PIRAMIDE DI PAURA

Il personaggio di Sherlock Holmes è stato protagonista di innumerevoli trasposizioni teatrali, cinematografiche e televisive, più o meno fedeli alla pagina scritta. Nel corso degli anni il compassato investigatore armato di lente d’ingrandimento e prodigiose capacità deduttive ha conosciuto momenti di grande popolarità. Ogni qual volta la fama è sembrata appannarsi, il personaggio è stato reinterpretato, adeguandosi così ai mutati gusti del pubblico. Le recenti pellicole di Guy Ritchie e le serie televisive Sherlock ed Elementary dimostrano la grande vitalità del detective, attualizzato ma pur sempre riconoscibile, profondamente radicato nell’immaginario.

Fanfiction d’autore

Tra le compassate performances di Basil Rathbone e Jeremy Brett, e la rivisitazione scanzonata di Robert Downey Jr, trascorrono anni contraddistinti da scialbi film televisivi e da pellicole poco conosciute. Una di esse è Piramide di Paura (Young Sherlock Holmes, 1985) diretta da Barry Levinson e prodotta da Steven Spielberg. È una sorta di fan fiction, cioè una narrazione che sfrutta personaggi e ambientazioni ben note per sviluppare una vicenda autonoma. Non si scandalizzino i fan più accaniti, in quanto il fenomeno è nato proprio a partire dalla pubblicazione dei libri su Sherlock Holmes, del quale esistono racconti apocrifi scritti agli inizi del Novecento proprio da ammiratori. La sceneggiatura di Chris Columbus si inserisce in questa tradizione, e l’unica trasgressione rispetto all’opera di sir Arthur Conan Doyle è la scelta di far incontrare Holmes e Watson da ragazzini, in un prestigioso college. Ad eccezione di questa licenza, si tratta di un prequel a tutti gli effetti, con citazioni e dettagli che motivano abilità e debolezze del detective adulto e della sua ‘spalla’.

Il giovane Sherlock è un ragazzo problematico; eccelle nella chimica, suona il violino, è abile in sala con le armi bianche, dimostra grande acume e una tendenza alla misantropia; oltre a questo, di lui scopriamo anche come venga in possesso della lente di ingrandimento e della pipa, della mantellina e del cappello.

Watson invece è un ragazzotto goloso, socievole, di normale intelligenza e buona cultura.

Insieme indagano su una serie di bizzarri suicidi: in realtà delitti causati da una setta segreta egiziana dedita a sacrifici umani. Li accompagna la giovanissima Elizabeth, primo e unico amore di Sherlock. La tragica morte della giovane motiva la futura misoginia dell’investigatore: nei romanzi e nelle trasposizioni più fedeli ogni riferimento al sesso, seppure velato, è assente.

Definite le caratteristiche dei personaggi, l’avventura decolla alternando con buon ritmo momenti comici e tragici. Si tratta di un giallo a tutti gli effetti, con un’ambientazione inconsueta e validi spunti horror e fantasy. Anche se ogni elemento sovrannaturale trova una spiegazione logica, le sequenze più riuscite sono quelle immaginifiche: la setta elimina gli avversari ricorrendo a dardi intrisi di un potente allucinogeno, per effetto del quale le vittime creano nella propria mente mostri illusori, e finiscono per suicidarsi credendo di combatterli o di fuggirli.

Gli effetti speciali sono all’avanguardia per gli anni Ottanta, e il loro impiego è sempre ben inserito nella vicenda narrata. Ogni incubo deve concretizzarsi con perturbante naturalezza agli occhi dello spettatore, e difficilmente animatronics, tecniche in stop motion e pupazzi da soli potevano sostituire le immagini manipolate dal computer. In particolare è sorprendente l’animazione di un cavaliere in armatura, che abbandona la vetrata della sucattedrale cui è istoriato per aggredire un ecclesiastico. Si tratta di uno dei primi impieghi della grafica digitale e, a distanza di tanti anni, ancora lascia a bocca aperta. A questi prodigi si affiancano tecniche più tradizionali, e la creatività degli abili scenografi ricostruisce una Londra vittoriana cupa e per molti aspetti verosimile. I tanti set allestiti, e in particolare la piramide e il tempio sotterraneo, sono frutto di questa abilità.

