OMICIDI E INCANTESIMI

 

Quasi sempre i film realizzati per la televisione sono pellicole sciatte, prive di idee geniali, recitate alla meno peggio, confezionate in economia. Se ci sono trucchi ed effetti ottici il povero spettatore può attendersi prodezze degne di una casa delle paure da luna park itinerante di provincia. Per fortuna non è sempre così, e anche se l’eccezione fosse una su cento, meriterebbe tutto l’affetto possibile. A smentire questa serie di pregiudizi, il bellissimo Omicidi e incantesimi (Cast a Deadly Spell), diretto da Martin Campbell nel 1991. La vicenda sceneggiata da Joseph Dougherty mescola l’horror lovecraftiano con il più classico hard boiled. L’ambientazione è originalissima, per molti versi analoga a quella di Chi ha incastrato Roger Rabbit? La Los Angeles del 1948 è una realtà del tutto ucronica, stavolta non ci sono cartoni animati a convivere con gli esseri umani, ma è la magia che fa la differenza. Tutte le persone usano la stregoneria per vivere più comodamente, un po’ come avverrà poi per il mondo di Harry Potter. Ci sono streghe, vampiri, licantropi, unicorni a giro alla luce del sole;  le magie si mescolano con una tecnologia retrò. Il solo a rifiutare questo tipo di progresso è Philip Lovecraft, detective che conosce i ritrovati della magia ma cerca di farne a meno, nonostante le evidenti difficoltà che una scelta del genere, in un mondo simile, comporta. A partire dal nome cita il famoso scrittore H.P. Lovecraft, padre dell’horror fantasy, e il celebre occhio privato Philip Marlowe, creatura di Raymond Chandler consegnata all’immaginario collettivo con il volto di Humphrey Bogart. E’ interpretato da un tostissimo Fred Ward, che anche visivamente ricorda sia lo scrittore, sia l’icona cinematografica, con un look stazzonato e dolente come si addice ad un detective squattrinato, con la cravatta color vomito di cane e la sigaretta ciondoloni, e l’ufficio in perenne disordine dove spesso s’addormenta vestito e alticcio. Per arrivare a fine mese accetta l’incarico dell’occultista  Amos Hackshaw (David Warner), uno degli uomini più ricchi di Los Angeles. Dovrà recuperare un libro che gli è stato rubato: il prezioso Necronomicon. La ricerca è ovviamente costellata da visite nei bassifondi della città , nei night, nei diner, tra pugni, pupe e pallottole, come è tradizione del cinema americano noir tra anni Quaranta e Cinquanta. O piuttosto, stavolta ci sono maledizioni e incantesimi letali al posto delle consuete scazzottate e sparatorie, condite da tanta fracassona ironia e musica jazz. C’è ovviamente la bellissima pupa, c’è la giovane protetta dell’occultista, e tutti i personaggi incarnano i cliché tipici del cinema di genere, rivisitati quanto basta a adeguarli alla nuova ambientazione e a un umorismo sul filo della parodia.
L’intreccio è una continua citazione di stereotipi letterari, da quelli tipici dell’hard boiled, il noir d’azione a quelli della mitologia di Cthuhlu. Oltre al nome del protagonista e al libro oggetto della ricerca, c’è l’immancabile night club Harry Bordon's Dunwich Room. Compaiono anche tante creature diverse, alcune ereditate dagli scritti di Lovecraft e altre tipiche del folklore. I trucchi sono prevedibilmente artigianali, si limitano a protesi e make up, a pupazzi, agli animatronic e alle apprezzabili scenografie di Jon Bunker. Tanta semplicità non è però necessariamente un male: nel 1991 erano pochissime le produzioni in grado di disporre di ritocchi computerizzati decenti. In quasi tutti i casi – e possono essere per esempio il cartone Aida degli Alberi o quello di Dragonlance - i risultati sono quasi sempre molto disarmonici e goffi, più di quanto non lo siano espedienti tradizionali ben allestiti, soprattutto se il contesto ha una buona componente di comicità e divertita nostalgia. La fotografia di  Alexander Gruszynski è un piccolo miracolo in tale senso, poiché minimizza l’artificiosa semplicità dei trucchi e li fa figurare al meglio delle possibilità.
Ci sono momenti umoristici, con una comicità nera che non risparmia la satira sociale come nel caso degli zombie afroamericani fatti arrivare in pacchi da sei da Haiti e usati come lavoratori a basso costo per circa tre mesi, prima che si decompongano troppo e puzzino. Anche il sacrificio di una vergine è quanto di meno possibile in un mondo disincantato dove le ragazze sono ben sveglie e perdono velocemente il tanto richiesto attributo.
I novantasei minuti scorrono veloci, con qualche buco di sceneggiatura e tante risate, da godersi ricordando come erano liberi gli anni Novanta. Gli effetti speciali sono poveri, e rivelano impietosamente l’età della pellicola, però i copioni sono ricchi di battute che oggi sarebbero vietate dalla censura woke. Lo stesso finale ha una risoluzione molto boccaccesca e forse non è quel tripudio di magie che il primo tempo poteva far sperare, però è divertente. Si resta sospesi tra la parodia e l’omaggio elegiaco, più che andare verso un horror a tinte cupe. Quanto l’ago della bilancia penda in uno dei due sensi, è più che altro una questione di sensibilità individuale e di passione per i miti di Cthuhlu o il noir.
Il film è ovviamente destinato ad appassionati di letteratura e cinema di genere, e ha varie ingenuità, che però non pesano troppo, o piuttosto, si notano, però si fanno perdonare poiché lo scopo della vicenda è omaggiare autori e stereotipi, ridendoci sopra con estremo affetto.  Dalle automobili che non partono perché hanno i gremlins nel motore fino a piccole chicche, come il capo della polizia che fa Bradbury di cognome, c’è di che apprezzare questo bislacco esperimento, che ha avuto un sequel, ma con un cast tutto diverso.

 

Cuccussette vi ringrazia della lettura.

La recensione è stata edita da questo sito! Se ti piace puoi adotarla e scambieremo i link delle nostre pagine, contattami !

LEGGI ALTRO TELEVISIVO

HOME