L'ISOLA DEL DOTTOR MOREAU
L’isola del Dottor Moreau è un noto romanzo di fantascienza scritto da H. G. Wells nel 1896, diventato un classico della letteratura e trasposto più volte al cinema. Narra la disavventura di Edward Prendick, un naufrago che dopo varie vicissitudini si trova ad essere soccorso dal Dottor Morel. E’ questi un misterioso scienziato che lo accoglie sulla sua isola, dove vive in compagnia di un altro medico, Mongomery. Entrambi si sono rifugiati in quello sperduto punto del Pacifico per scampare a scandali e continuare le ricerche senza la condanna dell’opinione pubblica. Moreau era un promettente ricercatore che praticava la vivisezione con esperimenti considerati disumani dalla mentalità dell’epoca, pure abituata alle torture dei laboratori. Mongomety è alcolizzato e debole di volontà ha seguito Moreau. L’isola è popolata da inquietanti indigeni che sono in realtà animali umanizzati grazie a sieri e operazioni; per essi il creatore ha stabilito leggi, ha formato una società basata su leggi che dovrebbero allontanare gli ibridi dall’animalità: devono camminare su due gambe, mangiare piante, bere senza leccare, non spargere sangue né di uomo né dei loro simili. Dipendono comunque dagli interventi di Moreau e nonostante le continue cure, poco a poco regrediscono alla forma bestiale, rivoltandosi al creatore…
Nel 1932 ci fu L'isola delle anime perdute, film che rimase bloccato per oltre 30 anni a causa della censura britannica e che anche per il fascino del proibito divenne un cult per cinefili incalliti. La pellicola introduceva il personaggio di una donna animale che fa perdere la testa al protagonista: nelle pagine si accenna appena alla creatura, che al pari delle altre è trattata dal protagonista con un misto di curiosità e disgusto e viene liquidata in poche righe. Per il naufrago è e resta un animale, un po’ come era avvenuto per la giovane e infantile Weena incontrata dal crononauta nella Macchina del tempo, tuttavia nella versione cinematografica l’ignaro protagonista si innamora e non rifugge dal sentimento anche quando è consapevole della natura della donna, derivata da una pantera. Lo scienziato pazzo sogna di ottenere prole dalla poveretta… inoltre c’erano sequenze di vivisezione esplicite. Tanto bastò perché il film venisse fatto sparire e riapparisse tanti anni dopo, quando ormai la società era cambiata e poteva anche tollerare l’ambiguo legame e le immagini splatter. Con o senza divieti, il bianco e nero ormai veniva considerato anticaglia; un ragazzino difficilmente avrebbe fatto le ore piccole per assistere a uno spettacolo destinato ai cultori dei vecchi ‘film di mostri’.
Nel 1977 la platea aveva dimenticato L’isola delle anime perdute ed era arrivato il momento per poterne fare un remake. La nuova versione firmata da Don Taylor è un film molto godibile, e prevedibile. La vicenda narrata è solida in quanto si basa su un classico della fantascienza, un soggetto collaudato. Ci sono alcune rivisitazioni senza giungere a fare una rilettura con marcati stravolgimenti, tali da rendere il racconto una vera e propria novità. La sceneggiatura ricalca più o meno i passaggi della precedente, apportando qualche variazione discutibile. Aggiornare le torture di Moreau alle scoperte scientifiche attuali per esempio risulta poco efficace, in quanto la vicenda resta ambientata a inizio del secolo scorso. Il naufrago è Andrew Braddock (Michael York), un marinaio motorista con la passione dei libri che scampa al naufragio della The Lady Vain. Mongomery (Nigel Davenport) è un mercenario che ha sulla coscienza colpe non precisate. Moreau (Burt Lancaster) compie manipolazioni genetiche e arriva a trasformare temporaneamente Braddock con un siero. C’è anche la presenza femminile, la splendida Maria (Barbara Carrera); si innamora del marinaio e alla fine fugge con lui, sebbene si intuisca come, lontana dalle cure di Moreau, possa poco a poco tornare ad essere un animale.
