I GIOCHI DEL DIAVOLO

I giochi del diavolo è uno sceneggiato in sei puntate prodotto dalla RAI nel 1981, recentemente restaurato. Ciascuna puntata mette in scena un diverso racconto fantastico d’autore, spaziando tra l’horror, il gotico, il bizzarro. A fornire i soggetti, le pagine di autori ottocenteschi famosissimi come Hoffman, James, Wells e Stevenson, o meno noti ai lettori italiani come Prosper Mérimée e Gérard de Nerval.
Ogni episodio è stato diretto da un regista diverso, ha un cast diverso ed è del tutto indipendente da quanto è stato già trasmesso e da quanto verrà poi mostrato nelle storie successive. Anche lo stile narrativo passa da essere paragonabile a quello del cinema, con riprese effettuate in luoghi realmente esistenti e un montaggio che alterna inquadrature diverse per i primi tre episodi, a ricostruzioni teatraleggianti effettuate in studio nei restanti episodi. A unire le vicende come un fil rouge, la sigla con l’inchiostro rosso sangue che traccia il volto stilizzato di un diavolo, ed alcuni elementi ricorrenti.
Le storie sono tutte ottocentesche, scelte con la consulenza di Italo Calvino tra classici più o meno noti e rese con fedeltà al testo e libertà estrema nella resa estetica di scenografie e costumi. Era abbastanza comune tra anni Settanta e Ottanta, trovare allestimenti teatrali alternativi, pronti a far rivivere i personaggi di Shakespeare in cantieri, a portare Plauto nelle piazze, Ariosto nei capannoni e in altri posti solitamente non dedicati a quel genere di spettacolo. Nella serie, proprio come negli allestimenti teatrali, vige il minimalismo e la sperimentazione, anche per ovvi motivi di costi. Ci sono riprese dal vero a Lucca e in ville nei dintorni, e a San Frediano; la Francia della provincia rurale è inscenata in una villa di campagna. Oppure la scena è tutta immaginata e ci sono taverne e città ricostruite in interni grazie a scenografie che ricordano Murnau e de Chirico. Le Hawaii sono un palcoscenico con uno scrittore in una capanna fatta di libri che racconta e attori che si muovono attorno a lui. Le ambientazioni spesso si contrappongono al realismo a cui ci ha abituati il cinema, più spesso c’è la scelta consapevole di rinunciare ad ambienti naturali per cercare soluzioni antirealistiche.
Gli attori hanno un’impostazione teatrale nel recitare, oggi molto lontana dal gusto comune delle fiction o del cinema internazionale. Declamano le loro battute come se fossero su un palcoscenico e in effetti gran parte dei nomi impiegati dalla produzione sono noti per le performances in teatro, sono professionisti con carriere decennali e nessuna esperienza o quasi nel cinema internazionale. Questa caratteristica è piuttosto evidente, in parte ostacola la fruizione da parte di uno spettatore di oggi, e in parte attrae proprio perché è completamente diversa da quanto vediamo di solito. Nessun personaggio dello sceneggiato si esprime come parla la gente che incontriamo per la via, anche quella più istruita; però nessuno di questi personaggi vive situazioni ordinarie.
Il tono delle narrazioni appare solenne e lento. Pur raccontando storie con elementi di fantasia, gli effetti speciali sono ridotti ai minimi termini, o del tutto assenti. Una luce nella magica bottiglia lascia immaginare un diavoletto e se ne vede una manina di gomma non troppo dissimile da quelle che si trovavano nei pacchetti di patatine; un attore vestito di panni grigi e truccato è un fantasma; un guanto di gomma tirato da fili simula una mano viva. Spesso sono gli stessi trucchi a buon mercato che possono essere a disposizione in teatro, e ovviamente non possono essere paragonati con quanto si vedeva nei film. Luke Skywalker aveva svolazzato sul Millennium Falcon e lo spettatore deve accontentarsi di gommapiuma e fili di nylon trasparenti ma non troppo.  
Il montaggio è molto più lento di quanto ci abbia fatto conoscere il cinema: già negli anni Trenta c’erano ritmi più veloci, un’alternanza di inquadrature più rapida, tanta verve in più. Invece la narrazione nelle sei puntate si prende il suo tempo; a volte la lentezza è necessaria per poter creare ed enfatizzare atmosfere claustrofobiche e deliranti, e a volte è semplicemente ereditata da quanto avveniva negli sceneggiati degli anni Sessanta e inizio Settanta. L’andamento è più rapido per Prosper Mérimée e la sua Venere e per Henry James con la sua misteriosa presenza, mentre è lentissimo per Stevenson. Ci sono frequenti primi piani, zoomate su particolari importanti ai fini di agevolare la comprensione, o ampi piani sequenza.
E ora, gli episodi.
