L'IMPLACABILE

Stephen King agli inizi di carriera si firmava con lo pseudonimo di Bachman, e già scriveva vicende di grande tensione, capaci di tenere il lettore attaccato alla pagina. Tra le opere giovanili, L’ uomo che corre è forse una delle più riuscite, ed è stata trasposto sul grande schermo nel 1987, con il titolo L'implacabile.

Il regista Paul Michael Glaser ( più conosciuto come interprete di David Starsky del serial Starsky & Hutch) ci porta in un futuro neanche lontano, una versione distopica del ventennio del 2000. Il mondo è in mano a pochi privilegiati che stordiscono le masse con programmi televisivi violenti e trash e le riconducono all’ obbedienza con sparatorie e fake news. Ad ogni ora la tv trasmette quiz truculenti, con concorrenti poveri che pur di rimediare qualche dollaro si fanno fare di tutto, spesso rimettendoci la vita oltre che la dignità.

Ben Richards è un poliziotto che si ritrova in galera perché si è rifiutato di sparare da un elicottero su una folla di poveracci affamati. Riesce ad evadere con altri galeotti oppositori del regime ma presto viene riacchiappato in quanto la gente è convinta che sia lui l’autore della strage. Ben si ritrova ingaggiato a forza in uno spettacolo televisivo, un gioco gladiatorio trash condotto da un viscido presentatore che pare figlio della peggiore tv verità di oggi. Le regole dello show in cui è impegnato sono poche: galeotti e disperati si giocano la libertà in un inseguimento in diretta, con duelli all’ ultimo sangue contro avversari scelti sul momento dalla gente…
La versione cinematografica, pur richiamandosi all’ opera di King-Bachman, in realtà se ne discosta molto, sia come eventi narrati sia come atmosfere. Il tradimento delle pagine è totale, si avverte non appena entra in scena Schwarznegger e viene costruita la situazione che lo condurrà a diventare un concorrente. Si completa con l’happy ending consolatorio, preceduto da improbabili sfide contro numerosi Sterminatori, killer interpretati da wrestlers con costumi coloratissimi e stravaganti (Jesse Ventura, Charlie Kalani Jr, Erland Van Lidth, e l’ex giocatore di football Jim Brown).
Ben Richards sulla carta non è un muscoloso eroe bello e forte: è un disgraziato senza lavoro, con la figlia Cathy malata e la moglie che si prostituisce per sbarcare il lunario. E’ armato solo della sua disperazione e della rabbia. Fin dall’inizio è ovvio che il malcapitato non ha alcuna possibilità di sopravvivere, e affronta la sfida con l’unica speranza di poter donare qualche soldo alla famiglia ed attuare la sua vendetta. E’ quindi impossibile un finale positivo nelle pagine in quanto la coerenza regna sovrana e la tragedia non può trasformarsi in una storia di riscatto terreno. Il film sovverte la vicenda, trasformandola in un tipico film di azione americano anni Ottanta, chiassoso e spettacolare. Il protagonista è interpretato da Arnold Schwarznegger in piena forma, e basta la sua presenza a dare per scontato che i ‘cattivi’ vengano sconfitti. Ben è un personaggio del tutto positivo e quindi deve e può ottenere giustizia, meglio se in modo eclatante. La sceneggiatura firmata da Steven E. de Souza (Commando, Die Hard) ha ripreso qualche idea dall’ autore, poi ne ha dato un’interpretazione adatta a far presa sugli spettatori, divertendoli. E’ vero che letteratura e cinema si devono esprimere in modo diverso, però in questo caso la rivisitazione è davvero estrema, ed è inutile vedere il film con la speranza di ritrovare tanti elementi del romanzo. Da un’opprimente, claustrofobica tragedia si passa alla spettacolarizzazione di un mondo difficile, a cui però ci si può opporre se si hanno il coraggio e la determinazione. La scelta di trasporre il cupo romanzo trasformandolo in modo tanto radicale ha scontentato i fan di Stephen King, in quanto tradisce completamente lo spirito dell’opera.
Oltre al lieto fine, c’è una blanda riflessione sul potere televisivo, e la fiducia illimitata nell’ uomo che può farsi da solo il proprio destino, a sostituire il pessimismo kinghiano. La riflessione sui pericoli di un indottrinamento mediatico viene purtroppo sminuita dalla regia, che è di tipo televisivo. Glaser veniva dal piccolo schermo e nonostante avesse un discreto budget a disposizione il tono narrativo appare sotto tono nelle parti d’azione. Rivediamo quanto può vedersi in molti telefilm di quegli anni: inseguimenti, sparatorie,  esplosioni realizzate da effetti speciali che forse già all’uscita del film in sala apparivano modesti. Probabilmente la scenotecnica dell’epoca non consentiva di fare di meglio, e proprio il non aver lesinato su stuntman e effetti porta ad un’esibizione esagerata delle loro imprese, datando irrimediabilmente il film. Sono sequenze realizzate con mestiere, montate in modo prevedibile e parte di una vicenda che intrattiene però sa irrimediabilmente di già visto. Molto più ispirate sono le parti dedicate al programma televisivo, orchestrate con grottesca verve e profetiche di quanto oggi c’è nei palinsesti televisivi. Escludendo la violenza, molti programmi vivono di ricostruzioni romanzate e morbose di fatti di cronaca nera, sfruttano la fragilità di persone provate da disgrazie o la vanità di starlette che non si sono sapute riciclare e sognano improbabili ritorni alle scene oppure accettano partecipazioni pur di sopravvivere.

