FANTASMI A ROMA
L’anziano principe Annibale di Roviano vive in un cadente palazzo rinascimentale a Roma, unica proprietà rimastagli delle tante un tempo possedute dalla sua casata. È un vecchio nobile decaduto che deve fare i conti con le ristrettezze economiche, e con il mondo che cambia inesorabilmente attorno a lui. Trascorre le giornate seduto in poltrona, chiacchierando con un pappagallo imbalsamato oppure con i fantasmi degli antenati che egli crede dimorare in casa sua. Anche se non può vederli, nell’edificio abitano effettivamente alcuni spettri: Bartolomeo, un frate deceduto a metà del Seicento dopo aver mangiato delle polpette avvelenate; il cavalier Reginaldo, impenitente donnaiolo di fine Settecento, morto cadendo da un tetto durante una scappatella notturna; donna Flora, bella e svampita ragazza, suicidatasi per pene d’amore; e infine Poldino, il fratello di Annibale, morto da bambino.
Un giorno, nel tentativo di riparare un vecchio scaldabagno, il principe rimane vittima di un’esplosione e passa anch’egli a miglior vita. Subito ‘si fa vivo’ l’unico parente rimasto, il nipote Federico, un giovane alla moda che mantiene una spogliarellista, guida un’automobile di grossa cilindrata e frequenta night e ristoranti costosi. L’erede ha tutta l’intenzione di disfarsi del palazzo patrizio lasciato da Annibale, vendendolo per una grossa cifra a chi vuole demolirlo per costruire al suo posto un centro commerciale.
Ma i fantasmi, naturalmente, non ne vogliono sapere di abbandonare le vecchie mura…
Questi fantasmi
Fantasmi a Roma è un raro esempio di commedia fantastica italiana. Gli spettri protagonisti, a differenza di gran parte dei ‘colleghi’ esteri, sono presenze positive che non cercano vendetta contro i viventi ma si limitano a osservarli, innocui o protettivi come i numi domestici degli antichi. Incarnano il trascorrere del tempo, convivono con l’uomo nelle case antiche, affollano tetti e strade, catapecchie e palazzi; passano l’eternità a riflettere su come è cambiato il mondo, conservando il carattere e le manie avuti da vivi.
Ci sono il dongiovanni, la nobildonna, il frate, il bambino, il pittore, il soldato, lo spazzacamini, la monaca… persone comuni. I vivi difficilmente si accorgono della loro quieta presenza, troppo distratti da un’esistenza sempre più frenetica; solo chi è in punto di morte o in gravissimo e imminente pericolo può scorgere queste diafane creature, simili a statue di biscuit, e udirne le loro tenue voci. Le persone più sensibili possono al più intuirne la presenza.
I fantasmi, dal canto loro, hanno limitata capacità di interagire con il mondo materiale; possono spostare piccoli oggetti, come libri, tazzine, occhiali, piume… nulla più; e ciò serve loro per prendersela con gli increduli, difendersi dagli speculatori, proteggere chi ne ha bisogno.
Questi anime, che escono notte e giorno per restare a contatto con la gente brulicante nelle strade, nella piazze, nelle aule delle scuole, nei parchi, continuano ad amare la vita anche da morte, senza abbandonarsi a rancori o inutili rimpianti. Popolando le vecchie case, aggirandosi tra pavimenti sconnessi, soffitte polverose e mobili tarlati, essi incarnano lo spirito di Roma, una città che più di altre ha attraversato i secoli, accumulando tracce del passato.
L’ambientazione è parte integrante della vicenda, anzi, forse è la vera protagonista, immortalata dalla stupenda fotografia di Giuseppe Rotunno. Memorabili sono la panoramica iniziale che ci fa conoscere la dimora del Roviano, i primi piani dei vecchi mobili, le vedute dei tetti dell’Urbe, gli scorci di Santa Maria della Pace o del Chiostro del Bramante…
Il crepuscolo della modernità
Diretto da Antonio Pietrangeli nel 1961, Fantasmi a Roma è una pellicola atipica nel panorama della cinematografia italiana, abituata a sfornare pellicole realistiche e socialmente impegnate, oppure commedie più o meno commerciali. Anomalo è il soggetto fantastico, e ancora più anticonformista è il suo sviluppo. Il film, realizzato in pieno boom economico, si pone come un’apologia del rifiuto della modernità. È una dirompente critica alla smania del voler apparire alla moda a tutti i costi, del rincorrere un mito di benessere che spesso si rivela illusorio.