Delle due variazioni principali, la trasformazione del protagonista e quella di Maria, solo la prima è sviluppata a dovere. Cosa accada alla donna dopo la fuga è un mistero accennato nel suo sguardo perso, tale da far sospettare un ritorno alla condizione animale; senza insistere su altri dettagli si coglie il comprensibile shock di una persona che lascia per sempre le sicurezze del suo piccolo mondo. La sceneggiatura rifugge la schiettezza di tornare al testo libresco e eliminare del tutto il personaggio con la pruriginosa storia d’amore interspecie; non risolve il problema facendo morire la donna; manca il coraggio di farla vedere ormai regredita ed estranea al protagonista che le ha promesso di vivere insieme a Londra, da benestanti. Braddock stesso è in parte poco credibile, è un avvenente marinaio motorista con la passione della cultura, cosa poco probabile in un’epoca in cui i motori sulle navi non sostituivano del tutto le vele e richiedevano esperienza pratica e cura costante, e le cabine erano quasi dei loculi. Forse avrebbero dovuto presentarlo come ingegnere meccanico, dandogli un titolo più altisonante, uno status sociale capace di competere, in altro campo, con la cultura di Moreau, oppure renderlo per davvero un rozzo uomo di mare pronto più all’azione che alla riflessione. Il personaggio di Mongomery è sfruttato meno di quanto si potesse, appare solo brutale senza che gli venga dato un background tale da giustificare la sua fuga dalle guerre. Resta lo strapotere dello scienziato che si sente una divinità, cosa non proprio nuova dato che Frankenstein, il capitano Nemo, il Dottor Jekyl avevano deliri analoghi; anche la possibilità di ammiccare al Kurz di Cuore di Tenebra viene sprecata.
Il problema più grande della pellicola è l’aver rifiutato di trattare in profondità il tema del confine tra coscienza umana e animale, per prediligere facili elementi d’azione. Nel testo la rivolta è ben più di una lotta tra ceti sociali, e il protagonista tornato finalmente in patria si troverà a disagio con gli esseri umani perché gli ricorderanno gli ibridi. Il film preferisce evitare dibattiti etici e si concentra sulle scene d’azione e sulla presenza dei mutanti. Questi sono visivamente ottenuti grazie al make up realizzato da John Chambers, il truccatore del Pianeta delle scimmie. A parte il fatto che i mostri sembrano tutti simili quando nel testo si insiste sull’esistenza di svariate specie derivate da animali differenti, il risultato a volte è azzeccato, a volte visibilmente posticcio. L’effetto artificioso era sminuito dal bianco e nero dell’Isola delle anime perdute; con il colore le protesi sono evidenti e talvolta finiscono per far sembrare le creature scimmie oppure fratellini minori di Chowbecca di Guerre Stellari. Lo stesso bianco e nero creava tensione, faceva immaginare i pericoli nelle ombre della notte tropicale, mentre adesso gli agguati e le presenze tra le fronde sono più espliciti. Le scene di lotta abbondano e hanno particolari truci, sono ben coreografate e danno pepe a una storia che comunque è già vista. Il remake insomma non sembra migliore dell’originale, pur applicando la regola che vuole che i rifacimenti esagerino i tratti più caratteristici dell’opera prima o evidenzino altri aspetti.
Nonostante le occasioni mancate e le ingenuità il film scorre piacevolmente, è confezionato con professionalità, sorretto da un cast di tutto rispetto, accompagnato da una pregevole colonna sonora e con un’ambientazione esotica capace di suggestionare gli spettatori. Si lascia vedere e rivedere ma è anche un film dimenticabile sotto parecchi punti di vista; intrattiene ancora oggi, senza però riuscire ad imporsi con forza nell’immaginario dello spettatore e divenire un cult.
Cuccussette vi ringrazia della lettura.
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