IL VENDICATORE DI CORBILLERES
Oggi i bambini delle scuole elementari riproducono nei cortili giochi e danze conosciuti attraverso la serie coreana Squid Games, destinata ai maggiori di quattordici anni. A gridare allo scandalo sono adulti che, probabilmente, sono cresciuti con programmi televisivi altrettanto poco attenti alla sensibilità dei piccoli. La televisione degli anni Settanta proponeva trasmissioni che dovevano andar bene a tutti, con buona pace degli scandalizzati di oggi. Esistevano solo due canali, e non c’erano network tematici per bambini; al massimo c’era la tv dei ragazzi pomeridiana, e coinvolgeva anche adulti proprio perché c’era poco d’altro. Vigeva la regola del ‘dopo Carosello tutti a nanna’, e quella doveva bastare per i più piccini; gli altri seguivano gli spettacoli con gli adulti, che facevano da filtro, spiegando loro la finzione. Sceneggiati e trasmissioni della sera potevano quindi trattare temi espliciti, magari ritenuti scabrosi dalla società di quegli anni, a patto di limitarsi nelle sequenze più esplicite.
Il vendicatore di Corbillères (La Poupée sanglante) arrivò in prima serata su RAI 2 nel 1977. E’ uno sceneggiato francese in sei puntate tratto da un feuilleton di Gaston Leroux, padre anche del famoso Fantasma dell’Opera. Lo scrittore francese narra la tragica vicenda di Benedict Masson, un poeta e rilegatore accusato ingiustamente di aver ucciso, fatto a pezzi e bruciato nel forno della casa di campagna i corpi delle sue apprendiste. Condannato alla ghigliottina, accetta di donare il corpo alla scienza pur di avere il cervello innestato in un bellissimo automa costruito da un medico che studia i trapianti di organi e tessuti. Con il nuovo aspetto, l’automa fa vendetta, mettendo a nudo la doppia vita del sindaco, dedito a pratiche simil vampiresche. La vendetta lo appaga solo in parte, in quanto è cosciente di essere solo una macchina, destinata a dover rinunciare all’amore.
Questa miniserie ambientata nella placida provincia francese è tutto tranne che un innocuo sceneggiato da massaie annoiate in cerca di emozioni forti. E’ invece una vicenda truce pervasa da un erotismo nero e malsano, descrive la violenza che si annida nella ‘gente perbene’ che commette reati o ne è complice perché vittima dei pregiudizi e degli stereotipi e che approva la pena di morte. Leroux sfrutta i meccanismi di facile presa della narrativa d’appendice per dispensare riflessioni cupe sulla società e instillare dubbi sulle conquiste della scienza. L’atmosfera opprimente è quella di un piccolo paese dove tutti sanno tutto di tutti, l’omertà è costume e se a sgarrare è una figura ritenuta importante tutti chiudono un occhio. I primi delitti avvengono nella quasi indifferenza della gente e delle autorità, le ragazze sono giovani graziose, di umile origine e prive di particolari doti, e tutte spariscono dopo aver lavorato col rilegatore. Sono vittime di un nobiluomo vizioso e della sua nicchia di amici, infatuati dal culto della dea Kali e mecenati di medici e ballerine indiane, però è più facile e comodo credere ai delitti di un uomo disadattato emulo di Landrou. La convinzione fa miracoli nel microcosmo di Corbillères, la stessa moglie del nobile si convince di venire trasformata in vampira, grazie a strumenti inventati dalla medicina dell’epoca e rituali indù, e da vampira si comporta. Si ammicca alla necrofilia con tanto di seppellimento prematuro della donna e macabre richieste testamentarie. Le indagini scendono in dettagli morbosi; i dialoghi sono esplicativi e lasciano spazio all’immaginazione degli spettatori. Niente viene mostrato in modo diretto, però uno spettatore adulto sa bene cosa poter immaginare dentro al forno acceso o dietro gli sguardi dei poliziotti che scrutano fossi e canali.
Oltre alla brutale violenza raccontata con abbondanza di particolari, e all’erotismo fetish della nobildonna vampira e della ballerina indiana, ci sono tante riflessioni decisamente adulte. Esse vengono contrabbandate all’interno di una narrazione popolare realizzata con dignitoso mestiere, contraddistinta dalla fotografia scialba e dai ritmi lenti tipici delle produzioni televisive. Benedict è un uomo emarginato a causa del suo aspetto, la bruttezza lo condanna ad essere il capro espiatorio e ad avere torto in qualsiasi situazione, anche quando avesse ragione o fosse innocente. Come poeta, viene apprezzato fino a quando lo si legge; quando si presenta di persona, gli uomini lo deridono, le donne lo scansano o se particolarmente sensibili, lo accettano come amico. Guai a lui, se dovesse mai provare istinti carnali naturali oppure sognasse di farsi una famiglia, desideri innocenti e legittimi come qualsiasi essere umano può avere. Il talento artistico è incapace di compensare la bruttezza e l’inadeguatezza in società, anche perché rifiuto dopo rifiuto il poveretto si è fatto sempre più schivo e goffo nei rapporti interpersonali. Il regista Marcel Cravenne accettando di dirigere una trasposizione del romanzo, ha il coraggio di mostrare la discriminazione senza edulcorarla, anzi, la rappresenta in tutto il suo crudele ‘effetto halo’. Ovvero chi è nato bello riesce a mettersi in mostra anche per capacità che in teoria non avrebbero nulla a che vedere con l’aspetto esteriore, e chi è brutto viene azzittito e annichilito anche per eventuali talenti artistici che hanno poco a che fare con l’estetica.