Il messaggio è esposto con i toni gioviali di una commedia dall’umorismo sagace e privo di volgarità, e conserva ancora oggi intatta la sua efficacia. Le disavventure dei fantasmi di famiglia offrono occasione per trattare problemi molto attuali, su cui urbanisti e sociologi dibattono: la ricerca dell’equilibrio tra presente e passato, il rapporto tra identità e memoria storica, la speculazione edilizia e la corruzione, la difesa del patrimonio artistico dell’Italia… La risposta suggerita da Pietrangeli non è un facile e nostalgico ritorno a un passato idealizzato, ma è un sereno invito alla convivenza di antico e contemporaneo. L’evoluzione tecnologica, i nuovi mezzi, il benessere economico esprimono la loro positività solo in presenza della consapevolezza su quale è stato il percorso che ci ha condotti a essere ciò che oggi siamo. L’assenza di questa percezione impedisce l’armonia, priva gli individui di una salda identità e li condanna alla ricerca di una felicità inappagante costruita su rapporti umani ipocriti che lasciano l’amaro in bocca.
È venendo a patti con il passato che Federico si accorge di quanto sia superficiale la compagna Eileen, un’arrivista interessata soltanto al denaro, e può così liberarsi di una relazione fasulla, recuperando la propria dignità, entrando a poco a poco nel ruolo che fu del Principe.
Nella pellicola, i comportamenti tipici della repentina crescita economica di fine anni Cinquanta sono sempre visti con sospetto: la televisione ostacola le relazioni, tanto che un marito nemmeno vede la bella moglie in guêpière; le utilitarie passano sobbalzando sul vecchio selciato, minacciando i passanti e i carretti dei venditori ambulanti; I ritrovi più ‘in’ non sono salotti letterari o circoli di artisti, sono ristoranti di lusso con pista da ballo per scatenarsi nel chachacha, teatro di spogliarelli o esibizioni di drag queen. Né il maggior benessere ha reso più stabili gli affetti: le pagine dei quotidiani sono occupate da delitti dei peggiori generi, maturati in famiglie apparentemente normali. Quanto al senso morale della gente, assistiamo a una corruzione dilagante, che Federico foraggia salvo poi farne le spese.
La spietata critica risparmia solamente quei personaggi e quelle situazioni che si fanno portavoce dell’amore per il passato e del rispetto per l’ambiente. Sono buoni i fantasmi, il principe Annibale che rifiuta i cambiamenti , Federico che si rende conto della superficialità dei suoi atteggiamenti da nuovo ricco. Sullo sfondo, c’è tutto il fascino della Roma meno conosciuta, vicina alle atmosfere esoteriche care a Giuseppe D’Agata: dimore storiche, vicoli bui, strade e piazze dove vivono persone autentiche, un mondo lontano dai pellegrinaggi dei turisti.
Dedicato agli artisti di ogni tempo
Il cinema fantastico italiano può venire accusato di osare poco, di essere succube della mancanza di effetti speciali, di preferire l’impegno sociale all’intrattenimento. Nel caso di Fantasmi a Roma, la trama fantastica è costruita in funzione di una garbata e coraggiosa satira sociale. La spietata analisi anticipa molti problemi del nostro presente: il disgregarsi delle relazioni personali, i drammi familiari protagonisti della cronaca nera, l’avventata speculazione urbanistica che ha sconvolto Roma e ha generato periferie spesso invivibili, le difficoltà del preservare i capolavori ritenuti minori… La pellicola parla direttamente al cuore degli appassionati d’arte, nonostante il pittore Caparra (impersonato da Vittorio Gassman) sia un personaggio fittizio: il vero ‘Caparra’ era un fabbro fiorentino, abile quanto un orefice, autore dei magnifici draghi che ornano le pareti del Palazzo Strozzi e un tempo sorreggevano le fiaccole, mentre oggi guardano le vetrine di note boutique d’alta moda.
Gli effetti speciali sono minimali, e gli spettri si distinguono dai vivi per il colore polveroso dei loro volti, capelli e abiti, questi ultimi rigorosamente datati all’epoca della morte. Indovinata è la scelta di far apparire o scomparire gli spettri grazie a giochi di luce, proprio come avverrebbe su un palcoscenico. E dal teatro provengono gli interpreti, con poche eccezioni: il principe è interpretato dal grande Eduardo De Filippo, erede della tradizione partenopea, a sua volta commediografo e poeta; il frate ha le rotondità di Tino Buazzelli, interprete brechtiano; il dongiovanni Reginaldo e l’erede Federico hanno il volto di Marcello Mastroianni; donna Flora è Sandra Milo, e Belinda Lee ha il ruolo di Eileen Charm. Anche i personaggi secondari sono affidati a solidi professionisti che hanno lavorato con Strehler, Antonioni, Visconti.
La sceneggiatura è un piccolo capolavoro, è stata curata da Ennio Flaiano, oltreché dallo stesso Pietrangeli, da Ruggero Maccari e da Ettore Scola. Anche la colonna sonora è d’autore: composta da Nino Rota e diretta da Armando Trovaioli, alterna partiture di ispirazione jazz a struggenti brani per mandolino.
Fantasmi a Roma, grazie all’attualità dei suoi temi, alla confezione eccellente, ha compiuto cinquanta anni e non li dimostra, è una pellicola da rivalutare.
Cuccussette vi ringrazia della lettura.
Questa recensione è stata edita da TERRE DI CONFINE https://www.terrediconfine.eu/fantasmi-a-roma/
Crea il tuo sito web con Webador