EXCALIBUR

 

Britannia, Alto Medioevo: il cavaliere Uther Pendragon intende sottomettere i vicini feudi con l’aiuto dello stregone Merlino e di Excalibur, la spada magica fonte di potere e simbolo stesso della sovranità.

Durante la guerra contro il Duca di Cornovaglia, Uther resta ammaliato dalla bellezza di Igrayne, la moglie del rivale, e pur di possederla non esita a ricorre agli incantesimi di Merlino. Il frutto della notte d’amore ottenuta con l’inganno è Artù, un bambino che lo stesso Merlino reclama per sé quale compenso per i propri servigi.

Trascorrono molti anni…

Uther è morto ed Excalibur è infissa magicamente in una roccia in attesa di un nuovo re capace di brandirla. Molti cavalieri si sfidano per guadagnare il privilegio di provare a estrarla, ma, tra tanti nobili, a farcela è un semplice scudiero: si tratta proprio di Artù, fino a quel momento ignaro della propria discendenza reale.

Riconosciuto come legittimo sovrano e guidato dai consigli del saggio quanto ambiguo Merlino, Artù riesce nell’impresa di unificare la Britannia; fa di Camelot la capitale del proprio regno, sposa Ginevra e riunisce attorno a sé i più coraggiosi cavalieri, tra cui Lancillotto.

Il reame prospera fino al giorno in cui Ginevra viene accusata di infedeltà…

La Penna e la Spada

Il mito di Re Artù e della Tavola Rotonda è ancora tanto radicato nell’immaginario popolare da suggestionare anche l’uomo moderno più disincantato; non è quindi un caso che il cinema abbia approfittato della famosa saga, riproponendola in varie versioni, per la verità spesso dimenticabili.

Nel 1981 John Boorman ha prodotto, diretto e co-sceneggiato una delle più celebri e riuscite fra queste trasposizioni: Excalibur.

Il regista si è ispirato naturalmente a testi letterari, in particolare alle opere di Chrétien de Troyes, autore de Le Roman de Perceval ou le conte du Graal, risalente alla fine del XII secolo, e di Thomas Malory, poeta del Rinascimento inglese e autore de Le Morte d’Arthur.

L’Artù di Boorman è in effetti un eroe tutto letterario, nato dalla mente e dal cuore dei poeti; trascende la Storia e coinvolge l’immaginazione e il sentimento.

Tutti i personaggi della saga vivono in una dimensione leggendaria, imbevuta di misticismo e magia. È un Medioevo pagano e ancestrale esistito forse solamente nell’animo degli uomini capaci di sognare.

La pellicola ricorre al linguaggio della poesia ed evita qualsiasi pretesa di verosimiglianza o improbabili corrispondenze storiche. Ciò che conta è la forza evocativa di una leggenda immortale.

Se si volesse rappresentare un Artù “verosimile”, si dovrebbe di fatto immaginare un uomo in rozze brache, armato di una spada priva di fronzoli e intaccata dai colpi nemici, protetto da un robusto scudo di legno, da una maglia di ferro rinforzata con parti in cuoio bollito, da un elmo semplice… Piuttosto che inscenare un Medioevo approssimativo, o poco appariscente per rigore filologico, il regista lascia la Storia agli esperti e pone in primo piano le atmosfere fantasy.

Excalibur cerca, in sostanza, di riproporre la suggestione evocata dalla poesia epica cavalleresca, limitando profondamente la veridicità della rappresentazione storica degli eventi. I cavalieri si presentano sempre coperti da armature rinascimentali, sia quando affrontano violente battaglie sia quando banchettano a corte o godono della loro intimità, così come spesso indossano elmi cesellati a forma di muso d’animale, degni di un torneo cinquecentesco, e brandiscono spade a una mano e mezza, con uno scarto temporale di vari secoli rispetto all’epoca presunta in cui si dovrebbero svolgere le vicende. Si può inoltre notare come armi e armature appaiono nuove in ogni scena, quasi fossero appena uscite dalla fucina del fabbro, e come la foggia degli abiti (tra cui risalta il particolare copricapo di Merlino) sia certamente poco storica.

