I DUE MONDI DI CHARLIE

 

Fiori per Algernon (Flowers for Algernon), dello scrittore americano Daniel Keyes, è un racconto breve che si aggiudicò il premio Hugo, pubblicato nel 1959 sulla rivista pulp The Magazine of Fantasy & Science Fiction. Qualche anno più tardi, nel 1966, ampliato e trasformato in un romanzo omonimo, vinse anche il premio Nebula.

In esso l’autore immagina la storia di un inserviente ritardato che, attraverso rivoluzionarie scoperte della neuroscienza, riesce a recuperare un’intelligenza normale, e addirittura a diventare un genio. Purtroppo, però, il miracolo si rivela effimero, e il superuomo torna presto a essere l’ebete di un tempo. La vicenda è narrata in prima persona, attraverso i diari che il protagonista scrive.

Nel 1968 Fiori per Algernon è diventato un film, I Due Mondi di Charly (Charly), diretto da Ralph Nelson, autore impegnato in difesa delle minoranze e nella lotta contro i pregiudizi (due anni più tardi sua fu la regia Soldato Blu).

La trasposizione elimina gli episodi più cupi del romanzo, restandone fedele solo a tratti. Affidandosi alla sceneggiatura di Stirling Silliphant, il film lascia immaginare il doloroso passato del protagonista, facendoci conoscere un uomo fragile ma ottimista; Charly è a suo modo autosufficiente, vive in una squallida pensione, lavora in un panificio, spesso è oggetto di beffe, eppure sogna di migliorarsi, e per farlo frequenta le scuole serali. L’unico elemento fantastico della vicenda, la miracolosa operazione, viene liquidato in poche sequenze.

Dopo l’intervento, il protagonista può finalmente condividere le esperienze dei giovani ‘normali’. Lo vediamo tra gli hippy, oppure in sella a una rombante motocicletta… Le tappe del suo percorso di maturazione vengono sintetizzate con un uso, forse eccessivo, di tecniche di split screen che visivamente appaiono datate, legate alla moda della psichedelia e in contrasto con i toni intimisti della narrazione. Possono sembrare facili concessioni alla moda del momento, ma in realtà risultano funzionali nel rendere ancora più stridente il contrasto tra la vita del Charly ebete e la sua nuova condizione. La relazione con un’estroversa pittrice e il legame con la famiglia d’origine, presenti nel testo di Keyes, scompaiono; viene dato rilevo al legame con l’insegnante della scuola serale, una psicologa che si occupa del suo caso. Il rapporto, seppure narrato con toni melò, mette in luce la tremenda disarmonia del cambiamento, e l’infelicità che ne deriva.

Gli effetti dell’esperimento, a cui Charly volontariamente si sottopone nell’ardente desiderio di rimuovere le differenze che percepisce tra sé e gli altri, finiranno per influire negativamente sul suo carattere: l’uomo socievole e ottimista, incapace di provare rancore, inizierà a vedere il mondo con realistico cinismo, scoprirà la banale piattezza della vita della gente comune, metterà a nudo i limiti e la meschinità degli stessi scienziati che l’hanno usato come cavia, svilupperà gusti e abitudini che lo separeranno dalla gente ancor più di quanto non facesse il suo ritardo mentale. Se prima era lo zimbello di persone rozze, ma capace di ispirare pietà o empatia nei cuori più sensibili, ora, da genio disilluso, diffidente e pessimista, si attira le antipatie di tutti. La conquista della genialità è paragonabile alla cacciata dall’Eden: il frutto dell’albero proibito dona piena consapevolezza, ma priva dell’innocenza. Il superuomo resta solo, perché è incapace di calarsi nei panni di coloro che lo circondano, condividerne gli interessi, partecipare con entusiasmo alle loro diverse esperienze, capire i sentimenti. La prodigiosa intelligenza di Charly non è accompagnata dalla maturazione affettiva: sul piano emotivo è simile a un bambino, immaturo ed egocentrico.

L’intelligenza, dunque, non fa altro che renderlo ancor più emarginato.

