IL SEGNO DEL COMANDO

Alcuni sceneggiati dei primissimi anni ’70, come Il segno del comando o A come Andromeda, Sandokan o L’amaro caso della Baronessa di Carini hanno lasciato un segno indelebile in quanti erano giovani o adulti in quel periodo, influenzando l’immaginario di una generazione. Nella maggioranza dei casi gli spettatori ricordano con affetto incondizionato quelle fiction ingenue, a volte pretenziose, ma anche misteriose e suggestive, capaci di incollare allo schermo milioni di italiani.

Quanti oggi si accostano alla visione de Il segno del comando sono costretti a confrontarsi con canoni estetici diversi da quelli attuali, con un linguaggio lontano da quello cinematografico, con scelte narrative condizionate dai mezzi tecnici limitati. I più giovani sono costretti a fare un salto nel tempo per calarsi nelle sensazioni degli spettatori del passato. Quanti invece hanno assistito alla prima messa in onda rivivono con sincera partecipazione le emozioni del passato, purché evitino accuratamente ogni confronto con quanto propone la televisione contemporanea (anche perché spesso le orribili fiction di oggi puntano a essere rassicuranti e omologate). L’amarcord può rivelarsi una delusione, e non si tratta di eventuali problemi dovuti ad un restauro audiovisivo palesemente sbagliato oppure discutibile, oppure realizzato in fretta e furia pur di vendere i dvd ai nostalgici sull’onda del revival. Il segno del comando è stato riproposto in un’edizione curata sotto tutti i punti di vista; l’ostacolo più grande è costituito dall’impossibilità di ricreare le modalità di fruizione della fiction d’altri tempi. Le cinque puntate della durata di circa un’ora erano trasmesse una sera alla settimana, in prima serata sull’unica rete, ed ogni episodio era preceduto da un breve riassunto dei capitoli precedenti. Non erano diffusi i videoregistratori e calati i titoli di coda, le disavventure del professor Lancelot Edward Forster entravano a far parte delle conversazioni tra amici, venivano rivissute nella memoria collettiva, e venivano mitizzate. Oggi la tecnologia può mettere a disposizione un grande numero di titoli, disponibili a qualsiasi ora, in DVD oppure grazie ai canali di streaming… I cult di un tempo si sono trasformati in uno spettacolo da poter guardare con occhio distratto, gradevole quanto dimenticabile. Fanno eccezione alcuni serial apprezzati da una parte di teenager e giovani adulti: le discussioni sono approdate sul web in siti dedicati alle serie più amate, esistono associazioni che organizzano raduni a tema, sfilate di cosplayer, vengono scritte fan fiction e realizzate opere d’arte ispirate ai beniamini, e la gadgetteria abbonda. Per gli altri spettatori il modo di fruizione delle fiction si è trasformato tanto da rendere difficili eventuali paragoni col passato. Serial e miniserie sono divenute prodotti di consumo, un mordi e fuggi mediatico che intrattiene e lascia ricordi sbiaditi. Si possono restaurare le immagini e riesumare puntate perdute dagli archivi, tuttavia è difficile riproporre le emozioni che circondavano gli sceneggiati tra la fine degli anni ’60 e i primi anni ’80. L’approccio con Il segno del comando può quindi risultare ostico se si distacca l’opera dalle condizioni sociali e culturali dell’Italia nei primi anni Settanta.

 