I Santi Vecchi

La voce fuori campo che introduce gli eventi ci immerge subito in un’atmosfera fiabesca e ci prepara ad accettare prodigi d’ogni genere. La magia è una forza potente e pericolosa, che modifica il corso degli eventi e rischia di spezzare il delicato equilibrio dell’universo: lo stregone interferisce con il destino, altera la realtà e deve usare il proprio potere con parsimonia e saggezza, per non rimanerne consumato.

Se la magia è un percorso di vita riservato a pochi e solitari eletti, il misticismo è invece parte integrante del sentire di tutta la gente di Camelot: i prodigi avvengono, senza che nessuno ne dubiti, sono eventi eccezionali riservati a personaggi straordinari. Lo stesso Artù nasce grazie a un inganno magico ed è destinato a perire per mano di un figlio generato in seguito a un analogo sortilegio; il re verrà infine trasportato su una nave incantata verso Occidente, là dove gli antichi volevano fosse Tir Na Nog, il Giardino delle Esperidi e lo stesso Paradiso Terrestre.

Anche la spada Excalibur, che sorge dall’acqua sorretta dalla mano della Dama del Lago e nel lago stesso torna al tramontare dell’età degli Eroi, non è solo un’arma straordinaria ma il simbolo dell’unione tra l’umano e il sovrannaturale.

Così come la magia, i personaggi appartengono all’altrove letterario: è la dimensione sognante della poesia cavalleresca ed epica, che non pretende verosimiglianza ma esige il coinvolgimento emotivo più schietto.

Coerentemente con questa impostazione, Boorman si guardò bene dal tentare di storicizzare l’ambiente o di modernizzare i caratteri, perché nulla di tutto ciò avrebbe mai potuto conciliare con vicende che parlano di misteri, incantesimi, manufatti magici, sacre cerche e codici cavallereschi spinti all’estremo.

La saga di re Artù mantiene il suo fascino anche perché, pur attraverso la finzione, riesce a parlarci di un mondo lontano, che non esiste più, nel quale il politeismo e la superstizione spesso condizionavano la vita quotidiana, così come fece in seguito la fede nel Cristianesimo.

I personaggi, interpretati dignitosamente da attori teatrali inglesi, sono resi memorabili nel contesto di transizione tra antichi e nuovi culti: consapevoli che il loro tempo sta finendo, risaltano in una profonda tragicità. In particolare, Merlino (l’impareggiabile Nicol Williamson) vive in prima persona il tramonto dell’era pagana, e neppure il suo sapere arcano e la sua saggezza possono impedire al mondo di cambiare e alla magia di sbiadire in un malinconico ricordo.

Nelle figure dei maggiori condottieri è evidente il problematico rapporto con il potere: Uther (Gabriel Byrne) è un uomo violento, coraggioso in guerra ma intemperante davanti alle passioni; Artù (Nigel Terry) è un predestinato privato di libera scelta, costretto a sacrificarsi per obbedire al codice cavalleresco, e condannato, nel momento in cui trasgredisce al fato deciso per lui, a trascinare sé stesso e il regno nella decadenza.

Anche gli altri protagonisti sono avvolti da un alone di fatalità e dramma: Mordred (Robert Addie) è stato concepito al solo scopo di distruggere Artù, senza diritto a nutrire altri sentimenti che non siano l’odio morboso impartitogli da Morgana (Helen Mirren, premiata con l’Oscar per l’interpretazione di Elisabetta II in The Queen – La Regina, 2006), strega a sua volta corrotta dall’abuso della magia; Lancillotto (Nicholas Clay), uomo leale ma travolto dagli eventi, vive bramando la redenzione; e, con lui, per leggerezza o per mal sopita passione, Ginevra (Cherie Lunghi) causa la rovina di Camelot.

Tutti i principali protagonisti, giusti o malvagi, sono sottomessi al destino. Il coro del “Fortuna Imperatrix Mundi”, che apre e conclude i Carmina Burana di Carl Orff, sottolinea i momenti più epici, e ben si accorda con la sorte mutevole che domina gli eroi.

Decadentismo Epico

Amalgamare e sintetizzare leggende spesso contrastanti tra loro è stato indubbiamente un compito gravoso. Boorman ha ritenuto indispensabile, per comunicare il senso epico della saga, definire i personaggi con pochi tratti significativi, e concentrarsi sulle vicende ruotanti attorno alla magica spada che dà il titolo al film.

