JUNGLE CRUISE
Il Jungle Cruise è da anni un’attrazione dei parchi Disney. Consiste in una navigazione su barche teleguidate in un percorso fluviale che riproduce una giungla tropicale, con parecchi animatronic di animali selvaggi che sbucano qua e là sulle rive. Ci sono diverse scenografie che riproducono accampamenti di guerriglieri, templi, cascate, villaggi di cannibali, il tutto completato da piante artificiali, suoni di sottofondo e una guida che annuncia con battute umoristiche vecchio stile l’entrata in scena di questa o quella belva. Come gran parte delle attrazioni di quel tipo, è perfetta per bambini e preadolescenti, o per teenager e adulti che vogliono far caciara paragonando bestie e selvaggi ai professori, al capufficio, ai condomini, ai parenti meno graditi. Oltre l’adolescenza, e se si manca dello spirito adatto anche prima, l’escursione si trasforma in uno spettacolo kitsch abbastanza deludente. I limiti di un’attrazione del genere sono probabilmente inevitabili: per quanto ben fatte le creazioni sono comunque vistosamente artificiali, i i soggetti non possono esagerare con scene violente o macabre inadatte ai bambini, e il percorso scorre piano senza discese improvvise. E’ una giungla rimasta ai tempi del Tarzan di Johnny Weissmuller, non è quella dei cannibali di Ruggero Deodato. Inoltre manca l’interattività che poteva fare la differenza, e adulto o bambino, lo spettatore può solo starsene seduto e ammirare gli scenari di vetroresina e plastica ben dipinta che gli sfilano davanti, senza poter fermarsi, rivedere, interagire con l’ambiente e vivere una ‘sua’ avventura.
Nonostante queste caratteristiche decisamente vintage la Disney nel 2020 ha realizzato un film omonimo. Un team di sceneggiatori ha imbastito una storia sull’altrimenti prevedibile giro in barca. Jungle Cruise, diretto da Jaume Collet-Serra, è nato così, con l’intento di intrattenere le famiglie e magari lanciare una nuova fortunata saga come avvenne per i Pirati dei Carabi.
La vicenda mette insieme tanti stereotipi del cinema di avventura, da Indiana Jones a Pirati dei Caraibi, a soprattutto si ispira a quel gioiello de La Regina d’Africa. Il tutto viene rivisitato con mentalità più meno inclusiva, e con adattamenti che rendono lo spettacolo adatto ai bambini d’ogni età.
La vicenda sarebbe ambientata nel 1916, e la tecnologia è più o meno quella dell’epoca, però i personaggi si comportano in modo assai più moderno. L’emulo di Indiana Jones è Lily Houghton ( Emily Blunt ), una scienziata britannica che attraversa l’Oceano col fratello MacGregor ( Jack Whitehall ) per recarsi in Amazzonia. La donna vuole recuperare un fiore leggendario che dovrebbe curare ogni malattia e che già è stato cercato senza apparente successo da una spedizione di conquistadores. Per raggiungere la mitica località dove crescerebbe la pianta è costretta a chiedere aiuto al sedicente Frank Wolff (Dwayne Johnson), squattrinato proprietario di una barca che porta i turisti in navigazione sul fiume. Il viaggio ha inizio, e tanti sono i pericoli, alcuni orchestrati dal furbo skipper che vuole abbindolare i turisti per estorcere loro qualche soldo in più, altri sovrannaturali. Tra inseguimenti, magie e un pizzico di romanticismo il lieto fine è assicurato, e facilmente intuibile, appena viene rivelato il passato di Frank.
Il film sta in piedi grazie a un ottimo ritmo, un montaggio vivace che non perde colpi, la grafica digitale che fa miracoli o quasi. Certo, i pericoli sono quelli di sempre: le rapide, i selvaggi, i non morti, le belve, le trappole, i rivali… Ogni cosa è al suo posto, nel caos di una giungla raccontata e addomesticata sappiamo che prima ci saranno le rapide e le cascate, poi belve a volontà, poi i cannibali , più o meno nell’ordine in cui li troveremmo se si fosse saliti sulle barchette del parco di divertimenti. Va riconosciuto che le sequenze sono esteticamente davvero belle e, almeno a una prima visione su grande schermo, incantano. La grafica digitale rinuncia ad avere un effetto verosimile ed esagera ogni dettaglio paesaggio, creatura e sfida, proprio come era avvenuto nella saga dei pirati. Le scene sono quindi coloratissime, vivaci, e conquistano lo spettatore esaltando un sense of wonder esasperato e un po’ kitsch, però piacevole. Indimenticabile in questo senso Proxima, il giaguaro di Frank, creato in grafica digitale.
