VOGLIA DI VINCERE
Ci sono storie poco originali, capaci però di tornare periodicamente sullo schermo e di avere successo. Succede se la nuova narrazione ha un buon cast e qualche modesta variante, e se viene presentata nel momento più adatto del calendario. E’ il caso di La voglia di vincere, (Teen Wolf), una simpatica commedia americana per teenager datata metà anni Ottanta e interpretata da Michael J.Fox al culmine della carriera.
Marty Howard (J. Fox) è uno studente del college e spesso viene bullizzato perché basso, gracile, e imbranato. La sua condizione di perpetuo sfigato è destinata a cambiare con l’arrivo della pubertà. La famiglia infatti nasconde un terribile segreto, sono lupi mannari; la licantropia viene ereditata di generazione in generazione ed emerge con l’adolescenza. Marty scopre di poter diventare a sua volta un uomo lupo forte e capace di riuscire bene in qualsiasi attività decida di impegnarsi. Il cambiamento lo trasforma in un mostro di bravura nel basket, in un sex symbol invidiato dai compagni e corteggiato dalle ragazze…
La vicenda diretta da Rod Daniel impone di abbracciare senza riserve sia la retorica tipica dei film sportivi, sia i tanti stereotipi delle commedie per teenager, sia la mitologia hollywoodiana degli uomini lupo.
Alcune licenze narrative sono prevedibili, trattandosi di un soggetto fantastico, ma in questo caso lo spettatore è davvero costretto a scendere a parecchi compromessi pur di divertirsi con le disavventure di Marty.
La morale che viene propagandata è quella che chiunque, se crede in sé stesso e si impegna, può trasformarsi da nullità a mito contando sulle sue forze, e naturalmente emergerà con le proprie caratteristiche poiché essere sé stessi è l’obiettivo principale nella vita. Purtroppo qualsiasi film ambientato nel mondo dello sport ripete questo mantra, coltivando spesso speranze impossibili nell’animo di ragazzi poco dotati. Paradossalmente è un messaggio che può condurre all’abbandono sportivo, in quanto un volenteroso che rimedia delusioni tocca con mano la sua incapacità e se ha della ‘voglia di vincere’ la va a sfogare lontano dalla palestra. Anche il diritto ad essere sé stessi, è sacrosanto fino a quando le proprie caratteristiche agevolano l’attività tanto desiderata, altrimenti si traduce in un problema da risolvere, in un ostacolo o in una differenza da esaltare in un clima che mette l’inclusività davanti alla performance.
Queste riflessioni sono tipiche di qualsiasi film sportivo medio, e possono risultare ancora più indigeste se abbinate con il tema della licantropia. Il diventare un uomo lupo dà l’accesso a un super potere che si sostituisce alle mediocri capacità del protagonista. Marty ne è consapevole e vorrebbe vincere come un qualsiasi essere umano, però la licantropia è parte della sua persona. L’outing del ragazzo comunque è benedetto dalla famiglia, ed accettato dalla gente del piccolo paese della provincia americana. Nessuno discrimina il ragazzo per la sua diversità, anzi, tutti invidiano la sua condizione. E’ una scelta narrativa quasi obbligata in un contesto di commediola disimpegnata, anche se priva la vicenda del poter suscitare tante domande interessanti. Mentre un disabile viene accettato perché in fondo manca di vere doti tali da insidiare la supremazia delle persone ‘normali’, un superdotato potrebbe mettere davvero in crisi la comunità. Se la licantropia è metafora dell’omosessualità, la sceneggiatura si guarda bene dal suggerirlo, e anzi insiste sul ruolo di rubacuori di Marty. Il licantropo finisce per venire acclamato in tutto il suo glorioso pelo, quindi abbiamo un supereroe senza superproblemi. E’ una combinazione che già dava fastidio ai tempi di Superman, tanto che gli inventori del fumetto hanno dovuto inserire la micidiale kryptonite pur di dare qualche fragilità al personaggio e renderlo di nuovo interessante. La morale della favola con i deboli che alla fine diventano campioni grazie alla forza di volontà non solo è stucchevole poiché ipocrita: in questo caso è anche resa inefficace dal fatto che a fare la differenza c’è un superpotere ereditato per genetica e non costruito in nome della volontà di emergere sugli altri. Marty vince perché la sua condizione lo rende più forte e veloce, e non ha scelto di essere un licantropo, né ha sofferto per impedire la trasformazione. In questo senso La voglia di vincere funziona poco come film sul valore formativo dello sport, e va peggio anche come omaggio al vecchio horror, perché Marty è accettato da famiglia e paesani. Le imprese del peloso uomo lupo funzionano altrettanto male come commedia adolescenziale, perché le gag più o meno sono sempre le stesse... Le prime sequenze relative alla scoperta della mutazione e ambientate nel bagno a casa del protagonista sono simpatiche, frizzanti e giustamente demenziali. I primi venti minuti illudono di avere una commedia diversa, con qualche momento fantasy e horror, qualche garbata risata e un ottimo ritmo. Con il procedere della vicenda tuttavia gli equivoci diventano ripetitivi, ormai lo spettatore sa a memoria cosa accade al ragazzo. Dopo tre quarti d’ora dai titoli di testa più o meno le trovate comiche hanno espresso tutto il loro potenziale, e diventano noiose nella seconda metà della storia che corre verso un epilogo prevedibile, tra siparietti musicali e battute sempre più mosce. Tra l’altro ci sono situazioni sfruttate nella trilogia di Ritorno al futuro, col nostro piccolo eroe che dà una lezione ai bulli.
Non è colpa di Fox, attore decoroso miracolato dalla trilogia di Robert Zemeckis, semmai è conseguenza di averlo voluto per il suo aspetto esteriore e avergli messo in mano un copione leggerino e un po’ sciocco. Fox è un ultra venticinquenne che deve interpretare un ragazzo in età puberale, da college; non basta essere bassi e magri per dimostrare dieci anni di meno. Nei primi piani si nota tutta la differenza tra lui e un vero diciassettenne. Per fortuna recita parecchio minutaggio coperto dal pesante trucco che gli aggiunge qualche chilo di pelo e maschera l’età reale.
La voglia di vincere è una pellicola che poteva sorprendere ed entusiasmare gli ingenui adolescenti degli anni Ottanta. Li intratteneva con garbo, con qualche effetto speciale piazzato bene, li faceva ridere con un umorismo immediato e semplice. Allora andava benissimo, e anche il cartone animato che ne derivò piaceva ai più piccoli. Rivisto oggi è un film che appare invecchiato tanto, e per molti aspetti, è invecchiato dolorosamente male. Con Fox colpito precocemente dal Parkinson, la carriera irrimediabilmente spezzata dalla malattia, parlare con obiettivo cinismo de La voglia di vincere sembra quasi un insulto all’attore, molti fan diventano quasi aggressivi davanti a pareri poco lusinghieri.
Tra la difesa ad oltranza di un film mediocre, e ammettere che certe opere hanno un senso se contestualizzate, la nostalgia canaglia e il gusto del revival possono fare la differenza.
Cuccussette vi ringrazia della lettura.
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