Stilisticamente, la narrazione segue una parabola per molti versi analoga a quella proposta nell’utopico Zardoz, diretto dal regista nel 1974. Camelot può accostarsi al Vortex, il villaggio ideale del futuro, popolato da esseri umani cui la scienza ha garantito un’oziosa e inappagante immortalità; e la Cerca del Graal, destinata a porre fine al tempo degli Eroi, è paragonabile alla quest degli annoiati immortali che riporterà tra loro vecchiaia e morte.

Anche in Excalibur sono presenti esplicite trasgressioni alle leggi della natura, e cicli destinati a chiudersi così come si erano aperti.

Una certa lentezza enfatizza i toni epici pur senza annoiare lo spettatore, a patto che questi apprezzi il fantasy, sia preparato ad assistere a uno spettacolo impegnativo e non rimpianga le storie d’amore in costume: il rapporto tra Ginevra e Lancillotto è infatti solo un momento fugace, finalizzato a esprimere la simbiosi tra la spada, il re e la terra, che culmina nella scena in cui Artù conficca nel terreno Excalibur, tra i due amanti, ferendo la terra e perdendo il contatto con essa.

Il montaggio sapiente dà vita a scontri memorabili sebbene inverosimili, sempre sottolineati da musica classica.

Il principale difetto della pellicola riguarda invece la scarsa fluidità di alcuni passaggi dove la narrazione, privilegiando i momenti più importanti, appare talvolta discontinua e macchinosa. La lunga durata del periodo rappresentato e la molteplicità dei personaggi possono confondere gli spettatori, specie coloro che non siano ottimi conoscitori del ciclo arturiano. Né il dialogo, maestoso quanto essenziale, provvede mai a riepilogare gli avvenimenti.

La prima parte del film è piuttosto tradizionale, almeno fino alla scoperta del tradimento di Ginevra. La seconda, meglio riuscita, narra invece della decadenza del regno e della ricerca del Graal: qui Boorman si distacca dagli stereotipi del cinema di genere e calca la mano su toni visionari. Affronta temi complessi, come il rapporto tra le responsabilità del governare e le aspirazioni individuali, il prezzo della conoscenza e l’uso ragionevole del sapere.

L’inesorabile declino del sire Artù e della sua terra sono descritti con immagini drammatiche, mai banali. Si esamina la sacralità del ruolo del sovrano, una funzione che dona grande potere ma esige obblighi gravosi.

L’avventura si fa esperienza mistica: prima che vagare in cerca di nemici e prodigiosi tesori, è un viaggiare dell’uomo nell’uomo. Per questo occorre calarsi nello sguardo estatico dei Cavalieri e dimenticare quanto di solito ci propongono videogiochi e pellicole d’avventura. Visioni sovrannaturali e battaglie si alternano, fino al finale, solenne e malinconico, crepuscolare come e più di quanto non voglia la tradizione.

Excalibur è un raro esempio di kolossal che non sacrifica gli intenti artistici alle esigenze dello spettacolo. Il regista sceglie di accontentare il sense of wonder, esagerando ogni dettaglio eroico. La narrazione ha un gusto molto barocco, a tratti rasentando il kitsch, dando a volte l’impressione che le inquadrature vogliano rivaleggiare con celebri dipinti rinascimentali.

Questa pellicola può affascinare anche per il suo percorso figurativo, che gratifica l’occhio citando, ad esempio, l’arte preraffaellita, Maxfield Parrish, i mosaici bizantini. La musica di Richard Wagner è immortale, interessante è la riscoperta di Orff, mentre le divagazioni celtiche sono di Trevor Jones conoscitore della musica antica.

Excalibur invita a riscoprire le fonti più autentiche della leggenda, senza accontentarsi delle versioni proposte da Hollywood o da riduzioni grossolane.

È un viaggio nella poesia e nel mito, travestito da fantasy anni Ottanta. Un Classico, ancora oggi imperdibile.

 

Cuccussette vi ringrazia della lettura.

Questa recensione è stata edita da TERRE DI CONFINE  https://www.terrediconfine.eu/excalibur/

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