PICCOLO CORPO
Il Fantasy ha vita difficile nel nostro Paese, per ragioni culturali che vanno oltre i costi proibitivi di set e effetti speciali. La critica ha esaltato per decenni il cinema di impegno civile, accusando ogni opera fantastica di escapismo, e di fatto questo atteggiamento ha scoraggiato eventuali tentativi. Il grande exploit della trilogia del Signore degli Anelli e dello Hobbit ha fatto intravedere la possibilità di creare opere di valore artistico gradite al largo pubblico, ma l’Italia ha un retroterra culturale diverso dal mondo anglosassone. Ogni tentativo di avvicinarsi a quel tipo di fantasy si risolve quasi sempre in scopiazzature di Tolkien e affini, in film di serie B o in opere acerbe di giovani nerd difficilmente proiettate in sala. E’ un peccato in quanto il nostro immaginario avrebbe una grande varietà di leggende e fiabe, storie di santi e briganti, un mondo di creature fatate a denominazione di origine geografica protetta, con janare e linchetti, boschi sacri, masche, janas e licantropi, oltre a leggende religiose dal sapore mitologico. Tutti personaggi, ambienti e situazioni che in teoria aprirebbero le porte a fantasy e horror innovativi.
A questo mondo spirituale regionale attinge la regista triestina Laura Samani per realizzare nel 2021 il film Piccolo corpo, suo primo e per adesso unico lungometraggio. E’ una pellicola insolita, dal respiro fiabesco seppure ben collocata in un tempo storico preciso, agli inizi del Novecento, e in uno spazio preciso, il Friuli.
Agata (Celeste Cescutti) è una giovane sposa e vive in una piccola comunità di pescatori su un’isola. E’ incinta e il parto purtroppo è difficile, la sua bambina muore. Secondo il credo cattolico, alle anime delle persone non battezzate è impedito l’accesso al Paradiso e la contemplazione di Dio, per loro c’è il Limbo, un non luogo privo di gioia e di dolore, destinato a diventare parte dell’inferno dopo l’Apocalisse. Incapace di accettare la tragedia, la donna dà retta a un racconto ascoltato dal compaesano Ignac. Questi si lascia sfuggire di aver sentito narrare di un santuario nascosto nei monti della Carnia. Lì i neonati tornerebbero in vita per pochi attimi, il tempo necessario per dare loro un nome e il sacramento del battesimo. Nessuna donna ha mai fatto ritorno per poter raccontare cosa accada davvero, e nonostante tutto Agata parte di nascosto, col corpo della bambina disseppellito e riposto in una scatola che si lega sulle spalle. Il viaggio è difficile, sia per la difficoltà di comunicare con lingue differenti, sia per i tanti pericoli. Viene accompagnata nel cammino da Lince, una persona ambigua sia nell’aspetto che negli intenti: accetta di guidarla in cambio di metà di quanto c’è nella preziosa cassa…
La pellicola spiazza fin dalle prime sequenze, quelle in cui Agata compie un rito nelle acque per propiziarsi il parto accompagnata dal canto delle donne della piccola comunità. La datazione storica della vicenda è una dichiarazione di intenti chiara: è il 1901, anno in cui Sigmund Freud pubblica Psicopatologia della vita quotidiana, e le numerose invenzioni e scoperte cambiano radicalmente il modo di vivere e di pensare della gente, a partire dalle lampadine che illuminano le città e le case dei possidenti. La gente si comporta come se vivesse in un indeterminato medioevo forgiato da tradizioni pagane e dal cristianesimo uniti in un sincretismo spirituale, e è indurita dalla durezza della vita. A disgrazia avvenuta marito e conoscenti ricordano alla donna che è giovane e potrà avere altri figli. Parlano con la rassegnazione ottusa attribuita alla gente del passato che accettava gli eventi come frutto delle scelte imperscrutabili della Provvidenza, o prefigurano il nuovo pragmatismo della gente modesta del mondo moderno, che consuma beni e emozioni col medesimo atteggiamento. Eppure le persone sono diverse tra loro, c’è il prete che rifiuta di dare un nome al piccolo corpo e c’è chi invece le sussurra la leggenda, a cui la povera madre crede senza riserve. Agata parte nella notte ribellandosi alle leggi di Dio e della Natura, intenzionata a dare un nome al piccolo corpo, come avveniva in un tempo ormai consegnato alla leggenda. Il passato sfuma nel presente, il cristianesimo è pesantemente influenzato dalla cultura ancestrale mai spenta dl tutto. Può essere difficile per lo spettatore contemporaneo confrontarsi senza pregiudizi con quel tipo di spiritualità, capire la fede incrollabile di Agata e la sua scelta ribelle è più difficile di quanto non sia accettare le divinità di invenzione dei mondi fantasy, chiaramente fittizie e spesso simili a super eroi. Il sentimento religioso della donna ci ricorda che il nostro passato può essere stato quello, e richiede di accettare la sua sensibilità senza esprimere giudizi inopportuni.
