IL SEGNO DEL COMANDO - REMAKE
Quando nel 1971 venne trasmesso lo sceneggiato Il Segno del Comando fu un grande successo, un vero fenomeno di costume che tenne incollati al televisore milioni di italiani. Il giallo esoterico di Daniele D’Anza lanciò una moda e per una quindicina d’anni i palinsesti continuarono a cercare di replicare il record di ascolti di quella mitica serie con opere più o meno legate al sovrannaturale. La moda poi si esaurì lasciandoci una televisione con eroi della porta accanto, ma aveva lasciato il segno nell’immaginario della gente e nel 1992 ci fu il remake.
Nella nuova versione di Giulio Questi il romanzo omonimo di Giuseppe d’Agata viene modificato pesantemente, col consenso dello scrittore che, come nella prima versione, è tra gli sceneggiatori.
A grandi linee l’intreccio è analogo: c’è Edward Foster, un professore di un’eminente Università inglese grande esperto di Byron, che crede di avere ritrovato i diari del poeta. Ha anche il disegno di una piazza corrispondente alla descrizione data da alcune righe di Byron e dei versi dal significato oscuro. Con la scusa di una conferenza, si reca nella città dove soggiornò il poeta e inizia a indagare, tra esoterismo e pittori bohemien, maledizioni con reincarnazioni cicliche e il Segno del Comando, un amuleto che concederebbe poteri immensi al proprietario…
Il remake in due puntate ripropone la vicenda ambientandola a Parigi. La scelta non regge il confronto, neppure se dietro la macchina da presa c’è un regista come Questi, esperto nel sovrannaturale e nei thriller. Parigi è una città con i suoi misteri, però è più moderna di Roma e, almeno nelle inquadrature, manca della coesistenza di resti di tantissime epoche storiche. E’ più difficile trasmettere quel senso di ineluttabile ripetersi ciclico di vicende tragiche che invece era una delle maggiori suggestioni delle peregrinazioni notturne di Ugo Pagliai. Oltretutto, escludendo la parte finale della vicenda, di Parigi vediamo a colori qualche scorcio moderno, qualche viale nella notte; quanto resta di antico in città rimane nascosto e gran parte delle riprese avvengono in interni allestiti per l’occasione. I vicoli di Roma con la luce di vecchi lampioni e le ombre accentuate dal superbo bianco e nero avevano ben altra suggestione.
In questo remake il sovrannaturale è ammesso, anzi è l’unica spiegazione. C’è qualche dubbio iniziale, in quanto il protagonista è un vedovo che si consola con l’alcool e quindi può credere di vedere quanto invece è frutto della sua ubriachezza. Nel corso degli eventi si può dubitare, però l’epilogo mostra l’artefatto in tutta la sua gloria. La caccia al tesoro anticipa quella del Codice da Vinci, però con minore azione e adrenalina. Si potrebbe credere che il magico dispiegarsi del potere del Segno del comando sia frutto della mente allucinata di Foster, che recupera l’oggetto e lo getta via dopo averne assaporato la potenza e intuito la pericolosità. Il dubbio permarrebbe se non fosse stato mostrato un flusso di energia nero, simile a un nastro che sorvola i tetti di Parigi, e se non fossero stati inseriti altri cinque minuti successivi con la sorte dell’oggetto gettato via. Anche se gli effetti speciali sono davvero poveri, è ovvio che quanto è mostrato è qualcosa di esterno all’immaginazione del professore. Nel romanzo tutto trovava una spiegazione logica, nella prima trasposizione gli enigmi si scioglievano lasciando però qualcosa di irrisolto, e in questa versione c’è una caccia al tesoro con in palio un autentico strumento di potere. Questa rivelazione finale priva il racconto della necessaria ambiguità: anche l’esperienza mistica del professore poteva essere ricondotta al suo stato mentale alterato, ma quanto avviene dopo la sua rinuncia al potere conferma l’esistenza della magia.
Il protagonista è un uomo fragilissimo, con alle spalle il trauma di aver perso l’amata moglie in un incidente aereo, e il vizio del bere. La scelta di avere un simile personaggio è discutibile perché il vizio lo rende poco credibile. Già alla prima apparizione del fantasma sul traghetto è alticcio, e nel corso della vicenda bacia più bottiglie che donne. Alcolista e preda di crisi di nervi, con le sue debolezze sminuisce quanto gli accade attorno. E’ facile pensare che creda di vedere luoghi e persone inesistenti e che la faccenda della reincarnazione ciclica sia solo l’ossessione di una mente turbata. Il Foster di Ugo Pagliai era più padrone di sé; veniva drogato, veniva messo nei guai e viveva l’avventura da uomo intelligente che vuole sia salvare la pelle, sia risolvere un mistero che potrebbe renderlo famosissimo. Se il personaggio del remake funziona poco non è colpa dell’interprete Robert Powell ma del copione che ha accettato di recitare, quindi si aggira intontito tra alberghi e ville patrizie, ignara pedina di un gioco più grande di lui.
Né i personaggi femminili hanno miglior sorte, dalla vecchia fiamma accompagnatasi con un giocatore d’azzardo alla giornalista Barbara Logan. Elena Sofia Ricci è bellissima più che brava e il personaggio sta in scena per spronare il professore all’azione. La storia d’amore che ha inizio nell’ultima parte della vicenda ha il sapore di qualcosa di dovuto, di creato per compiacere una platea che male accetterebbe un eroe bello e asessuale.
La vicenda imbocca la difficile strada del thriller esoterico anticipando la saga di Dan Brown; mentre le avventure del professore Robert Langdon vivono di scene d’azione fin dall’inizio della vicenda, nello sceneggiato bisogna attendere l’ultima mezz’ora. L’inseguimento sui tetti e il salvataggio della giornalista rapita funzionano, sebbene abbiano il sapore di tanti telefilm polizieschi di quel periodo e quindi non ci si devono attendere i virtuosismi di Ron Howard.
Questa miniserie è anche stata proposta come film; purtroppo condensare in novanta minuti una storia che dovrebbe passare le tre ore (questa è la versione reperibile in streaming) è controproducente. Il film è stata la prima versione trasmessa e comprensibilmente gli appassionati che avevano seguito il primo sceneggiato hanno gridato allo scandalo. I troppi tagli hanno lasciato troppi passaggi accennati, e una disarmonia tra le parti della narrazione evidente anche a quanti non conoscessero la prima trasposizione.
Per apprezzare quest’opera è meglio comunque non fare confronti inopportuni: è gradevolissima ma non è un cult, come quello anni Settanta con la sigla ‘Cento Campane’ e il mistero che si chiarisce del tutto... o quasi.
Cuccussette vi ringrazia della lettura.
La recensione è stata edita su questo sito nel 2023. Vuoi adottarla? Contattami su Facebook, sono Florian Capaldi !
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