L'UOMO DELLA SABBIA di Giulio Questi è la trasposizione dell’omonimo racconto di E.T.A. Hoffmann, studiato anche da Sigmund Freud. La discesa di Nathaniel nell’abisso della follia è narrata con ritmo lento e claustrofobico, e la trasposizione è molto fedele alla pagina. Donato Placido è l’allucinato protagonista, Feliciani è il malevolo Coppelius. La recitazione è di tipo teatrale, e funziona se non si pretende che abbia la leggera sveltezza di quella cinematografica. Indimenticabile la filastrocca recitata dal povero Nathaniel e la misteriosa Ofelia.
LA VENERE D'ILLE è l’ultima opera di Mario Bava ed è stata realizzata col figlio Lamberto. Nel racconto di Prosper Mérimée un rozzo nobilotto di campagna nel giorno delle proprie nozze infila l’anello nuziale al dito di una statua di Venere trovata tempo prima nei terreni della sua villa, pur di poter giocare alla pallacorda, e mal gliene incoglie. La storia non è così horror quanto lo spettatore si aspetterebbe, anche per le abbondanti riprese in esterni di soleggiati giardini, però in alcune sequenze la mano del maestro dell’horror nostrano si sente, e in quei momenti la narrazione decolla. Tra i sei episodi è probabilmente quello che usa un linguaggio espressivo più vicino a quello cinematografico, con gli ultimi dieci minuti memorabili e vicini stilisticamente ai vecchi film horror.
Anche LA PRESENZA PERFETTA, per la  regia di Piero Nelli ha riprese in esterni, a Lucca e nelle ville che sono disposte lungo la strada che collega la città con Pisa e che oggi sono diventate alberghi di lusso e ristoranti specializzate in cerimonie. L’episodio è tratto dal racconto “Sir Edmund Orme” di Henry James. Uno scrittore (William Berger ) in vacanza in Italia conosce una madre con la figlia, e si innamora della ragazza, non ricambiato del tutto. Le differenze di carattere sono subito evidenti ma c’è di più: una presenza minaccia il loro amore, apparendo nei momenti meno adatti. E’ una ghost story priva di elementi orrifici, salvo in parte l’ultima sequenza, e con effetti speciali minimali, già noti ai tempi di Melies. La vicenda è sorretta dalle belle interpretazioni e dall’eleganza formale delle scene. La lentezza in questo caso sembra sfruttata a dovere poiché il fantasma deve comparire più volte, farsi sempre più presente nella vita dei protagonisti.
LA MANO INDEMONIATA  di Marcello Aliprandi è stata ripresa in studio, con Gabriele Ferzetti, Cochi Ponzoni, Veronica Lario, e un giovane Massimo Boldi. L’episodio è tratto dal racconto “La mano incantata” (“La Main enchantée” o “La Main de gloire: histoire macaronique”) di Gérard de Nerval. Le scenografie sono memorabili, ricordano De Chirico , ammiccano a significative figure dei tarocchi, riproducono ambienti cittadini con scorci degni dei film dell’Impressionismo tedesco. La lezione del Caligari e di Murneau e quella del teatro sperimentale si abbracciano, e c’è una vena grottesca e tragicomica nella parabola che condurrà il protagonista alla forca. La mano magica è un comune guanto di gomma ben pitturato e spostato da fili, ma l’humor macabro rimpiazza adeguatamente l’orrore.
IL DIAVOLO NELLA BOTTIGLIA di Tomaso Sherman tratto dal racconto omonimo di Robert Louis Stevenson non solo è girato in interni, ma è esplicitamente ambientato su un palcoscenico dove Stevenson stesso racconta la vicenda a un pubblico di Polinesiani. Tutta l’azione si anima in conseguenza delle parole del narratore, che dà vita a San Francisco, alla Casa Splendente e alle poche altre location. Pochi oggetti di scena compaiono segnalando il passaggio da un’ambiente ad un altro. Gli effetti speciali sono ingenui; la teatralizzazione del testo riesce comunque a inserirli in un contesto accettabile. Non è la brutta copia di un film, questo è teatro ripreso e portato al pubblico… peccato per le interpretazioni, a tratti imbarazzanti. Ovvio che il protagonista doveva essere un giovane aitante, credibilmente marinaio, credibilmente innamorato, e quindi non potevano mettere un interprete bravo ma fuori età, o poco atletico. Di tutti gli episodi probabilmente è quello più interessante per la scelta teatrale, però è anche quello che può deludere più facilmente.
IL SOGNO DELL’ALTRO, regia di Giovanna Gagliardo è tratto dal racconto Il fu signor Elvesham di Herbert George Wells. La storia di per sé sarebbe intrigante: c’è un immortale che fa in modo da impossessarsi di corpi di ragazzi giovani e aitanti, usarli e quando diventano vecchi cercare un nuovo guscio. Il ritmo però è davvero lento, non ci sono scene horror né si gioca la carta dell’ambiguità sessuale del maturo benefattore.  Latitano gli effetti speciali, e anche se ben recitato, l’episodio ha la staticità di un duetto teatrale.