Il film celebra la spiritualità ancestrale, i boschi hanno la sacralità di cattedrali con alberi secolari a fare da colonne, la miniera inghiotte le donne e sembra possedere una propria vita come la miniera dei nani a Moria. Il lago con la barca e il nocchiero evocano Caronte e il rito conclusivo è officiato da un’ambigua sacerdotessa o sciamana invece che da un prete nonostante si svolga in una cappella adorna di una Madonna del Latte attorniata da ex voto cristiani. I richiami visivi spaziano dall’estetica pittorica al fantasy vero e proprio, complici i panorami incontaminati che si snodano dal lido di Bibione e poi risalgono lungo il canale del torrente Cormôr, fino a raggiungere il Friuli Venezia Giulia, la riserva naturale del Bosco Baredi, anche denominata Selva d'Arvonchi, presso Muzzana del Turgnano (UD).
La narrazione è volutamente lenta e resta sospesa tra il linguaggio di un documentario elegiaco e una rievocazione della vita rurale ispirata anche visivamente all’Albero degli zoccoli, con la fotografia superlativa di Mitja Licen e le belle musiche di Fredrika Stahl. Di certo non è il solito road movie; ci sono incontri ed episodi tipici di quel tipo di storie, il rapimento da parte dei dipendenti di un signore che cerca in Agata una balia, l’assalto al carro da parte di una brigantessa dal cuore sensibile, le cure ricevute da un gruppo di donne e ripagate con il taglio dei capelli. Se i contadini di Ermanno Olmi erano persone semplici sorrette dalla fede, i montanari sono pronti a tutto pur di sopravvivere, e si rivelano opportunisti e crudeli.
Tutti gli episodi sono inseriti per dare movimento a una storia altrimenti lenta e basata principalmente sulle bellezze dei luoghi attraversati. Il cammino e le peripezie dovrebbero cambiare i personaggi, far vedere loro il mondo con uno sguardo diverso. Agata invece rimane la stessa persona di quando è partita, ribelle e determinata a compiere la sua missione fino al gesto estremo di lasciar cadere la cassa nelle acque del lago e tuffarsi a sua volta. Forse è consapevole dell’impossibilità di raggiungere il santuario, edificio che di fatto non compare nelle inquadrature della barca che scivola sul lago tra i monti innevati, e ha elaborato il lutto. Oppure dubita dei miracoli e quindi vuole ricongiungersi alla sua creatura nell’unico elemento che conosce, l’acqua.
A trasformarsi è semmai la disillusa Lince, ragazza in abiti maschili rifiutata dalla famiglia per la sua scelta di vita indipendente e vera protagonista. Inizialmente inganna Agata cercando di venderla come balia, sembra non credere a Dio e al miracolo, spera che la cassa contenga qualcosa di prezioso. Quando scopre la verità scappa inorridita perché dare il nome a una ‘cosa’ morta e mai vissuta significa darle un’identità. Lei però al nome ci ha rinunciato, e probabilmente non è un ragazzo trans in un’epoca in cui non c’era altro rimedio che usare abiti e atteggiamenti socialmente attribuiti al genere scelto. Conoscendo Lince e il suo mondo viene da pensare a come potesse essere la vita per una donna di quell’epoca, in un ambiente che la destinava per nascita a fare da moglie, da madre, da serva a un marito spesso ignorante e ottuso, tra stenti e miserie. Per tentare di poter vivere una vita differente, per avere maggiori opportunità, passare per maschio poteva essere il modo più semplice. Tra l’altro, introdurre ‘personaggi arcobaleno’ pur di compiacere i produttori sarebbe stato un compromesso inutile in un’opera artistica che per tutte le caratteristiche già dette ha poche speranze di un successo commerciale internazionale. Niente effetti speciali vistosi, nessun interprete famoso dotato di sex appeal esplicito, poca azione... Una breve scena di nudo c’è, perché comunque si parla di corpo, di materia, ma è troppo breve per suscitare erotismo. Il film vive di atmosfere insolite, gran parte degli attori sono non professionisti, famiglie coinvolte nel progetto; i dialoghi in veneto, sloveno, friulano necessitano di sottotitoli... E’ un realismo magico più vicino alle opere di Carlo Sgorlon ( Il trono di legno, Gli dei torneranno..) con la celebrazione del territorio e delle sue radici, con il sincretismo tra paganesimi e cristianesimo. A parte l’epilogo criptico e spirituale e i panorami che ricordano famosi titoli fantasy, c’è poco di quanto il cinema fantasy internazionale propone per attirare gli spettatori.
Piccolo corpo è un film splendido, poetico e sognante, e le sue caratteristiche stesse lo rendono una perla rara, di essai, non adatta a tutti i palati.
Cuccussette vi ringrazia della lettura.
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