THE  CALL  OF  CTHULHU

Nel 1926 lo scrittore H.P, Lovecraft pubblicò sulla rivista pulp Weird Tales il capolavoro horror Il richiamo di Cthulhu. Da allora, nonostante la crescente popolarità dello scrittore, ogni tentativo di trasposizione cinematografica del racconto ha sempre incontrato difficoltà dovute a molteplici fattori. Alcuni ostacoli sono facilmente comprensibili: le ambientazioni sono d’epoca, con tutte le possibili difficoltà nel reperire arredi Liberty e costumi appropriati. Se le sculture bizzarre possono venir sagomate in umile creta, le location oniriche, le paludi della Louisiana e le terre incognite con le loro città ciclopiche sono una bella sfida per gli scenografi. I luoghi devono incutere reverenza, mistero, devono turbare quanti le osservano. La realizzazione del mostro è impegnativa, è una creatura semidivina con tentacoli e ali, il più potente dei Grandi antichi, entità che giunsero sulla Terra da oltre le stelle. Deve trasmettere timore panico più che assomigliare a una dettagliata animazione da videogioco. Per quanto l’autore faccia apparire la sua più celebre creazione solo nell’epilogo, e costruisca lentamente la tensione, alla fine il dio octopode va mostrato in tutta la sua aliena maestà.
Altra difficoltà viene dalla narrazione stessa, in quanto gran parte degli scritti di Lovecraft sono in prima persona, con sentimenti narrati in soggettiva. L’Autore gioca sulla suggestione piuttosto che sulla facile exploitation di particolari orridi. Mostrare i personaggi che urlano, si coprono gli occhi, svengono o muoiono di paura al cospetto di ombre e simboli arcani può limitare l’abuso di trucchi, e suggerire la paura. E’ però un modo di creare tensione a cui molti spettatori non sono più abituati perché  il cinema contemporaneo, complice la stupefacente evoluzione tecnologica, ci ha abituato a vedere più che a immaginare.
Di conseguenza i tentativi di portare Lovecraft sullo schermo si sono quasi sempre concretizzati in film modestissimi, lontani dallo spirito del Grande.
Ha risolto genialmente ogni difficoltà la H.P. Lovecraft Historical Society, un’associazione di appassionati fondata in Colorado nel 1984 e dedita a valorizzare lo scrittore di Providence. Uno dei loro motti "a parallel universe since 1984 (un universo parallelo dal 1984)”la dice lunga: fanno LARP, gioco di ruolo a tema dal vivo e a tavolino, producono gadget, musica a tema, organizzano serate e conferenze. Nel 2005 hanno realizzato un film di 47 minuti, lunghezza anomala che male si inserisce commercialmente poiché i cortometraggi sono più brevi e hanno festival dedicati, mentre i film da sala spesso superano le due ore.
Si tratta di una trasposizione molto fedele al testo e altamente rispettosa della poetica del Solitario di Providence. Come il testo, anche il mediometraggio è un’opera in tre atti. In The Horror in Clay, il pronipote di un professore internato in un manicomio chiede a un personaggio sconosciuto (inventato per il film) di bruciare alcuni documenti contenenti rivelazioni tali da condurre alla follia quanti li leggessero. The Tale of Inspector Legrasse narra invece delle indagini di un poliziotto di New Orleans su un misterioso e sanguinario culto annidato nelle paludi della Louisiana. L’ultima parte è The Madness from the Sea, e in essa un marinaio norvegese approda su un’isola sconosciuta; insieme ai compagni di viaggio trova i resti dell’antica città di R’lyeh, e risveglia dal proprio sonno millenario Cthulhu, il più potente tra i Grandi Antichi della cosmologia lovecraftiana.
