FAIRYTALE

Fairytale è un horror creato nel 2012 dal talentuoso duo Christian Bisceglia e Ascanio Malgarini, lo stesso che, anni più tardi, realizzerà un’altra fiaba gotica, Cruel Peter.  Il titolo può essere abusato, in quanto comune a Fairytale – una fiaba, il recente film di Aleksandr Sokurov, o la ricostruzione della truffa delle foto con le fate d’epoca vittoriana di Fairytale – una storia vera. Questi due film in Italia hanno il titolo ‘allungato’ in modo da non generare confusione, mentre l’opera di Bisceglia e Malgarini è conosciuta anche come The Haunting of Helena, proprio per evitare le ambiguità.
Il soggetto di Fairytale si ispira alla famosa figura della fatina dei denti, il personaggio che va a prendere i denti di latte che i bambini perdono e che mettono sotto il cuscino, lasciando in cambio dei soldi. La tradizione popolare ha la funzione di far superare quella piccola perdita, e magari avviare i bambini a non temere il buio. La leggenda popolare ha però elementi paurosi: la fatina arriva di notte, quando i piccoli sono addormentati e nel buio striscia verso il guanciale per compiere lo scambio.
Nel film è ancora peggio. La fatina che vuole i denti della piccola Helena è la spettrale figura di una donna a cui il marito geloso strappò i denti e la lasciò morire chiusa in un armadio.
Helena (Sabrina Jolie Perez)  e sua madre Sophia (Harriet MacMasters-Green) si sono trasferite nel l’Agro Pontino, a Latina, e senza saperlo abitano proprio nel palazzo dove avvenne il delitto. La creatura  esce da un armadio e appare alla bambina, che non ne è spaventata, ma inizia a comportarsi in modo bizzarro, sviluppando una morbosa attrazione per i denti. La madre la porta in una clinica psichiatrica e inizia a far luce sul mistero, giungendo alla scoperta di una verità sconvolgente…
Fairytale è un horror nostrano,  anzi un folkhorror, un film di paura di ambientazione nostrana, basato su storie e tradizioni locali e su paesaggi tipicamente regionali, inaugurato dal Gotico Padano di Pupi Avati. E’ stato realizzato con l’ambizione di varcare i confini del nostro Paese, e ha qualche suggestione attinta dal cinema orientale, pur distaccandosi dai tanti remake realizzati negli Stati Uniti all’inizi del terzo millennio. Di conseguenza ha un cast internazionale, è stato recitato in lingua inglese ed è stato prodotto dalla One More Pictures, casa di produzione di film, di cortometraggi e di spot, con presenze al Giffoni Film Festival e alla mostra di Venezia .
Pur essendo pensato per piacere anche all’estero il film ha un’ambientazione tutta italiana, quella di Latina, cittadina creata per volere di Mussolini in seguito alla bonifica delle paludi.  Il mistero che circonda la casa ha avuto origine nel ventennio, quando tanta gente povera o desiderosa di farsi una nuova vita si trasferì nella nuova città. L’uxoricida era un militare fascista, di certo abituato alle violenze; il credo politico però passa in secondo piano davanti all’efferatezza del delitto.
Le architetture di Latina, dalle forme solide e lineari, talvolta ispirate alla Roma idealizzata dal mito fascista offrono una scenografia adatta alla vicenda. La fotografia livida e spenta ritrae un paese che sembra essere un non luogo, ovvero una creazione artificiale, un esperimento di urbanistica che pare perfetto eppure privo di anima. Se c’è un’identità di paese, un suo essere comunità, resta fuori dalle inquadrature e Sophia ne rimane esclusa, tanto che ha comprato casa senza che nessuno la informasse della tragedia avvenutavi. La donna  si aggira ignara nel condominio, all’università dove insegna, nell’ospedale psichiatrico dove un’ala un tempo fu usata come manicomio criminale, viene informata dalla maestra dei problemi della bimba. La vita quotidiana viene rappresentata con sequenze algide che sottolineano il senso di estraneità, e ci calano in un’atmosfera soffocante sospesa tra allucinazione e incubo.
Poco a poco viene a galla il passato di Sophia, la madre è morta suicida in manicomio, la relazione col marito Robert è tossica. Il compagno si è rifatto una vita chissà dove, e torna dimostrandosi comunque inetto e prepotente. Gli uomini fanno una misera figura in questa fiaba nera: il marito più che aiutare la ex moglie vorrebbe portarsi via la bambina; l’uxoricida è un sadico destinato a non essere creduto dalla polizia e confinato nel manicomio; i medici sono incapaci di capire cosa stia accadendo e, seppure in modo inconsapevole, provocano la catastrofe. In contrasto con queste figure deludenti c’è Sophia, col suo coraggio e i suoi trascorsi familiari infelici riscattati in parte dalle soddisfazioni professionali, pronta a tutto per salvare la propria figlia e per conoscere, a caro prezzo, la verità. E’ un ruolo lontanissimo dai personaggi femminili di molte pellicole, personaggi secondari o puramente estetici, donzelle in pericolo pronte a strillare alla minima ombra e a stringersi al maschio alpha di turno. E’ girl power, stavolta senza retorica.
Gli attori se la cavano decorosamente, pur senza essere nomi molto noti; semmai il doppiaggio talvolta è lievemente fuori tempo e penaizza le loro performances. E’ un’imperfezione che si nota poco, tanta è la tensione claustrofobica che pervade anche i momenti in cui non accadono eventi sovrannaturali ma ce li fanno presagire, spesso smentendoci.
La sceneggiatura include parecchie sequenze decisamente paurose,  con le apparizioni della fatina, le allucinazioni che sono più reali di quanto sia logico attendersi,  gli sciami di insetti carnivori e i denti che compaiono come immagini da incubo. Alcune sequenze sono davvero belle, come l’incidente, la mano che striscia sul materasso, o la caduta dei denti rallentata. L’incipit con la carrellata in soggettiva che segue le scie di sangue dopo il delitto è di forte impatto.
Gli effetti speciali sono usati al meglio, il ritocco digitale interviene il minimo indispensabile, a parte la viratura in toni freddi di tutti i fotogrammi.
 Lo stile è quello ereditato da Ringu e da altri film della cinematografia di genere in Oriente, decontestualizzato e influenzato da Del Toro e dalle sue fiabe gotiche ricche di riferimenti a fatti reali rivissuti e rielaborati in forma metaforica. Il ritmo è lento nella prima parte della narrazione, in modo da creare la giusta atmosfera, definire i personaggi e donare loro un minimo di tridimensionalità. La situazione precipita con la vorticosa seconda parte, ricca di colpi di scena fino al drammatico finale.
Con queste caratteristiche, il film non sfigura se paragonato con produzioni d’oltre oceano o britanniche, anzi, in molti casi supera pellicole più ricche e meglio reclamizzate. Da vedere, soprattutto per quanti credono che l’Italia sullo schermo siano solo opere di impegno civile o cinepanettoni.

 

Cuccussette vi ringrazia della lettura.

Questa recensione è stata edita su questo sito. Se la volete ospitare, contattatemi. Florian Capaldi  su Facebook

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