IL MONDO PERDUTO 1925
«Il mio obiettivo sarà raggiunto quando avrò dato un'ora di gioia al bambino che è in noi.» afferma Arthur Conan Doyle nelle prime sequenze della trasposizione cinematografica del suo romanzo Il mondo perduto. Il film realizzato nel 1925 da Harry Hoyt si apre con la presenza stessa dello scrittore, filmato mentre gioca col suo cane e invita gli spettatori a godersi la pellicola con sguardo pieno di ingenua curiosità, come farebbe il fanciullino pascoliano che ci portiamo dentro.
Il film tratto dall’omonimo romanzo vive di sense of wonder, in quanto la vicenda narrata è basata sull’esplorazione di un isolato altopiano dell’Amazzonia popolato da cavernicoli e dinosauri. La sceneggiatura di Marion Fairfax introduce svariate modifiche al testo, tuttavia queste innovazioni sono state approvate dall’Autore. Apparendo in quelle brevi sequenze, Conan Doyle dichiara di essere d’accordo con quanto vedranno gli spettatori.
La variazione più evidente è la presenza di un personaggio femminile all’interno del manipolo di studiosi e avventurieri che si addentra nella giungla. Il personaggio di Paula White, figlia dell’esploratore Maple White disperso in Amazzonia e autore del diario che guiderà i nostri eroi, è un personaggio inventato di sana pianta per il film. Doyle aveva senso degli affari e non era estraneo ai compromessi: davanti alla protesta dei lettori aveva accettato di riportare in vita il suo Sherlock Holmes scomparso nella cascata durante la lotta con Moriarty. Probabilmente accettò la presenza di una bella esploratrice accompagnata da una simpatica scimmietta, pur di veder il suo romanzo, edito nel 1912, sul grande schermo. Nel caso di questo film le parentesi sentimentali convivono con l’intreccio avventuroso e nonostante qualche minuto venga dedicato alla storia d’amore tra il giornalista Malone e la bella Paula, non sacrificano l’azione. Il poter inserire una sottotrama romantica in teoria poteva attirare anche spettatori altrimenti indifferenti alla saga del burrascoso Professor Challenger, e quindi era una scelta narrativa necessaria in una pellicola dal costo elevato.
La vicenda prevede la presenza di dinosauri ed essi catturano l’attenzione, contendendosi la scena con i pur bravi attori. I tanti uomini scimmia previsti dal libro si riassumono in un perfido ominide interpretato da un solo attore pesantemente truccato e accompagnato da un perplesso scimpanzé, ma la vera novità sono i dinosauri. I bestioni si mostrano per la prima volta, ricostruiti nelle loro proporzioni basandosi sugli scheletri e animati in stop motion da Willis O'Brien. Oggi quelle sagome di plastilina possono fare sorridere, ma per l’anno di uscita erano davvero sorprendenti. Fino ad allora la gente dei dinosauri conosceva le ossa esposte nei musei, e mai aveva visto simulazioni tridimensionali, statue o sculture che ipotizzassero il vero aspetto degli animali preistorici. Essi son mostrati per buona parte della pellicola, e con l’eccezione dell’introduzione, sono il ‘piatto forte’ della narrazione. La datano, al pari della blackface del servitore Zambo, eppure sono così lontani da quella che ai nostri giorni è l’estetica degli effetti speciali, da colpire l’immaginazione degli spettatori più di tante anonime creazioni in grafica digitale.
Oggi è possibile vedere quella che si pensa sia la versione integrale del film, ricavata da otto diverse versioni sopravvissute e montata integrando le varie parti per un’ora e mezza di sogno ad occhi aperti. La durata dello spettacolo era probabilmente abbreviata a un’ora con opportuni tagli; nella versione estesa le sequenze con effetti speciali sono due terzi dell’intero racconto. C’è di che rimanere sorpresi, non soltanto per i trucchi ingegnosi che danno vita ai bestioni preistorici, quanto per la capacità di coinvolgere anche uno spettatore di oggi con una narrazione ben ritmata, fresca, per molti aspetti ancora attuale.
Pur trattandosi di un film muto, cartelloni e mimica raccontano le spacconate del manipolo di coraggiosi, mantenendo intatta l’atmosfera ironica, ottimista e sognante delle pagine. Si ride del mondo accademico, delle fanfaronate spacciate ai salotti da esploratori più o meno improvvisati, dei litigi tra studiosi, della divulgazione spettacolarizzata per masse di cittadini ignoranti, e degli stessi studiosi. Challenger è una specie di Ercole rimpicciolito, è manesco verso i giornalisti che lo accusano d’essere un cialtrone, e dominante nei confronti di giornalisti e colleghi, salvo farsi ‘domare’ dalla amata moglie, una donna piccola e graziosa. Il rivale Leo Summerlee si aggrega alla spedizione per sbugiardare Challenger, salvo doversi ricredere ma continuare a battibeccare con Challenge. Malone parte nella spedizione perché l’amata Gladys vuole per sé un uomo speciale, avventuroso e coraggioso, e non si accontenta di un mediocre reporter di un giornale secondario. Lord John Roxton è invece un cacciatore, necessario per catturare l’animale che dovrà essere ricondotto nel Regno Unito come prova. I personaggi oggi sembrano macchiette, e in parte lo sono poiché il romanzo di Doyle è diventato uno dei capostipiti della letteratura di esplorazione di mondi sconosciuti. L’autore ha contribuito a creare stereotipi che si sono diffusi nella letteratura di genere: un burbero professore, un rivale altrettanto colto, un eroe d’azione, un giornalista, un parente alla ricerca di un congiunto disperso fanno sempre parte del manipolo di esploratori destinato a scoprire mondi lontanissimi.
La necessità di avere dialoghi scarni, facilmente riassumibili ed inseribili nei cartelloni delle didascalie, riduce l’introspezione, o piuttosto la affida all’espressività mimica degli attori stessi. Gli interpreti, nomi oggi dimenticati dai più, erano tutti volti piuttosto famosi, e rendono bene nei loro ruoli.
A distanza di cento anni, Il mondo perduto riesce ancora a incantare, a patto di liberarsi dai pregiudizi sul cinema muto.
Cuccussette vi ringrazia della lettura.
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