anni seguenti Paul Atreides ha deciso le sorti dell’universo regnando con pugno di ferro sui Fremen. Riconosciuto come messia dagli abitanti del pianeta, li ha condotti alla conquista dei pianeti, e ovunque è giunto ha imposto la tirannia massacrando quanti non lo riconoscevano come suprema autorità. Arrakis stesso ha cambiato volto, trasformandosi in una terra verde. Purtroppo i vermi delle sabbie sono i soli a produrre la Spezia e vivono soltanto nel deserto: col recedere delle dune si stanno estinguendo e con essi, l’antica cultura. Molti Fremen rimpiangono il passato, e gli attentati si susseguono, fomentati da nemici vecchi e nuovi… Paul Atreides, incapace di tornare sui suoi passi e dare un nuovo corso al destino del suo popolo, perde l’uso degli occhi a causa di un’esplosione. Grazie ai suoi poteri mistici, riesce ancora a vedere, tuttavia quando la moglie di fatto Chani muore dando alla luce due gemelli, resta completamente cieco. Scoperto l’ennesimo complotto, Paul segue l’antica tradizione Fremen e va a morire nel deserto… o così tutti credono, in quanto Paul si trasforma nel Predicatore, un povero cieco pronto ad ammonire la corte e a risvegliare le coscienze con feroci sermoni improvvisati nelle piazze della città di Arrakeen. Alia, prima figlia di Paul, ha ereditato la reggenza; purtroppo la ragazza è prenata, ovvero a causa di un rito svolto dalla madre durante la gravidanza ha ereditato la memoria delle vite di tutti i suoi antenati senza avere il tempo di maturare un ego abbastanza forte da gestire i ricordi. Fragile e priva di una guida, è incapace di gestire la moltitudine di personalità e tra esse, si fa strada la presenza del Barone Harkonnen, suo antenato…
La vicenda segue il deteriorarsi della mente di Alia, e il divenire adulti dei due gemelli, il coraggioso Leto II e l’assennata Ghanima.
I Figli di Dune si pone in continuità con la prima miniserie, e cerca un difficile compromesso tra le esigenze narrative, le pretese dei fan, i necessari adattamenti. I puristi trovano una trasposizione inizialmente assai fedele alle pagine, tanto da riservare pochissime sorprese, sia dal punto di vista estetico, sia come svolgimento della vicenda. Le modifiche più notevoli riguardano la seconda e la terza puntata, quelle relative al romanzo I Figli di Dune.
Il cast è per quanto possibile quello originale, con le eccezioni di Lady Jessica, Duncan Idaho, Stilgar, e ovviamente Alia, divenuta adulta. Tra i volti nuovi, si segnala un’insolita Susan Sarandon nei panni di Wensicia. Il personaggio è stato profondamente rivisitato rispetto ai romanzi: in televisione la sorella di Irulan è coinvolta in ogni complotto per rovesciare gli Atreides e riportare sul trono la casata dei Corrino. Alcune novità sono esclusivamente formali, come la diversa morte di alcuni personaggi, o la trasformazione di Leto II, altre introducono variazioni nell’intreccio e portano ad una reinterpretazione dei personaggi. Anche i due gemelli sono impersonati da attori adolescenti piuttosto che da bambini; la produzione ha scelto l’esordiente James McAvoy e la meno nota Jessica Brooks, pur di avere interpretazioni più mature e sfaccettate. La decisione è comprensibile in quanto il sequel si basa soprattutto su intrighi di palazzo, congiure, momenti di crescita interiore oppure di decadimento, e per dare credibilità a quanto avviene i copioni prevedono una buona dose di introspezione. I dialoghi sono importanti più degli effetti speciali o delle scenografie, e quanti si attendevano un susseguirsi roboante e chiassoso di duelli e battaglie resteranno delusi.D’altra parte la serie difficilmente avrebbe potuto rinnovare il senso di meraviglia riproponendo le maestose città, il deserto o i vermi delle sabbie, le usanze Fremen o i poteri delle Bene Gesserit, anche sfruttando qualche miglioria della grafica digitale. La narrazione quindi si focalizza sull’animo umano, rappresentato in tutte le sue sfaccettature, nobili oppure meno onorevoli. Cade Paul Atreides, rampollo di nobile stirpe che ha approfittato della credulità e dell’insoddisfazione dei Fremen pur di riconquistare un trono; identificato con l’essere supremo delle leggende, ha finito per ritenersi davvero semidivino, e ha messo da parte i reali bisogni del suo popolo d’adozione. Cade Alia, incapace di gestire il potere ereditato suo malgrado; diviene preda della follia, o piuttosto viene soggiogata dalla personalità del Barone Harkonnen, in un crescendo di visioni paragonabili ai fantasmi che ossessionano Lady Macbeth. Quanto ai gemelli, sembrerebbero maggiormente consapevoli dei privilegi, dei rischi e dei doveri propri della loro condizione. Ghanima sposa Farad’n in nome della ragione di stato e desiste dai propositi omicidi appena si accorge della profonda onestà dell’uomo, pur mettendo in chiaro quali saranno i rispettivi reciproci doveri coniugali.