La critica alla televisione verità messa in piedi con gusto kitsch, pochi soldi e ancora minore senso etico, il tripudio di fake news credute per vere da parte di una platea ormai priva di senso critico sono quanto di meglio il film offre, e lo riscatta almeno in parte dalla piatta mediocrità. Non si poteva prevedere l’arrivo di internet nelle case, e l’impatto dei social, tuttavia raramente il cinema distopico offre un quadro tanto verosimile sul futuro dello spettacolo e dell’informazione. Il film anticipa i deep fake oggi sempre più elaborati e verosimili, e la digitalizzazione di attori deceduti o troppo invecchiati per sostenere ruoli iconici. Nel caso de L’Implacabile i deep fake sono così realistici da poter passare per autentiche riprese ricreate in studio. I media creano notizie falsificate ad arte in modo da convogliare l’attenzione degli spettatori, distraendoli dai problemi reali, primo tra tutti la progressiva perdita della libertà di opinione. L’analisi della dittatura mediatica resta purtroppo adombrata dall’intreccio che privilegia l’intrattenimento, il ritmo, la stereotipizzazione dei personaggi e la semplificazione delle loro peripezie.
Schwarzngger è iconico, la presenza femminile, Amber Mendez interpretata da Maria Conchita Alonso, è funzionale all’intreccio. Deve rivelare al protagonista e agli ignari spettatori i retroscena, e pronunciate le battute necessarie torna ad essere un accessorio di scena senza personalità. Anche il villain di turno viene sminuito. Le sue scelte sono mosse non tanto da sadismo o da tornaconto personale, da desiderio di potere o da ambizione artistica. Il presentatore Damon Killian (Richard Dawson, attore e conduttore televisivo) è solo un burocrate, e bada a mantenere la poltrona e lo stile di vita privilegiato grazie alla manipolazione dei sentimenti del popolo. Non ha la grandezza di un super criminale o di un leader spinto da ideali assolutisti, è solo un ingranaggio di quella società, al pari dei grotteschi avversari che sfidano Ben. Con personaggi simili, monolitici e stereotipati, è difficile affezionarsi alla lotta di Ben per la sua sopravvivenza. Ci si può solo abbandonare a quello che avviene sullo schermo, senza pretendere di empatizzare con l’uomo in fuga o con gli altri concorrenti destinati a soccombere.

La trasposizione del romanzo, pur gradevole, è risultata poco convincente a suo tempo, scontentando pubblico e critica. Oggi si parla di un possibile remake, firmato da Edgar Wright e Glen Powell, ma dati i temi fin troppo scottanti e attuali, i dubbi sul possibile risultato sono più che leciti.

 

Cuccussette vi ringrazia della lettura.

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