Va in scena anche il vizio dei potenti di provincia, dediti ai peggiori vizi e sempre tollerati in virtù dei soldi e del prestigio sociale acquisito in tempi feudali. Nessuno toccherebbe il sindaco o il barone, il loro nome o ruolo sono garanzie di ragione e virtù anche quando la realtà è molto differente. La nobiltà e i soldi comunque non risparmiano a questi uomini di potere di finire per credere a qualsiasi panzana venga rifilata loro, tanto che il confine tra l’ingenua fede in Kali e la consapevolezza di giocare a un sadico gioco di ruolo dove gli umili sono prede pare assai labile. Le pagine ammiccano al sovrannaturale, al vampirismo, salvo poi ridurre tutto a un club di feticisti estremi che uccidono per soddisfare il proprio piacere e incastrano un disgraziato, colpevole solo di essere brutto e piacere poco alla gente.
Gli accenni al soprannaturale, al gotico stile Carolina Invernizio fatto di seppellimenti prematuri, fantasie macabre, catalessi e fantasmi nella nebbia forse sono gli elementi più deboli della vicenda, che è nata per venir edita a puntate. Nel romanzo d’appendice spesso la vicenda progrediva a seconda del gradimento dei lettori, cambiava anche in itinere. L’idea dei vampiri esotici si smorza, sostituita dal dramma sentimentale e fantascientifico, probabilmente ritenuto di maggiore impatto su una platea di lettori.
La fede può nascondere tornaconti e violenza, e la stessa scienza mostra i suoi limiti, dovuti alla fragilità degli esseri umani. Jaques, chirurgo di chiara fama, non esita a fare trapianti dissezionando vittime più o meno consapevoli, raccattando i pezzi nelle patrie galere e cucendoli come un novello Frankenstein. Si presta a realizzare Gabriel, un automa in parte meccanico in parte organico. Il buon medico lo crea pur di soddisfare le richieste della fidanzata, e lo considera una bella bambola da donarle, salvo capire troppo tardi il suo errore. Il trapianto del cervello dona all’automa i ricordi e l’emotività del poeta e in questo modo l’androide è superiore a un comune mortale. Jaques si rende conto di come in un menage a trois un essere umano come lui è rappresenterebbe l’elemento debole. Di conseguenza vuole distruggere la sua creazione, comportandosi come un qualsiasi villico cornificato. Jaques rinuncia a comportarsi come uno scienziato moderno, animato da propositi simil transumanisti e pronto a proporre la trasmigrazione delle menti in una forma corporea più forte, agile e bella, e neppure manifesta la voglia vincere qualche importante premio per diventare ricco e famoso. Eppure la vicenda si svolge nei primi decenni del Novecento, con le auto a disposizione dei pochi ricchi e un mondo ormai lontano dalle fantasie del Romanticismo, e con il Superuomo di Nietzche a suggerire alla Scienza di puntare verso un’evoluzione ulteriore dell’umanità. Non basta il finale convenzionale e rassicurante a fare davvero chiarezza sul rapporto con la ragazza.
Nessuno si salva in questa vicenda, nessuno ne esce pulito, nemmeno la dolce e capricciosa Christine Gaillard, fidanzata del medico che in realtà vorrebbe l’ardente sensibilità di Masson il poeta e il corpo angelico dell’automa dei suoi sogni. Passa così da una relazione tossica all’altra inappagante, dato che apprezza senza entusiasmi il rampante chirurgo. Ovviamente le appare meno sgradevole di Masson ma intellettualmente si rivela privo di fantasia e comunque, davanti all’eterea bellezza di Gabriel è anche lui penosamente inadeguato.
A suo tempo le spettatrici impazzirono per l’appariscente Ludwig Gaum, interprete di Gabriel presto scomparso dagli schermi, o meglio, riapparso in ruoli secondari, in produzioni televisive, col nome di Lee Godart. Che fosse poco espressivo, era necessità del copione, la recitazione doveva rendere tutto l’impaccio di una creatura artificiale, che non mangia o beve e che si anima se caricata con una chiave apposita. Tra l’altro, almeno nell’edizione italiana, è doppiato dallo stesso attore che dà la voce a Masson, in modo da suggerire che qualcosa dello sfortunato poeta sia trasmigrato nell’angelico Gabriel.
Nonostante l’aspetto dimesso, le tante ingenuità, le approssimazioni di un format che deve autocensurarsi per poter venire distribuito, lo sceneggiato è memorabile proprio perché sfida tanti tabù di ieri e di oggi.
Cuccussette vi ringrazia della lettura.
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