INDIANA JONES E IL REGNO DEL TESCHIO DI CRISTALLO

In piena Guerra Fredda un commando sovietico si introduce nell’Area 51, la base militare dove gli Stati Uniti segretamente conservano e studiano i reperti più disparati. I Russi cercano una cassa misteriosa contenente una mummia, e, per individuarla tra le migliaia di imballi accatastati negli enormi magazzini, hanno catturato e portato con loro Indiana Jones.

L’archeologo riesce naturalmente scappare (una fuga come al solito rocambolesca, durante la quale trova il modo di sopravvivere niente meno che a un test nucleare), ma finisce preso in custodia dalle autorità militari e sospettato di essere complice del KGB.

Costretto ad abbandonare la sua cattedra all’Università, il professore è sul punto di lasciare il Paese, quando viene raggiunto da Mutt, un giovane motociclista che gli porta notizie preoccupanti riguardo la sua vecchia fiamma Marion (madre del ragazzo) e il suo collega Oxley. Quest’ultimo, da sempre ossessionato dai miti dell’El Dorado e dei teschi di cristallo, è scomparso durante uno dei suoi viaggi di ricerca.

Il nostro eroe si mette allora sulle tracce dello studioso scomparso…

A VOLTE RITORNANO

Nato all’inizio degli anni Ottanta, Indiana Jones è un personaggio vintage che eredita e rielabora in modo originale stereotipi del cinema d’avventura del passato, attualizzandoli. Nel quarto capitolo della saga che lo vede protagonista, ritornano molti degli elementi tipici dei precedenti tre, meno purtroppo quello della sorpresa. Lo spettatore ritrova i personaggi amati e le situazioni divertenti, però ormai sa cosa attendersi: la vicenda scorre lineare, sorretta da una sceneggiatura collaudata, ma con personaggi e colpi di scena prevedibili.

Il mondo di Indiana Jones è volutamente fumettistico e non basta cambiare la nazionalità o il sesso degli avversari per renderli originali e interessanti. La sola risaltare è la bellissima Cate Blanchett, memorabile nei panni del Colonnello Irina Spalko, mentre tutti gli altri comprimari restano in ombra, poco caratterizzati e destinati a un prevedibile dimenticatoio.

Parecchie sequenze hanno il sapore del dejà vu, seppure piacevole, come gli inseguimenti e gli scontri, animati da abili stuntman, valorizzati da un buon montaggio, arricchiti dalla grafica digitale che crea fiamme ed esplosioni degne di un videogioco, ma non divertono quanto quelli visti nei capitoli precedenti, nonostante il Steven Spielberg, alla regia, ne enfatizzi gli elementi umoristici.

Il montaggio inoltre risente di una certa discontinuità: il ritmo si fa troppo rapido nelle scene di azione e rallenta troppo durante i dialoghi. Per fortuna, nel primo tempo, le scene più orride mantengono almeno una certa suspense; la tensione viene creata ricorrendo al linguaggio del vecchio cinema horror, fatto di sequenze buie, cigolii, primi piani su scheletri e ragnatele. Nel secondo tempo invece la regia ricorre alla grafica digitale, che in diverse occasioni sovrasta la storia e va a guastare il pathos e il gusto retrò dell’avventura.

I buoni propositi di fedeltà allo stile della saga, promessi da Spielberg, vengono meno e lo stile della narrazione risulta alterato pur di compiacere nuovi fan. Questo quarto capitolo delle avventure di Indiana Jones appare insomma poco armonico. Spielberg si affida a stereotipi collaudati ma ormai inflazionati, oppure snatura il suo eroe e lo spirito delle sue imprese. In qualche caso, finisce per autocelebrarsi: vedasi le trovate per stabilire una continuità col passato, come l’Arca dell’Alleanza che fa capolino da una cassa sfondata nel deposito dell’Area 51, oppure la foto di papà Jones/Sean Connery sulla scrivania; e ci sono poi richiami irritanti, come gli alieni che ricordano quelli visti in I.A. o in Incontri ravvicinati del terzo tipo.

Può deludere anche la scelta di aver ulteriormente smorzato i legami con la Storia più autentica, preferendo la vena soprannaturale e il gusto new age. Le avventure di Indy sembrano spacconate di un vecchio professore universitario che esagera i suoi trascorsi di tombarolo. Le imprese improbabili si mescolano a fatti storici più o meno risaputi, in un alternarsi di verità e finzione. Tuttavia, senza pretendere di insegnare la Storia, le pellicole precedenti solleticano la curiosità dello spettatore e sono sempre abbastanza curate nella ricostruzione di ambienti, costumi, abitudini. È vero che molti ufficiali nazisti erano collezionisti d’arte, e alcuni erano interessati all’occultismo. Ed è altrettanto vero che molti conquistadoeres hanno inseguito il mito dell’El Dorado, rimettendoci la vita o lasciando testimonianze fantasiose, e che in Russia c’è stato un certo interesse per il paranormale ai tempi della Guerra Fredda; ma in Indiana Jones e il regno del teschio di cristallo il regista sminuisce l’interesse per questi aspetti e lo stesso teschio di cristallo ha poco a spartire con gli ‘autentici’ manufatti conservati nei musei. Fin dalla prima inquadratura il reperto ricorda il mostro di Alien più che un cranio umano magari modificato secondo i canoni estetici delle antiche civiltà del Centro America.