Invece di voler creare una trasposizione attualizzata delle vicende narrate, col dialogo, a colori, magari con effetti speciali deludenti e scenografie messe insieme alla meno peggio, il regista Andrew Leman ha diretto e prodotto questa pellicola compiendo una scelta artistica radicale. Ha voluto girare il film così come lo avrebbero potuto filmare negli Anni Venti, realizzando un’opera divulgativa insolita e pregevole, recuperando tecniche ormai desuete e usando i ritocchi della postproduzione per armonizzare l’insieme. The Call of Cthulhu è un film muto, in un bianco e nero virato seppia e antichizzato grazie a programmi di fotoritocco. Dialoghi e situazioni vengono esplicitati grazie a tabelloni che spiegano gli eventi e sostituiscono le battute. La recitazione deve quindi accentuare la mimica, proprio come si usava all’epoca. La stessa apertura con il logo della produzione HPLHS ricorda le prime immagini dei film di un tempo, e la statuetta del malvagio dio ha un design Art Noveau. Le sequenze richiamano il passato, con tanto di mare fatto da un lenzuolo mosso da un ventilatore, modellini di navi e mostri, e la città R’lyeh costruita con scatoloni dipinti e accostati in geometrie inconsuete.
La creatura è stata animata in slow motion, come nelle pellicole del regista ed effettista Ray Harryhausen.
L’uso intelligente del bianco e nero contrastato e con un effetto seppia minimizza la dovuta sobrietà e gli effetti speciali sono vistosamente artigianali. Le sequenze oniriche sono memorabili e così quelle della scoperta della città riemersa dall’Oceano con il suo Antico risvegliato da un sonno simile alla morte ma che non era morte.
In questo caso il modesto budget a disposizione (50.000 dollari) è stato uno stimolo per la creatività del regista e del suo team di cineasti e fan. Lo stesso stile narrativo guarda al passato, all’Espressionismo tedesco; ci sono parecchie  inquadrature sghembe, le scenografie ammiccano ai palazzi di Metropolis o al Gabinetto del Dottor Caligari, e ci si dimentica che sono solo alcuni pezzi di compensato dipinto, tenuti in piedi col nastro isolante. Grazie a una tecnica chiamata Mytoscope ogni fotogramma è ritoccato in modo da esasperare i contrasti tra ombra e luce e sembrare davvero un filmato di cinetaca.
Lo sceneggiatore Sean Branney (e coproduttore insieme a Leman ) ha fatto del suo meglio per selezionare e parti più importanti del testo di Lovecraft, inserendo anche citazioni dotte estrapolate da altri racconti.
L’incipit con la macchina da presa che ruota su un puzzle della Notte Stellata di Van Gogh è una prima misura del valore artistico del mediometraggio, è metafora di quanto vive il narratore. Ricoverato in un manicomio, un uomo (Matt Foyer) cerca di dare un senso a quanto conosce dell’orrore cosmico raccontando il suo incontro col sovrannaturale a un ascoltatore (John Bolen). Era stato incaricato di eseguire il testamento del defunto prozio, il professor Angell (Ralph Lucas). Nell’eseguire le volontà aveva scoperto una serie di fatti bizzarri correlati fra loro. Ne era emersa una verità insopportabile per l’animo umano, tale da portare quanti vi si accostino alla morte o alla folla… Nell’epilogo che segue la narrazione lo stesso internato distrugge il puzzle, poiché la conoscenza dei misteri che si celano dietro all’apparentemente serena realtà è intollerabile. Ci sono cose che l’uomo non dovrebbe sapere, e l’ignoranza è l’unico modo per conservare la sanità mentale in un mondo popolato da entità piovute da oltre le stelle.
La suggestione decolla, grazie al recupero del linguaggio del cinema del passato, con i suoi artifici e una bella colonna sonora orchestrale accompagna la vicenda.
Il risultato è un lavoro originale e colto, fatto con il cuore e con una qualità artistica raramente avvicinata dai far film. E’ una vera chicca come raramente se ne vedono, capace di restare fuori da epoche e categorizzazioni e per questo motivo non adatta a compiacere tutti i palati.

 

Cuccussette vi ringrazia della lettura.

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