ILSETTIMO PAPIRO
Wilbur Smith è stato uno dei più prolifici e fortunati scrittori di romanzi d’avventura di ambientazione africana, veri bestseller che hanno conquistato lettori in tutto il mondo. Una delle sue creature più riuscite è lo schiavo Taita, protagonista di una serie di romanzi ambientati in un Antico Egitto misterioso, dal sapore fantasy: Il Dio del fiume, Il settimo papiro, Figli del Nilo, Alle fonti del Nilo, L’ultimo Faraone, Lotta tra titani... Pur essendo uno schiavo, l’eunuco Taita si trova il suo posto nel mondo degli uomini liberi grazie a una mente geniale, conquista l’amicizia di persone importanti, giunge a consigliare gli stessi Faraoni, diviene un potente mago capace di sopravvivere ai secoli e sembra addirittura trasformarsi in un immortale, o comunque in una persona dalla vita enormemente più lunga di quanto sia naturale. Taita stesso narra la sua avventura in sette papiri, raccontandoci il suo amore platonico per la nobile padrona, le sue invenzioni, è architetto, scriba, pittore, precettore, medico, scienziato, consigliere del Faraone, mago... un vero super eroe d’altri tempi. Non si sa se alla fine l’ex schiavo è morto dopo aver raggiunto l’estrema vecchiaia o per incidente o per stanchezza, o se ha architettato un’ennesima finzione per poter sparire dalla circolazione e non destare sospetti nella Corte e ancora oggi si aggira tra di noi, con una nuova identità. L’ultimo rotolo dei sette in cui ha narrato la sua autobiografia, con le indicazioni per raggiungere la tomba del Faraone Mamose VIII presumibilmente ancora inviolata, è infatti stato distrutto dallo stesso autore…  
Il settimo papiro è un romanzo edito nel 1995 e narra l’ardita caccia al tesoro che porta l’avventuriero Nicholas Quenton Harper e l'affascinante archeologa anglo-egiziana Royan Al Simma a cercare di raggiungere la tomba del Faraone Mamose VIII prima dell’avido collezionista Gotthold Von Schiller. Si tratta di un romanzo di puro intrattenimento, con personaggi di facile presa, caratterizzato da uno stile scorrevole e leggero, ben ritmato, piacevole. Sono tutte caratteristiche che hanno sempre fatto snobbare Smith agli intellettualoidi di mezzo mondo, eppure al cinema dovrebbero funzionare. Non sorprende come il testo sia stato trasformato subito in una miniserie, realizzata a partire dal 1996 e trasmessa in Italia su Canale 5 a distanza di soli quattro anni dall’uscita del romanzo in libreria. 
Il regista statunitense Kevin Connor ha trasposto le avventure dei coraggiosi archeologi in tre puntate da 90 minuti ciascuna, adattando gli eventi narrati a quanto un pubblico generalista presumibilmente vuol trovare sullo schermo. Le scelte narrative modificano pesantemente un testo creato per rivolgersi a lettori adulti abbastanza eterogenei e spesso poco ferrati di storia antica, affamati però di emozioni e senso di meraviglia.  La miniserie strizza l’occhio alle famiglie e subisce le limitazioni proprie di un prodotto che deve piacere a una platea formata anche da ragazzini e quindi la complessità nell’intreccio viene semplificata, in modo da intrattenere con leggerezza e costare il meno possibile. 
La sceneggiatura scorre su due piani che si alternano, quello ambientato nel presente con le disavventure degli archeologi ai giorni nostri e la vita di Taita evocata dalla lettura dei rotoli. Il materiale è attinto sia da Il settimo papiro, sia da Dio del fiume, rivisitati in modo da poter essere raccontati in un unico film.
