IL SEGRETO DI MORA TAU - THE ZOMBIES OF MORA TAU
Ci sono film che sono diventati pietre miliari della storia del cinema di genere grazie alla rielaborazione intelligente di soggetti presenti in vecchi film considerati spazzatura, opere modeste di un passato più o meno remoto dimenticate dai più. Gli zombie sono arrivati sul grande schermo ben prima della splendida esalogia di George Romero (La notte dei morti viventi, Zombi, Il giorno degli zombi, La terra dei morti viventi, Diary of the Dead - Le cronache dei morti viventi e Survival of the Dead - L'isola dei sopravvissuti). Nel 1957 uscì The Zombies of Mora Tau/The Dead that Walk, un b-movie di Edward Cahn basato appunto sulla presenza di un manipolo di zombie: una pellicola modestissima, con invenzioni che influenzeranno il genere.
Nella finzione sceneggiata da Raymond T. Marcus un ricco e avido magnate americano arriva sulle coste dell’Africa Occidentale con un esperto palombaro, un professore di storia, la moglie e svariati uomini d’equipaggio. Sono lì per recuperare un carico di diamanti grezzi colato a picco con la nave Susan B e, nel caso dello studioso, fare chiarezza sulle modalità del misterioso disastro e sui fallimenti di quanti hanno tentato l’impresa. Nessuno tra gli avventurieri immagina che il tesoro è maledetto, i marinai caduti nel corso di diverse spedizioni sono diventati morti viventi e faranno di tutto per riavere le gemme…
Il mistero di Mora Tau è un film visibilmente prodotto in ristrettezze di ogni tipo. La magione africana dove vive la vedova del capitano della Susan B. è una classica villa americana, la giungla è un parco qualsiasi con qualche pianta di banano che fa sognare l’Africa nera, tutti gli attori sono bianchi. I luoghi tipici dei film di ambientazione esotica restano confinati a qualche battuta che cita Dakar o la missione, s’intravede una maschera senegalese appesa a un muro della magione. Non compaiono animali o stregoni e improbabili riti o altre curiosità etniche che potevano suggestionare gli spettatori di allora. Lo stesso toponimo Mora Tau suona più polinesiano che africano.
Gli attori sono volti delle produzioni minori della televisione e del cinema anni sessanta come il prestante Gregg Palmer, il professionale Morris Ankrum e l’incantevole Allison Hayes, onesti mestieranti raramente usciti dal mondo dei B-movies. Altri interpreti sono semisconosciuti, poco più che comparse, come la brava Marjorie Eaton, nel ruolo della vedova Peters. Ad eccezione della simpatica ed energica vecchietta, gli altri attori sono alle prese con ruoli tradizionali e battute convenzionali, tipiche dell’horror e della fantascienza del periodo. C’è la dolce nipote bionda e altruista, il palombaro belloccio, il riccone avido e violento con la moglie sensuale e avida più di lui, uno studioso…
Come promesso dal titolo, ci sono gli zombie, corpi incorrotti ma rigidi nei movimenti, intimoriti dal fuoco e riconoscibili per lo sguardo perso nel vuoto. Non c’è un sacerdote vudù a guidare le loro azioni, o un villain di altro tipo.
Non c’è neppure il tentativo di assegnare agli zombie caratteristiche particolari create col trucco di scena, per simulare il decadimento, e soltanto la mimica e il comportamento li distingue dai vivi.
Appare ovvio che i maggiori pregi vadano ricercati in altro dalla recitazione o dalla presenza dei mostri che emergono dalle acque o dalle tombe. Tra l’altro il primo zombie compare subito, viene investito sulla strada dall’autista che accompagna la nipote alla magione della nonna e l’uomo si rifiuta di soccorrerlo. L’effetto sorpresa va perso, in quanto l’indomita vecchietta fa capire chiaramente che quello travolto è un morto vivente; la nipote si augura che non sia vero ma sa benissimo che è una speranza vana perché in fondo crede alle strampalate storie dell’anziana.
Le ingenuità sono molteplici, per esempio gli zombie temono le fiamme e nessuno prova a dar loro fuoco: se temevano di incendiare la foresta, non viene esplicitato. Nessuno riesce a capire se un compagno di disavventura sia morto o solo malconcio, fatto poco credibile per marinai che attraversano oceani senza la presenza di un medico e devono contare sulle loro conoscenze in caso di malattia o incidente. Il film è stato girato alla fine degli anni Cinquanta, allora si accettava tutto per buono, perché allora l’Africa era un mondo ritenuto ancestrale, lontano, regolato da ritmi e credenze diverse da quelle degli Occidentali e poco conosciuto. Di conseguenza il regista dà per scontato che la gente creda a quanto vede senza esigere spiegazioni, non si tenta neppure di esplicitare perché quei disgraziati siano diventati morti viventi piuttosto che fantasmi. Lo sono, e questo ha da bastare alla platea.
Anche il comportamento di alcuni personaggi sembra poco credibile. Il marito alcolizzato è pronto ad alzare le mani e rassegnato al fatto che la bella moglie lo tradisca con il palombaro, e poi non si accetta il fatto che la donna fedifraga sia diventata uno zombie. Il palombaro sceglie improvvisamente di disfarsi del tesoro dopo aver progettato più volte la sua futura vita da benestante. Gli spettatori si trovano a dover accettare i personaggi così come sono stati scritti, rinunciando a cercare sfumature tra le righe dei copioni, affezionandosi alle loro disavventure e accettando la morale implicita del dover essere pietosi e generosi.
Solo uno sguardo benevolo e contestualizzante può salvare il film da grasse risate: per essere gentili basterebbe pensare a quando è uscita questa pellicola, a come era il cinema di genere a fine anni Cinquanta e dintorni. Si possono allora perdonare le ingenuità di una narrazione di intrattenimento, priva di pretese e di elucubrazioni pseudo intellettualistiche. Il cinema è però un’arte con forte coinvolgimento emotivo e lo spettatore di oggi, pur comprendendo razionalmente le motivazioni economiche e sociali a monte dei tanti limiti, può essere incapace di venirci a patti. Lo stesso sobrio bianco e nero può ostacolare la visione, sebbene minimizzi la povertà dei set e delle scenografie. In entrambi i casi ci si diverte, con tenerezza per il passato oppure dissacrando quelli che poi sarebbero divenuti luoghi comuni del cinema sigli zombie.
La regia è di mestiere, regala un’ora e dieci di avventura vintage, con alcune trovate che saranno la base per i capolavori horror (e non solo) futuri.
Cuccussette vi ringrazia della lettura.
Questa recensione è stata edita su questo sito. Se la volete ospitare, contattatemi. Florian Capaldi su Facebook
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