IL NOSTRO AGENTE FLINT

Bei tempi, quando c’era l’Agente Flint che poteva fare tutto quello che 007 non riusciva o non si azzardava a fare! L’agente segreto Derek Flint doveva essere la risposta americana a James Bond, che negli anni Sessanta era interpretato esclusivamente da Sean Conenry. Per fortuna, più che riproporre le gesta della spia con licenza di uccidere in versione americana gli sceneggiatori Hal Fimberg e Ben Starr esagerarono con l’umorismo. Probabilmente erano consapevoli di avere disponibilità finanziarie da B-movie e hanno scelto di evitare un confronto diretto con le più ricche produzioni britanniche. Le avventure di Flint si distanziano dai toni modesti e sottotono delle tante spie cinematografiche che avrebbero voluto essere James Bond ma non ci potevano riuscire, perché non avevano effetti speciali, stuntman e coprotagonisti decorosi a sostenere le loro imprese.  Con intelligenza i due film dedicati a Derek Flint ( Il nostro agente Flint e A noi piace Flint) ironizzano su tutto quanto caratterizzava 007, o lo ha contraddistinto fino all’era Craig: il suo fascino indiscusso di maschio dominante, le sue abilità speciali, i gadget più lussuosi e bizzarri, i complotti planetari, le locations da favola, le belle donne pronte a cadere ai suoi piedi...

Our man Flint, Il nostro agente Flint, è una commedia spionistica molto distante dal glamour british del più famoso 007 o dalla verosimiglianza dell’Agente Palmer, teneramente sexy e decisamente antieroe.
L’intreccio è semplicissimo, lineare e anche poco originale: c’è l’ennesima organizzazione criminale che vuol dominare il mondo cambiandone il clima o provocando catastrofi a proprio capriccio e c’è la spia ‘buona’ che cerca di fermare i megalomani di turno. Se ci si limita alla trama, questo film sa di deja vu, di soggetto ammuffito e polveroso già a suo tempo. Forse oggi può sembrare davvero un’avventura banale e prevedibile, per il fatto che la pellicola è poco ricordata come capostipite di un filone. Ha infatti aperto la strada a reinterpretazioni di 007 meno ingessate e più inclini al sorriso. Senza il successo di Flint al botteghino probabilmente non avremmo avuto la versione ‘ufficiale’ più disincantata e giocosa della spia, quella di Roger Moore. Ci sarebbero state egualmente le parodie sempre più scollacciate, perché qualsiasi personaggio divenga famoso stuzzica l’umorismo goliardico e le battute da caserma. Probabilmente non sarebbero state realizzate versioni garbate e spiritose, perché nessun avrebbe creduto che potessero avere successo. Non è un caso se Vianello, attore feticcio di una commedia brillante e mai volgare che oggi non ha eredi, interpretò Il vostro superagente Flit , personaggio ispirato direttamente dal buffo Flint e non da Bond.
La trama esilissima è solo un pretesto per dare spazio alle innumerevoli gag che, soprattutto nei primi due terzi della pellicola, sono dirompenti. Questi momenti comici sono ancora oggi attuali, poiché l’idea di 007 che abbiamo è solo in parte quella umanizzata e resa sofferta da Daniel Craig. Nell’immaginario comune Bond è sempre la spia bellissima e affascinante, vestita con eleganza estrema, accessoriata con i gadget più letali e lussuosi, capace di scazzottarsi e non avere un capello fuori posto o una goccia di sangue sullo smoking, di sparare e bere Martini, tra scenari mozzafiato. Niente di meglio che mantenere queste caratteristiche, a partire dal protagonista.
La scelta di James Coburn si è rivelata perfetta, in quanto l’attore sprigiona fascino, e con la sua personalità riesce a tenere in piedi lo spettacolo, anche quando, soprattutto verso il finale, il ritmo rallenta. Il personaggio è una caricatura di James Bond, mixato sapientemente con Doc Savage e con gli eroi del pulp classico. E’ dotato di una bellezza non convenzionale, forse apprezzata di più oggi che un tempo, quando i canoni estetici  preferivano lineamenti classici e rifiutavano i capelli grigi.  Per renderlo più incredibile e ridicolo, il non più giovane Flint pratica bizzarre arti marziali strillando come un tacchino in amore, può fermare il cuore per molti minuti facendosi credere morto, è un abile spadaccino, balla meglio dei danzatori russi, si traveste cambiando aspetto, pratica il pronto soccorso ricorrendo a oggetti d’uso comune un po’ come MacGyver e possiede gadget lussuosi. E’ più affine a Sherlock Holmes che a James Bond: è un gourmet in cucina, un viveur raffinato o meglio, è  un tuttologo patentato. Inoltre è pronto a uccidere senza farsi troppi complimenti. Ha sempre l’accessorio tecnologico più avanzato, si accorge sempre per primo degli agguati, ha più accessori di Batman e…ha ben quattro donne tutte per lui. In pratica è quasi un super eroe con un super harem, e sarebbe un insopportabile privilegiato se non fosse volutamente caricaturale. Si ride di questo suo essere superuomo, e lo si deride, perché è una creatura vistosamente artificiale, un supermaschio da operetta. Viene scelto per salvare la Patria nonostante abbia fama di essere inaffidabile, donnaiolo, ribelle: o piuttosto, viene selezionato perché gli altri agenti, quelli seri, ci hanno rimesso le penne. Non è il migliore, il più coraggioso, il più fedele, e i valori patriottici sono la sua ultima preoccupazione, tanto che inizialmente rifiuta l’incarico. Lo spettatore lo acclama come eroe perché è dannatamente sexy ed inesorabilmente ridicolo nello stesso momento: le donne adorano la sua faccia da schiaffi e gli uomini ridono delle spacconate di cui si rende protagonista.