La solitudine diviene ancor più dolorosa quando Charly scopre la transitorietà degli effetti della terapia. Il topo Algernon (che l’aveva preceduto come cavia dell’esperimento) si ammala, regredisce e infine muore: Charly capisce che prima o poi seguirà lo stesso destino.

La pellicola in realtà edulcora l’epilogo, ma la scelta di un finale meno amaro nulla toglie al forte senso di critica rivolta al mondo della scienza: i medici mostrano ben pochi scrupoli morali, preoccupati come sono di vincere premi e guadagnarsi sovvenzioni o celebrità. Trattano i minorati con sufficienza, interessandosi a loro solo quando intravedono la possibilità di mettersi in luce compiendo esperimenti rischiosi. C’è poca differenza tra il giovane ebete e le cavie del laboratorio: tutti sono soggetti sacrificabili. I miracoli compiuti in nome della scienza hanno costi elevati, spesso taciuti per convenienza: la massa ignorante deve solo credere nello sconfinato potere della medicina, e foraggiare la ricerca, senza porsi domande etiche.

Il mito del progresso viene demolito dal film di Nelson, che ridefinisce il concetto di felicità e condanna i test di intelligenza, spesso fuorvianti e inadatti a misurare le vere abilità degli individui. Nel caso del protagonista sono inutili torture: la sua disabilità è evidente (ha una memoria molto labile, parla stentatamente, appare goffo nei movimenti, legge e scrive con fatica), ma nessuna scala può misurare il suo ottimismo, la sua forza di volontà, l’autodisciplina nel condurre una vita autonoma. La psicologia e le neuroscienze si rivelano incapaci di stabilire cosa sia veramente l’intelligenza. La medicina dona false speranze e fallisce clamorosamente. L’ex minorato aveva creduto di poter testimoniare al mondo intero il successo della cura, si era fatto paladino di tutti gli uomini afflitti da disabilità mentali, ma giunge poi alla consapevolezza dell’avvilente destino che lo attende, e finisce col profetizzare un domani popolato da televisori e un’umanità infelice oppressa da nuove armi, guerre e discriminazioni.

Ralph Nelson sfrutta una trama molto esile, tutta intimista, poco ‘fantascientifica’ e poco spettacolare, per dare voce alla contestazione. L’attacco colpisce le vane promesse della scienza, la psicologia che inquadra le persone come se fossero oggetti da catalogare. Lo stesso sistema educativo è sotto accusa: il nozionismo è sorpassato e anche i metodi della nuova pedagogia deludono. La cultura genera uomini infelici, quando si declina in un sapere specialistico e mette da parte la maturazione globale della persona. Né gli eccessi degli hippy e dei motociclisti offrono di meglio: non basta contestare i valori tradizionali per trovarne un’alternativa.

I Due Mondi di Charly è quindi un film particolare, tratta temi molto profondi e solo apparentemente asseconda la moda del periodo. Se ci si limita alla forma, è una pellicola che accusa il peso degli anni: le inquadrature sono prive di virtuosismi, lo split screen è fuori moda, il montaggio appare lento, i dialoghi talvolta prendono il sopravvento sulle immagini, quasi fosse un dramma radiofonico. Cliff Robertson nei panni del protagonista è perfetto, la sua interpretazione viene valorizzata dai numerosi primi piani; anche i comprimari sono all’altezza, purché si apprezzi una recitazione di stampo teatrale.

A fare davvero la differenza è il pluripremiato racconto che sta alle spalle del film. In America il romanzo viene consigliato agli studenti, nonostante la prosa sui generis. Ed è, in effetti, un classico imperdibile.

PS per piaccere dikano al porfesor Nemur di non esere cosi per malloso cuando la giente ride di lui e averebe più amici. È faccile avere ammici se si lassia che la giente ride di noi. Dove che vado avvrò tanti ammici.

PS per piaccere se posono metano cualke fiore su la tomba di Algernon nel kortile.

 

 

Cuccussette vi ringrazia della lettura.

Questa recensione è stata edita da TERRE DI CONFINE https://www.terrediconfine.eu/i-due-mondi-di-charly/

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