La RAI ebbe l’ardire di avvicinare al grosso pubblico la fantascienza, il mistery, il fantastico. I soggetti evitavano vicende complesse destinate a cultori del genere, anche perché i mezzi erano limitati ed il pubblico da raggiungere vasto. Di solito c’ era una sola idea fantastica, affiancata da sottotrame che strizzavano l’occhio al thriller, al giallo, al poliziesco. Alle spalle delle scelte narrative c’era la convinzione che per lo spettatore medio l’idea della fantascienza sarebbe stata inaccettabile senza un richiamo più forte e solido, quello di un genere ben conosciuto e rassicurante.
Ne è la prova l’incredibile entusiasmo che scatenò lo sceneggiato “Il segno del comando”, realizzato da Daniele D’Anza nel 1971.
La vicenda è una storia di spionaggio condita da elementi mistery di forte impatto emotivo, ambientata in una Roma notturna ed insolita, difficile da dimenticare. Ugo Pagliai, bravissimo attore di teatro, impersona Edward Lancelot Foster, uno studioso di Byron. E’ un professore e lascia l’Università per venire a Roma a tenere una conferenza sul celebre poeta inglese. Fin dal suo arrivo si imbatte in alcuni fatti apparentemente inspiegabili. Incontra Lucia, una donna misteriosa interpretata da una strepitosa Carla Gravina. Lucia pare essere lo spettro di una modella che lavorò per un certo Tagliaferri, pittore vissuto nel secolo scorso. Questi avrebbe dipinto una piazza inesistente, descritta però in uno sconosciuto brano del diario di Byron. Il poeta annotò: «21 aprile 1817, notte, ore 11. Esperienza indimenticabile, luogo meraviglioso, piazza con rudere di tempio romano, chiesa rinascimentale, fontana con delfini, messaggero di pietra, musica celestiale, tenebrose presenze». La donna attira il protagonista nella Taverna dell’Angelo, un locale d’epoca dove il protagonista viene narcotizzato o gli accade qualcosa del genere, visto che si ritrova in automobile solo e senza più i documenti…

 

Il segno del comando rappresenta l’apice della produzione italiana degli sceneggiati del mistero, e fissa alcune linee per il genere. Ci sono i temi della reincarnazione ciclica (Brandani/Tagliaferri/Forster, Vitali/Byron/Powell, Cagliostro/Oberon/Anchisi),le sedute medianiche, i fantasmi e le profezie,c’è un epilogo destinato a sciogliere gran parte dei dubbi, ci sono le interpretazioni di volti noti delle scene italiane. Questi elementi diverranno stereotipi più volte riproposti in produzioni successive, come Il fauno di marmo, Ho incontrato un’ombra, Ritratto di donna velata, La dama dei veleni…
Il segno del comando nasce dalla penna dello scrittore Giuseppe D’Agata (firmò anche il soggetto de Il medico della mutua); il romanzo è di piacevole lettura e la presenza di un valido testo si rivela fondamentale per la sceneggiatura creata principalmente da Giuseppe D’Agata, e per alcune parti da Flaminio Bollini, Dante Guardamagna e Lucio Mandarà. Essa è solida, e ben sostiene una vicenda dai ritmi narrativi flemmatici rispetto a quanto siamo abituati oggi. La lentezza è conseguenza diretta dei mezzi a disposizione degli autori degli sceneggiati del periodo. Dovevano effettuare le riprese in semplici teatri, con spazi scenici ristretti e movimenti di macchina piuttosto statici. Anche Daniele D’Anza si trovò a dover fare i conti con i limiti del mezzo espressivo, ancora impossibilitato a riprodurre la varietà di inquadrature e il montaggio elaborato tipico del cinema. Consapevole di non poter rivaleggiare con quanto offriva da decenni il grande schermo, il regista richiamò l’attenzione dello spettatore giocando su altri due elementi, l’atmosfera cupa indotta dai lunghi piani sequenza, e il fascino della Roma più insolita.

 