Il senso di meraviglia convive con una rappresentazione tutto sommato realistica della vita quotidiana dell’epoca: la metropoli è multietnica, i bassifondi sono tetri, le carrozze attraversano vie affollate di gente ricca e di disgraziati pronti a tutto pur di sopravvivere.

La moda delle antichità egizie è un elemento tipico della società di fine Ottocento, e averla ripresa è un ulteriore omaggio ad Arthur Conan Doyle, autore del racconto horror La Mummia, ambientato in un college, tra studenti e professori. Tra le numerose scene di grande impatto visivo ve n’è una in cui i fanatici svolgono un rito che prevede il seppellimento di una fanciulla viva, ipnotizzata e avvolta in bende. La colonna sonora impiega un motivo orientaleggiante e segue gli eventi in un vorticoso crescendo.

Altri virtuosismi della macchina da presa si vedono nelle sequenze del cimitero attraversato dai protagonisti. Allucinazioni e nemici in carne ed ossa si alternano creando la giusta tensione; il senso del pericolo incombente si insinua nella platea e, innescato il meccanismo, i dettagli macabri sono suggeriti e lasciati all’immaginazione. L’assassino viene mostrato il meno possibile, le scene violente sono rappresentate con equilibrio, senza indulgere in particolari troppo espliciti né edulcorare gli effetti.

Esperimento, riuscito a metà

Piramide di Paura si avvale di un soggetto originale e abbondanza di mezzi; il montaggio è efficace, la fotografia magistrale, la colonna sonora valida. Un film ben fatto e piacevole, insomma; eppure qualcosa non funzionò a dovere, e al botteghino fu un flop memorabile.

Le cause dell’insuccesso sono molteplici…

L’anno precedente era stata realizzata la serie The Adventures of Sherlock Holmes: una valida produzione televisiva, celebre in Gran Bretagna ma passata quasi inosservata nel resto del mondo – dove il detective di Doyle era personaggio noto, sì, ma non più di tanti altri. Se la raffinata interpretazione di Jeremy Brett incontrava i gusti dei fan britannici sul piccolo schermo, per riportare Sherlock Holmes al cinema serviva una rivisitazione radicale; la scelta di rappresentare l’investigatore adolescente, però, fu fallimentare, anche per la difficoltà di inquadrare un preciso target di spettatori. Piramide di Paura sembra rivolgersi agli adolescenti, complice l’ambientazione del college, ma aleggia una sensazione di rimpianto e nostalgia per la giovinezza che solo una persona matura può avvertire.

Il tempo trascorso rende il passato idilliaco, idealizza la vita studentesca. Gran parte del fascino di Harry Potter nasce proprio dalla mitizzazione dei ricordi della giovinezza, e Piramide di Paura per molti aspetti anticipa ambientazioni e caratterizzazioni proprie della saga della Rowling. Le somiglianze tra i protagonisti del film e i personaggi di Harry Potter sono evidenti nel caso di Watson e di Elizabeth. Come Ron, Watson è un giovane di buona famiglia, ben istruito benché poco geniale, un vero amico su cui poter sempre contare. Elizabeth ricorda Hermione, giovane intelligente e studiosa, attratta dal piacere dell’apprendere, sincera nei sentimenti e tenace. C’è anche un bullo nella scuola, molto simile a Draco Malfoy. Ogni riferimento può forse essere casuale o inconsapevole: il trio ricalca un modello presente in molti libri destinati agli adolescenti e la celebre saga della Rowling vive di suggestioni ereditate da tantissime opere.