Proprio a causa della bravura di Coburn e di come è sviluppato il personaggio, la  pellicola funziona meglio nella parte iniziale e centrale, perdendo un po’ la verve verso il finale.  Alla fine la storia deve pur avere un epilogo, e quindi il film marcia spedito verso la conclusione limitando le gag dell’improbabile spia.
Ci sono sequenze e situazioni che oggi non potrebbero venire mostrate in un film di larga distribuzione. Le tante battute sessiste verrebbero senza dubbio censurate nonostante che, alla prova dei fatti, il personaggio femminile dica e faccia molto di più delle succubi Bond Girl. Mentre sto scrivendo, voci allarmate sui social media lasciano immaginare la ‘purga’ ai danni dei libri di Ian Fleming e del povero James Bond, in nome dell’inclusività declinata in ogni aspetto delle vicende rappresentate. Per il disgraziato Flint, una rivisitazione in chiave woke equivarrebbe a lasciare sì e no mezz’ora di proiezione.
Eppure il film non mi sembra invecchiato malissimo, anzi… vive di scenette ben ritmate che si sommano descrivendo la spia e le sue manie, il rapporto teso con il superiore, le advances. Oppure sono le scene d’azione  tragicomiche a far avanzare la vicenda, con agguati nei gabinetti e risse in trattorie tipiche, giri in taxi sui sette colli, fughe in modesti container adattati a roulotte. 007 cavalca le mode degli sport estremi pur di dare pepe alle sue scene d’azione, e usa tanti veicoli e velivoli ideati apposta per lui. Vuole essere avveniristico, portare le sue gesta oltre il periodo in cui Ian Fleming le scrisse, e gli effetti speciali sono l’anima delle imprese. Molte riprese immortalano luoghi esotici, alberghi di lusso, monumenti importanti. Flint si accontenta di qualche scazzottata e di qualche semplice sparatoria. Invece che le Bahamas o l’ Estremo Oriente, i set sono fondali allestiti in interni o comunque in luoghi più modesti che dovrebbero dare l’idea delle prestigiose locations ma tradiscono l’artificio.  
Che i mezzi a disposizione non siano neppure lontanamente paragonabili a quelli a disposizione della saga di 007, lo si capisce da tanti dettagli. Le riprese avvengono in interni e  c’è tanta cartapesta nelle scenografie. Le catastrofi sono sequenze di footage di documentari relativi ai monsoni o ai vulcani. Addirittura una gag è proprio giocata sull’idea di una strada con tanto di locali ricostruita sul momento da abili figuranti, e poi fatta scomparire. Gli stuntman sono un piccolo gruppo e intervengono in brevi sequenze d’azione; non ci sono inseguimenti di sorta, gli effetti speciali sono inesistenti, proprio come nei film di serie B del periodo. L’evidente povertà ha comunque una propria estetica, poiché vengono radunati sui set oggetti e abiti tipici del 1965, anno di realizzazione della pellicola. Flint appartiene al gusto di quell’anno, con gli arredi coloratissimi e i capelli cotonati, con i computer che occupano intere pareti e i razzi che decollano sbandando. E’ datato 1965 e non pretende di continuare a sembrare moderno in un imprecisato futuro, quando i prodigi della tecnologia applicata avranno reso i gadget oggetti alla portata di tutte le tasche, facilmente reperibili nei supermercati cinesi o su siti di vendite on line. Paradossalmente invecchia meglio di 007, diventa vintage proprio perché accetta che il tempo passi e che i suoi anni si vedano tutti, piuttosto che fare i salti mortali per apparire contemporaneo alla realtà in cui vive lo spettatore. La storia si svolge nel passato, non in un presente alternativo o in un imprecisato futuro.  
La bravura degli interpreti fa la differenza, insieme alla relativa novità del soggetto.

Cuccussette vi ringrazia della lettura.

Questa recensione è stata edita da FENDENTI E POPCORN

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