La lentezza grava sulle sequenze d’azione, rendendole assai datate, mentre è apprezzabile nelle parti riflessive. Oltre a mettere in risalto la bella recitazione degli attori, crea un’atmosfera opprimente, in un crescendo continuo. Lo spettatore si immerge in una Roma notturna lontana dai depliant delle gite turistiche, e dalla movida. E’ una Città Eterna segnata dai secoli della sua storia, un altrove dove il passato convive con la modernità e i fantasmi possono essere presenze familiari, un po’ come la Molly Malone che veglia sulle vie di Dublino, oppure i bonari spettri visti in Fantasmi a Roma. Le lunghe passeggiate del protagonista nei vicoli e nelle stanze dei palazzi patrizi disabitati accrescono il senso di estraniamento, amplificato dai dialoghi e dalla colonna sonora. Il tema Cento campane, classico del repertorio romanesco composto nel 1952 dall’attore in vernacolo e compositore Fiorenzo Fiorentini e poi incluso nel repertorio di Lando Fiorini, accompagna degnamente le peregrinazioni di Foster.
La recitazione è ancora di stampo teatrale, come avveniva negli sceneggiati del decennio precedente; il tono delle battute è sempre impostato su un registro ‘alto’, lontano dal linguaggio quotidiano. La scelta potrebbe essere fastidiosa se ci fossero pause ‘leggere’ introdotte pur di ricapitolare gli eventi agli spettatori distratti. Invece il lessico e il modo di esprimersi sono lontani da quelli consueti perché straordinario è il percorso affrontato dal protagonista e gli spettatori si trovano immersi nel vero lato oscuro della Capitale. Per riassumere i fatti, ci sono brevi riepiloghi anteposti ad ogni puntata; scorsi i titoli di testa, i copioni tornano ai toni impegnati di una valida piece teatrale. E non potrebbe essere diversamente, poiché il montaggio è minimale e il fascino nasce proprio da quelle battute, recitate da attori più bravi che belli.

Ugo Pagliai oggi appare dimesso, eppure incantava il pubblico femminile e di certo sapeva stare su un palcoscenico, aiutato da una magnifica voce. Né la Gravina era pronta a dispensare facili grazie: erano altri tempi, il montatore non si sostituiva alle abilità interpretative, non c’era grafica digitale per far sembrare più atletici gli attori e le sceneggiature dovevano fare a meno degli effetti speciali, all’epoca costosi e dagli esiti spesso deludenti. Il Segno del Comando ha poche sequenze alterate da effetti ottici, e il sobrio bianco e nero minimizza eventuali approssimazioni nel trucco e nei costumi. Le location utilizzate sono invece scorci di autentici palazzi, piazze e vie di Roma. Il successo dello sceneggiato ha incoraggiato una sorta di turismo alternativo, diretto ad esplorare proprio quei luoghi carichi di fascino. Per quanti volessero ripercorrere le gesta di Foster, l’appassionato Mades ha realizzato una sorta di guida, visionabile a questa pagina.
La stagione degli sceneggiati del mistero fu relativamente breve, nonostante i molti titoli prodotti in seguito al successo de Il segno del comando e de L’amaro caso della baronessa di Carini. Il resto è ormai storia: con l’avvento di Guerre Stellari il pubblico non si accontentò più di immaginare gli eventi sovrannaturali, o di assistere a sequenze vistosamente artificiose. La parola d’ordine divenne ‘effetti speciali’, e nella guerra dell’ audience significò la morte di qualsiasi tentativo di produzione a basso costo, produzioni televisive incluse. Per questa ragione, fino alla diffusione della grafica digitale, il fantastico abbandonò i teleschermi. Oggi la situazione è cambiata, grazie alla diffusione della grafica digitale: semmai c’è da domandarsi se sia proprio obbligatorio ricorrere al dispiego di tecnologia per suscitare il senso di meraviglia. Il remake de Il segno del comando, realizzato nel 1992 da Giulio Questi, dimostrerebbe come le migliorie tecniche e i movimenti di macchina più sofisticati, da soli, male compensano la povertà di idee. La versione moderna poco aggiunge a quanto era stato già narrato, e nonostante sia stata interpretata da validi attori, non regge il confronto. E’ una fiction godibile come ce ne sono tante altre, penalizzata da un pesante taglio di metraggio: una vicenda creata in due puntate per 212 minuti fatica ad essere contenuta in soli 90 minuti. Non basta certo la cura formale e qualche momento horror per trasformare una pausa di intrattenimento in un cult. Tutte le versioni meritano comunque una visione, se non altro per riflettere su come si è trasformata la TV.

 

Cuccussette vi ringrazia della lettura.

La recensione è stata edita da FANTASTICINEMA https://www.fantasticinema.com/il-segno-del-comando/

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