Gli stessi personaggi funzionano poiché tutti i copioni hanno tratti parodistici e nessuno vuol passare per verosimile. Sono le macchiette di quanto il cinema di avventura ci ha tramandato, figure tradizionali reinterpretate in chiave estremamente ironica o caricaturale e più o meno corretta. Lily è una maschiaccia che indossa pantaloni, il fratello è un gay poco virile scacciato dalla famiglia, il nobile tedesco un avversario da operetta, e il ‘diversamente esile’ e ‘diversamente pettinato’ Frank è sorprendente. Non perché l’ex wrestler Dwayne Johnson The Rock sia particolarmente affascinante o espressivo o appaia invece ottuso e sciatto nella sua versione Steamboat Willie, quanto perché i colpi di scena ruotano tutti attorno al suo bel personaggio. Le schermaglie tra lui e Lily sono una versione edulcorata e innocua delle battute e degli sguardi allusivi che si gettavano Humphrey Bogart e Katherine Hepburn a bordo della Regina d’Africa. Naturalmente è inutile voler paragonare l’ex wrestler al minuto e carismatico Bogey, o Emily Blunt alla sofisticata e irriverente Katharine Hepburn, e non solo per la recitazione. La Regina d’Africa ha alle spalle un romanzo omonimo, scritto da Cecil Scott Forester, lo stesso autore che ha creato la fortunata serie del guardiamarina Horace Hornblower. Jungle Cruise ha alle spalle una sceneggiatura nata a partire da un’attrazione da parco dei divertimenti, ottimizzata per raggiungere il maggior numero di spettatori possibile. Sarebbe sei a zero a tavolino, sebbene sia improbabile che il tipico spettatore di film come questo abbia l’età o la cultura cinematografica per ricordare il capolavoro del 1951!
Era impossibile eliminare del tutto le situazioni ambigue dalla sceneggiatura, avrebbe reso la pellicola davvero inguardabile da dodici anni in su. Gli argomenti su cui sorvolare sarebbero stati davvero troppi, dal rapporto con i finti selvaggi, all’evoluzione del rapporto tra l’esploratrice e il marinaio d’acqua dolce, ai Conquistadores che avanzano in armatura con scene riprese da Aguirer furore di Dio. Gli sceneggiatori hanno scelto di mantenere tante ambiguità, e ne è esempio la rappresentazione di Mac Gregor. L’effemminato e pavido gay subisce le prese di giro degli accademici, va in Amazzonia con bauli pieni di scarpe e abiti come se andasse in una vacanza per dandy, si dà le creme anti età prima di addormentarsi…insomma è una caricatura di gay fatta da un eterosessuale ben convinto d’avere non solo gusti diversi, ma ragione da vendere. Mac Gregor confessa di essere stato quasi diseredato perché amava ‘una persona inadatta’, almeno nel doppiaggio italiano. Il genitore se vuole può dare una spiegazione alternativa: se un nobile snob volesse sposare una qualsiasi poveraccia la famiglia sarebbe probabilmente poco contenta. E’ inclusività, forse, avere un personaggio gay, però l’esploratore sta in scena obbedendo al punto di vista di uno spettatore cisgender e probabilmente omofobo. C’è da dire semmai che è l’unico personaggio che è premiato da un’evoluzione nel corso degli eventi: parte viziato e rammollito, torna con un’accresciuta autostima. Gli altri personaggi possono innamorarsi, diventare aggressivi, ribellarsi, volere la vita eterna o esserne stanchi, ma a parte il caso di Frank, entrano in scena con determinate caratteristiche e quelle mantengono fino all’ultimo fotogramma. Naturalmente il dualismo proprio della descrizione di Mac Gregor investe anche la protagonista. L’hanno voluta irriverente e maschiaccia, poi se ne sono pentiti, creando una storia d’amore che sembra essere appiccicata lì. Proprio superflua non è: è ambigua, non si sa se è lì per rassicurare gli spettatori tradizionalisti, se è un omaggio a Rose della Regina d’Africa, se è l’ennesimo stereotipo riproposto tra tanti altri.
Jungle Cruise ha difetti che sono congeniti in ogni prodotto che vorrebbe poter esser venduto a tutti e deve di conseguenza andarci con piedi di piombo su tematiche, violenza e possibili posizioni ideologiche. Le necessarie autocensure sono minimizzate dalla splendida confezione della pellicola, dal ritmo dell’azione e dai vistosi effetti speciali, oltre che dall’umorismo che non abbandona mai la scena, neppure nei momenti più drammatici. La vena comica è quanto permette alla pellicola di risultare gradevole anche a una ripetuta visione, quando i colpi di scena non sono più tali e sappiamo a memoria come andrà a finire.
Lo spettatore è avvertito, Jungle Cruise non brilla per originalità, per recitazione o per profondità, però è uno spettacolo gradevole che può piacere ai ragazzi senza sacrificare ( troppo) gli adulti.
Cuccussette vi ringrazia della lettura.
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