I contatti tra visitatori extraterrestri e civiltà precolombiane, gli sbarchi alieni a Nazca, l’incidente misterioso nel deserto, l’Area 51 e i suoi segreti, le mummie che si animano e utilizzano colpi di capoeira piuttosto che l’arte marziale indigena, le profezie Maya, l’El Dorado, i poteri paranormali… tutti espedienti di facile presa sul pubblico.

Indiana Jones e il regno del teschio di cristallo è un film divertente, leggero e piacevole, ma a patto di non pretendere innovazioni, di accettare le beghe familiari dell’eroe, e di voler credere, proprio come l’agente Mulder di X-Files.

VENTI ANNI DOPO

L’archeologo più famoso del grande schermo è tornato in azione in un’avventura che nelle intenzioni della produzione doveva trasmettere tutto il fascino del migliore vintage. Come nei tre fortunati capitoli precedenti, ritroviamo analoghe avventure in luoghi esotici, stessa blanda sensualità, effetti speciali elargiti senza parsimonia, inseguimenti rocamboleschi, un pizzico di ironia.

Ma è proprio Indy l’uomo sovrappeso che sfida l’ignoto armato di frusta e machete? Riproporre il personaggio mantenendone quelle caratteristiche che ce lo hanno fatto amare si è rivelata un’impresa sovrumana, anche per un maestro come Steven Spielberg. Il regista si è ritrovato a dover fare i conti con il tempo, che è passato inesorabile anche per Harrison Ford.

Ford è un’icona, perciò era impensabile sostituirlo con un altro interpreta. Se nel prequel televisivo Le avventure del giovane Indiana Jones l’adolescente Indy è fedele alle caratterizzazione del personaggio adulto, nel quarto film troviamo un personaggio maturo ma costretto dal copione a mantenere il ruolo dello scanzonato cacciatore di tesori che era rimasto nel cuore di grandi e piccini… Indy riflette sull’avanzare dell’età per un breve attimo, poi si getta a capofitto nell’avventura come se dall’ultimo ciak fosse passato un istante, anziché 20 anni. È capitato anche ai protagonisti di Star Trek di ritrovarsi sul ponte dell’Enterprise alle soglie della terza età; ma, a differenza degli intrepidi esploratori galattici, il ruolo di Indiana Jones è basato su una forte fisicità: inseguimenti, risse, duelli, arrampicate… sequenze d’azione poco adatte a un sessantenne, rugoso e per giunta appesantito.

Spielberg ha resuscitato Indiana Jones, lo ha riportato in scena cercando di accattivarsi le simpatie di spettatori vecchi e nuovi, caratterizzandolo in modo spesso contraddittorio e perciò poco convincente, prima cercando di rendere riconoscibile in un uomo invecchiato l’eroe di un tempo, poi di trasformandolo in un padre di famiglia alle prese con litigi domestici e problemi di coppia.

I veri fan ricordano un eroe esagerato, lontano dalla banalità della vita quotidiana; di fatto Indy omaggiava il cinema di genere degli anni Cinquanta e l’onesta evasione che offriva a spettatori affamati di sense of wonder. Non basta cacciare Harrison Ford in un giubbotto di pelle, calcargli in testa un fedora e armarlo di frusta, per ottenere il miracolo: l’uomo che cerca il teschio alieno sembra lo zombie dell’avventuriero che fu.

Il passaggio del testimone tra Indiana Jones e il figlio convince ancora di meno, perché Indy è un personaggio che celebra la Settima Arte, mentre Mutt Williams (interpretato da Shia LaBeouf) scimmiotta Marlon Brando e manca del carisma necessario per divenire a sua volta un’icona pop. Discutibile in questo senso la scelta di introdurre la parentela tra i due personaggi: dopo il ricongiungimento, la pellicola naviga o piuttosto naufraga verso toni da family movie, la prevedibilità degli eventi soppianta lo sguardo tenero e disincantato del cinema che voleva e stupire.

L’epilogo, con Indy che sposa Marion in una chiesetta davanti a codazzo di professori ha il sapore di una riunione universitaria di fine anno o del pensionamento di un ordinario, con tanto di colleghi annoiati che applaudono e non vedono l’ora di gettarsi sul buffet. Per molti spettatori la conclusione ‘vera’ della saga rimane quella con Indy che esce da Petra e cavalca verso il tramonto in compagnia del padre. A proposito: Sean Connery ha rinunciato ad apparire, quindi nel corso del film il protagonista rivela che il suo personaggio è morto anni prima, e che ovunque si trovi se la stia ridendo. Nulla di più vero.

 

 

Cuccussette vi ringrazia della lettura.

Questa recensione è stata edita da TERRE DI CONFINE https://www.terrediconfine.eu/indiana-jones-e-il-regno-del-teschio-di-cristallo/

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