Leto invece si incammina sul Sentiero Dorato, ovvero entra in simbiosi con le Trote della Sabbia e poco a poco diviene un pre-verme, un essere dalla pelle ricoperta dalle creature. Molte inquadrature indugiano sul corpo seminudo del giovane con un’insistenza che rasenta il voyeurismo; i primi piani sono finalizzati a esaltare la grazia efebica, in contrasto con la ributtante trasformazione che lo attende. Nell’universo di Frank Herbert ogni ascesa ha in sé gli indizi della decadenza e il potere ha un caro prezzo. Nessun leader sfugge a questa dura legge, neppure Leto II: il ragazzo sceglie di assumere poteri straordinari rinunciando poco a poco alla sua umanità. La pellicola lascia intuire il drammatico destino del futuro imperatore-dio, destinato a divenire un orrido ibrido dall’animo tormentato. Imprigionato in un corpo che di umano ha soltanto il volto e le mani, onnisciente e perciò annoiato dagli eventi, verrà chiamato Verme e sarà un despota crudele e odiato più degli stessi Harkonnen, per disgregarsi e dare vita a nuovi vermi delle sabbie alla fine di un’esistenza plurisecolare. I Figli di Dune ovviamente si limita a far intuire gli eventi narrati nei successivi romanzi, in modo analogo a quanto è stato lasciato trapelare per Paul Atreides in Dune – Il destino dell’universo.
La miniserie approfondisce i personaggi, donando loro credibilità e prevede alcuni momenti d’azione; sono sequenze realizzate con tecniche tradizionali, con scenografie visibilmente posticce, oppure con tecniche di blue screen. La grafica digitale ricrea le città e i palazzi, le astronavi e i vermi, oltre agli ornitotteri, piccoli velivoli simili a farfalle; rispetto alla prima miniserie le immagini ritoccate si integrano con quelle tradizionali con maggiore naturalezza, sebbene alcune sequenze ricordino ancora quelle di un videogame. La resa delle visioni e dei poteri sovrannaturali acquisiti da Leto II risente di un montaggio discutibile; le immagini si susseguono rapidissime come in un videoclip musicale, in contrasto con il ritmo piano riservato alle vicende umane. La sceneggiatura tende a rendere concreti gli elementi mistici o i dilemmi interiori, e se il parto di Chani può conservare una certa suggestione anche grazie ad una musica ispirata a Hans Zimmer e alla colonna sonora del Gladiatore, l’apparizione del Barone Harkonnen può deludere nonostante l’abilità recitativa del bravo caratterista Ian McNeice. Il voluminoso villain svolazza avvolto da una tunica di ciniglia rosso fuoco, come un fantasma d’altri tempi, privando lo spettatore della suggestione di una presenza implacabile che soltanto Alia può avvertire.
E’ ovvio che una trasposizione troppo astratta avrebbe reso la pellicola ancora più ostica per quanti conoscono poco l’universo di Dune; il risultato può essere gradevole, se la platea ricorda di assistere ad un film televisivo di parecchi anni fa e non fa confronti inopportuni con produzioni più ricche, con pellicole ambientate in mondi più scontati e prevedibili, o con film d’essai.
Stavolta non c’è la mano del premio Oscar Storaro a dare un tono teatrale alle inquadrature; la fotografia è curata, e ricorda quella vista in svariati titoli storici coevi, su tutti le trasposizioni di celebri episodi dell’Antico Testamento.
Anche i costumi appaiono più convenzionali: i fan erano rimasti perplessi davanti alle creazioni di Theodor Pistek, ispirate ai fumetti di Moebius e di Jodorowsky, e nel sequel i personaggi indossano abiti meno caratterizzati, spesso realizzati in evidente economia.
Lo scopo delle due miniserie era quello di avvicinare una saga memorabile a spettatori di ogni età, e in questo senso molti compromessi sono inevitabili. E’ comprensibile anche la scelta di lasciare all’immaginazione il legame affettivo tra Ghanima e Leto II: un rapporto incestuoso mai consumato, per la repulsione dell’atto e per la trasformazione subita dal giovane, incapace di generare in quanto simbionte. L’unione tra i due, seppure stipulata per pura ragione di stato come avveniva un tempo tra i Faraoni, viene taciuta in un epilogo più rassicurante. Ed è solo uno dei tanti adattamenti voluti dal regista oppure imposti dai mezzi a sua disposizione; le variazioni sono quasi sempre motivate e movimentano una trasposizione altrimenti fin troppo letterale. Purtroppo possono risultare indigeste a quanti si attendevano una versione fedele alla virgola, oppure una rivisitazione libera e caratterizzata dallo stile tipico di un autore. Il problema più vistoso de I Figli di Dune è l’equilibrio non sempre raggiunto tra la fedeltà assoluta al testo e l’esigenza di offrirne una propria lettura, tra un ritmo narrativo pacato ed introspettivo, e la necessità di stupire ed intrattenere in modo semplice e diretto. Nonostante i limiti la mini serie riesce ad appassionare gli spettatori e li avvicina ad un classico della letteratura di genere senza rinunciare alle riflessioni più mature sulla corruttibilità della natura umana, sul prezzo del potere, sulle conseguenze nefaste delle trasformazioni ecologiche e sociali imposte a una popolazione ignara.
La saga sullo schermo si è fermata ai primi tre romanzi; il quarto si basa sulla trasformazione di Leto II, e con gli effetti speciali accessibili a una produzione televisiva degli anni novanta, la realizzazione di un nuovo capitolo era improponibile. Oggi la grafica digitale permette veri e propri miracoli ed abbatte i costi: periodicamente i media annunciano un reboot e prima o poi le vicende di Arrakis torneranno sullo schermo. C’è solo da sperare che si tratti di un remake intelligente, pronto a cogliere gli spunti di riflessione e la poesia di una space opera lontana anni luce dai soliti stereotipi.
Cuccussette vi ringrazia per la lettura.
La recensione è stata edita da FANTASTICINEMA https://www.fantasticinema.com/i-figli-di-dune/
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