Il giovane Sherlock Holmes invece non è un antesignano di Harry Potter e neppure assomiglia a Oliver Twist; le avventure nel college o nelle vie di Londra lasciano poco spazio a buonismi e bamboleggiamenti.

La pellicola presenta sequenze paurose, inadatte ai bambini, e tutta la vicenda ha un retrogusto amaro. Le battute mostrano il protagonista in tutta la sua fragilità, e il finale malinconico lascia presagire per Holmes un domani fatto di genialità ma anche solitudine, illuminato unicamente dall’amicizia di Watson dai successi professionali.

Certi però di dover assistere all’ennesimo film per ragazzi, bastarono le poche scene del trailer per tenere molti spettatori adulti lontani dal cinema. Quanto ai fan di vecchia data, trovarono un personaggio lontano dal loro immaginario, mentre gli eventuali nuovi ammiratori difficilmente riuscirono a godersi appieno tutte le citazioni.

Questo Sherlock Holmes sembrò troppo simile a Indiana Jones, complici le sequenze ricalcate sul modello di Indiana Jones e il Tempio Maledetto (1984), anche se le analogie restano superficiali perché i personaggi sono diametralmente opposti fin dalle premesse: l’archeologo di Lucas è un eroe creato ex novo, omaggio al vecchio cinema d’avventura, e le sue guasconate rivisitano con affetto e ironia i luoghi comuni del passato; con Sherlock Holmes invece c’è poco da inventare, il regista deve mantenere le caratteristiche già stabilita da Arthur Conan Doyle. Quando allora la sceneggiatura di Chris Columbus si affida all’esempio di Indiana Jones inserendo momenti d’azione e sequenze umoristiche per alleggerire l’atmosfera cupa, il paragone convince poco e la pellicola resta sospesa tra il desiderio di onorare un’icona e la volontà di avvicinarla ai giovani.

Sempre nell’intento di presentare nello Sherlock giovane particolarità ed esperienze che possano motivare il carattere e le abitudini del futuro eroe adulto, il film mostra vari passaggi ingenui; Chris Columbus naturalmente non è Arthur Conan Doyle, e ogni mistero trova presto la sua soluzione, con disappunto di quanti si attendevano un’indagine sofisticata e ricca di colpi di scena. Più che un riuscito giallo, è una celebrazione di Holmes e del suo mondo.

Il casting è altrettanto discutibile: gli adulti sono seri caratteristi, come il bravo Anthony Higgins, spesso impegnato in pièce teatrali e in produzioni televisive. Gli adolescenti, ad eccezione di Sophie Ward (Elizabeth), sono esordienti o quasi, che in seguito calcheranno le scene solo in ruoli minori. La mancanza di nomi celebri stride con l’estrema raffinatezza formale della pellicola, e in mancanza di elementi di facile richiamo non basta scopiazzare Steven Spielberg per imbastire una promozione efficace.

L’omaggio a Conan Doyle tocca il cuore dei bibliofili e dei fan, ma Piramide di Paura nasceva con pretese superiori, e alle spalle costi elevatissimi… mai recuperati. Sherlock Holmes negli anni Ottanta piaceva a una ristretta schiera di fan, e l’amore di questi ultimi purtroppo non ha potuto sollevare gli incassi. Oggi che il detective ha riacquistato grande popolarità, che la moda steampunk ha recuperato l’estetica ottocentesca e che Harry Potter ha aperto la strada a pellicole ambientate nei college, probabilmente le cose andrebbero diversamente.

Pubblicizzato poco e distribuito malamente, Piramide di Paura è rimasto un gioiello dimenticato, tutto da riscoprire… fino agli ultimi fotogrammi, dopo i titoli di coda.

 

 

Cuccussette vi ringrazia della lettura.

Questa recensione è stata edita da TERRE DI CONFINE  https://www.terrediconfine.eu/piramide-di-paura/

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