E quindi…
Allo spettatore del terzo millennio è richiesto il notevole sforzo di avvicinarsi alla miniserie lasciando da parte ogni confronto con quanto si vede oggi sui teleschermi. Per accettare per veri gli eventi sovrannaturali inscenati con pochi mezzi è obbligatorio porsi in un’ottica da spettacolo teatrale. La serie è stata creata con mezzi contenuti ed un intento educativo abbastanza esplicito: far conoscere i capolavori della letteratura di genere, trasposti mantenendo il fraseggio scelto dagli scrittori, senza concessioni al gusto commerciale e interpretati con tanta voglia di sperimentare. Occorre contestualizzare la serie negli anni in cui è nata: oggi sarebbe quasi impossibile proporre soluzioni narrative tanto astratte ed anticonvenzionali, però almeno fino all’espansione delle televisioni commerciali con la loro spietata concorrenza, la RAI poteva permettersi operazioni del genere. Nessuno misurava lo share, e il pubblico era curioso, disposto ad interessarsi a spettacoli di tipo diverso da quelli che trovava al cinema del paese o al cineforum. O forse, cercava di farsi piacere quello che passava il convento poiché la televisione era l’intrattenimento più facilmente disponibile.
Rivista oggi una serie del genere suscita emozioni contrastanti. Per tanti aspetti appare troppo ingenua, per altri è modernissima, tanto che The Cabinet of Curiosities di del Toro recupera una struttura episodica con trasposizioni di classici lovecraftiani alternate a storie più moderne, realizzate però con mezzi e effetti speciali . Inoltre quelle sei puntate mostrano come il fantastico potrebbe tornare a teatro, non limitandosi a trovate di sicuro effetto come le tre streghe del McBeth, ma con storie adeguate ad essere trasposte. Mi augurerei di poter assistere a spettacoli ‘di genere’ portati sul palcoscenico e chissà, magari i tempi sono maturi per proposte alternative ai soliti classici o al cabaret.

 

Cuccussette vi ringrazia della lettura.

La recensione è stata edita su questo sito nel 2023. Vuoi adottarla? Contattami su Facebook, sono Florian Capaldi !

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