LUCI  LONTANE

Quando si parla di morti viventi, si pensa subito ai grandi horror di George A. Romero, ricchi di momenti paurosi e animati da una feroce critica alla società consumistica. Luci lontane racconta una storia particolare, con zombie diversi dalla solite carcasse putrescenti che si aggirano affamate di carne umana.
In Luci lontane, una pellicola poco conosciuta diretta nel 1987 diretto da Aurelio Chiesa, i morti viventi sono ben diversi, e ispirano malinconia invece di orrore.
In un piccolo centro termale romagnolo un bambino orfano crede di incontrare la madre morta da pochi giorni in un parco vicino all’antica rocca che domina i borgo. Suo padre Bernardo non crede alle storie che il ragazzino racconta, le ritiene fantasie infantili. Quando però il figlio gli consegna la collana col crocifisso d’oro che doveva essere stato sepolto con la moglie e l’esumazione rivela una bara vuota, si mette in cerca della verità. Nel frattempo anche un senzatetto morto qualche giorno prima si rivede in paese. Bernardo infine incontra la moglie, o piuttosto il suo corpo animato da un’entità aliena pacifica. La resurrezione dei morti è la conseguenza dello sbarco sulla Terra di una colonia di alieni incorporei, luci che possono possedere i corpi dei deceduti per poter vivere e che attendono pazientemente il naturale trapasso per potersi incarnare.
Bernardo sarebbe felice di convivere con la moglie rediviva anche sapendo a verità, e accetta l’aiuto della maestra supplente che si interessa al fenomeno in quanto insegna al bambino. Le autorità male accettano questi ritorni dalla morte e intervengono. Nel tentativo di catturare la rediviva la polizia provoca un incidente in cui la moglie muore definitivamente e la maestra resta gravemente ferita. Quando la supplente guarisce rapidamente dalle condizioni disperate in cui versava, e altre persone malate si riprendono, Bernardo capisce cosa accade… Nonostante l’incomprensione delle autorità e la barbarie con cui vengono  trattati quanti sono o vengono scambiati per morti tornati dalla tomba, la speranza alla fine rimane…
Più che un horror, quello diretto da Aurelio Chiesa è un film di fantascienza senza grandi effetti speciali, basato sull’introvabile e poetico romanzo Venivano dalle stelle di Giuseppe Pederiali. C’è qualche sequenza ricca di mistero e pathos, ma sembra un accessorio in una vicenda crepuscolare e a suo modo intimista. E’ la malinconia a dominare la vicenda, e la riflessione riguarda temi esistenziali.
Che ci sia o no un aldilà, ha poca importanza: nessuno torna dalla morte per davvero, e quanto resta all’uomo è la speranza religiosa o l’illusione di un miracolo crudele. Le entità che hanno fatto un lungo viaggio, siano essenze angeliche o visitatori di mondi perduti nella galassia, non hanno memoria dei vissuti del corpo ospitante, quanto esiste nella loro esperienza è del tutto differente dalla nostra realtà. La gente però ha bisogno di illusioni, e anche Bernardo vuole credere nell’impossibile, per quanto sia l’unico a conoscere tutta la verità. Che lo faccia per disperazione, o perché incapace di vivere da solo, o per il bene del bambino, accetta la presenza aliena in tutta la sua disarmante dolcezza, e quando viene a mancare spera in un nuovo miracolo.
Si medita sul valore della corporeità, su quanto ci renda accetti o sgraditi: gli alieni usano corpi ‘buttati’ dagli uomini per poter avere un corpo con cui interagire. Sono un popolo pacifico, e attendono il momento del trapasso per appropriarsi di quanto al defunto non serve più. Se il nuovo corpo è ferito o malato lo riparano e se dovesse morire, possono trasmigrare ancora mantenendo i ricordi delle precedenti incarnazioni, come le anime antiche ed illuminate della tradizione buddhista. Si ignora se potrebbero vivere in forma di luce, comunque desiderano stabilirsi sulla Terra in armonia e in una forma che permetta loro di poter comunicare, usare utensili e inserirsi con minore difficoltà in un mondo sconosciuto. Da un lato ci sono persone come Bernardo che accettano la presenza aliena grazie all’illusione data dall’aspetto, dalla carnalità; dall’altra ci sono le autorità che rifiutano ogni possibile anomalia, almeno fin quando non sono toccati personalmente dalla tragedia. Per queste persone il corpo coincide con l’identità della persona, è un’unità inscindibile; soprattutto non vogliono porsi domande scomode, che li porterebbero a risposte capaci di mandare in frantumi le certezze concrete e radicate.
Queste riflessioni affiorano da un intreccio che cede a tratti al gusto melò; sebbene tutto sia poi finalizzato a stimolare la riflessione ci sono momenti drammatici che fanno leva sul sentimento. 
Le scene di sesso tra Bernardo e la maestra, poco esplicite ma eloquenti, non sono un modo per cercare di fare cassetta, perché sarebbe inutile. Questa pellicola resterebbe comunque comunque troppo lontana dagli standard commerciali correnti. Sembra in apparenza un film di serie B, ma lo è solo in parte. Il grosso del pubblico si annoierebbe davanti a una pellicola che promettesse orrori o omini verdi e invece puntasse sull’atmosfera crepuscolare ricordandoci che nessuno torna davvero dalla morte, che i mostri sono le autorità e che gli alieni potrebbero esserci ma essere così diversi da noi da non poter rapportarsi. Quelle sequenze erotiche sono indispensabili per rivelare il ritorno nel corpo della supplente dello stesso individuo che aveva animato la moglie e fanno capire la verità al protagonista e agli spettatori.
L’ambientazione della cittadina termale esaspera il contrasto tra cura del corpo e cura dell’anima, oltre ad essere un’interessante sfondo ed accentuare la malinconia che grava su tutta la vicenda. Di solito le località che vivono grazie alla presenza di terme sono posti pieni di divertimenti. Nella località romagnola teatro dello sbarco alieno invece non c’è niente di tutto questo, e la vita sembra quella placida di un piccolo borgo, con tanto di funerali vissuti come eventi sociali al pari di matrimoni e nascite.
Gli attori funzionano, hanno una recitazione sopra le righe che bene si adatta a un’atmosfera allucinata, e i copioni partono da un senso di realistico sgomento fino a toccare il grottesco.
La fotografia cupa, con tanti notturni e interni e poche scene diurne all’aperto dove comunque i colori sono spenti e quasi polverosi acuisce il senso di malinconia.
La colonna sonora è splendida, con il violino di Angelo Branduardi che sostiene davvero alcune sequenze.
Non è un film da popcorn, e proprio per questo entra nell’anima.

 

Cuccussette vi ringrazia della lettura.

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