C’è un prologo in cui Taita affida un neonato alle acque del Nilo e prega affinché il dio possa portarlo in salvo, poi si torna nel presente col ritrovamento dei papiri, e si prosegue alternando i due piani temporali. Nel presente la coppia di archeologi Royan Al Simma (Karina Lombard) e il marito Duraid ( Tony Musante) vive e lavora in Egitto. Hanno adottato un bambino, Hapi ( Jeffrey Licon), trovato in una barca lungo il Nilo e sono professionalmente affermati, tanto da aver scoperto una tomba con dei papiri attribuiti al leggendario Taita. Il loro lavoro non sfugge alle mire di un collezionista, Gotthold Von Schiller ( Roy Scheider) che vorrebbe assoldarli solo per poter passare alla storia sostituendo il proprio nome al loro. Il resto della vicenda, almeno fino agli ultimi venti minuti, è una caccia al tesoro vista in decine di film di avventure, con la protagonista che rimane vedova del marito studioso e poco attraente, e viene accompagnata da un baldo avventuriero nel cuore dell’Etiopia. Di nuovo rispetto al romanzo omonimo c’è l’alternarsi del passato che affiora dalla lettura dei papiri, e la presenza del pargolo, che purtroppo è una pessima pensata. Il bambino è un Deus ex machina che risolve ogni situazione, arriva a conclusioni sagge prima degli adulti e fa da paraninfo per la prevedibile e sdolcinata storia d’amore tra l’archeologa vedova e lo scapestrato tombarolo. Il piccolo è il filo rosso che collega il passato al futuro: è il figlio della regina Lostris e di Tanus, inviato nel presente dalla magia misticheggiante di Taita e naturalmente è invincibile e immortale, destinato a chiudere il cerchio degli eventi rimanendo però a vivere nel presente con la famiglia adottiva. Il lieto fine, fasullo quanto una banconota da tre euro e appiccicato alla buona tanto per soddisfare i più giovani, si vede nella versione trasmessa e reperibile sulle piattaforme di streaming. Pare ci fosse anche un epilogo diverso col bambino che viene ucciso nella sparatoria finale e si allontana nell’Egitto Celeste accompagnato da Taita stesso e dai suoi veri genitori, tuttavia questa versione non è reperibile nelle edizioni oggi distribuite e rimane come uno dei tanti alternative ending che sanno di leggenda metropolitana. 
Hapi è il più grosso errore di scrittura, poiché incarna e mette a nudo le contraddizioni di una serie che fatica a trovare il suo target ideale. Ci sono scelte nazionalpopolari che lo scrittore, pure tanto attento al voler piacere a un largo pubblico, non s’era mai permesso di fare.
Le parti ambientate nel passato sono quelle più convincenti, sia per le interpretazioni, sia per il senso di meraviglia e il misticismo che in qualche modo emerge dalla vicenda. Art Malik interpreta lo schiavo erudito e ne fa un gran personaggio, presentando la condizione di schiavitù in un modo per certi versi verosimile. Taita ha un padrone che dispone di lui, tanto da farlo evirare in quanto innamorato della figlia Lostris (Katrina Gibson). Grazie alla sua istruzione e alla sua genialità multiforme, questo schiavo però non è esattamente carne da macello da spedire a scavare pietre o a trascinare blocchi di granito: è preziosissimo. Non conosce la condizione di uomo libero e neppure la desidera, in quanto vuol restare a servire Lostris e probabilmente ha capito che la libertà è uno stato mentale. In un Regno con un Sovrano assoluto che è ritenuto l’avatar del Dio del Sole, in fondo tutti sono suoi schiavi. Anche gli stessi nobili, se si dovessero opporre al volere del Faraone subirebbero le sue ire, e i congiurati se venissero scoperti riceverebbero punizioni esemplari. Taita non può amare Lostris, ne è il precettore, è uno schiavo e poi viene evirato, ma anche Lostris non può sposare il comandante dell’esercito Tanus (Phillip Rhys) perché è stata scelta come sposa del Faraone. Tanus stesso obbedisce al sovrano senza ascoltare i saggi consigli di Taita, che lo vorrebbe far fuggire insieme all’amata. Lo schiavo diventa l’ago della bilancia di situazioni spesso delicatissime, e agisce con intelligenza, furfanteria e una certa dose di disillusione. Se la bella Lostris e l’aitante Tanus sono due presenze estetiche, Taita e il Faraone ( Edmund Purdom) funzionano perfettamente, tanto che si fa poco caso se l’Antico Egitto in televisione si limita a qualche interno di reggia, a scenografie di vistoso cartongesso pitturato alla bell’e meglio. Bisogna mettere da parte ogni pretesa di ricostruzione storica o anche di spettacolarizzazione estrema: le scene con carri o cavalli sono rare, le battaglie sono scaramucce con pochi figuranti, e tutti indossano costumi semplici probabilmente recuperati da produzioni più ricche. 
Il presente convince meno perché i personaggi sono meno interessanti e sono interpretati tutt’al più con consumato mestiere, a partire dalla coppia protagonista, con l’archeologa bella e scialba e Harper che poco a poco è costretto a trasformarsi in un padre amorevole e rassicurante. Il villain è caricaturale, Valeria Marini imbarazzante e gli scagnozzi sembrano usciti da Yattaman o dal video di Hurrah! di Tozzi. I pochi personaggi etiopi sono sfruttati malamente, anche perché non potendo inscenare le violenze delle persecuzioni etniche, la rappresentazione rimane edulcorata, con qualche caduta di gusto nella rappresentazione furbetta e venale dell’abate copto. 
Le vicende ambientate nel presente risentono anche dei pochi mezzi, con inseguimenti e sparatorie degne dell’ A-Team o di McGyver. Al momento dell’uscita della miniserie esplosioni e stuntmen erano ancora la norma per le produzioni audiovisive, tuttavia la differenza qualitativa rispetto a quanto si vede in film creati negli stessi anni per il cinema è notevole. Poi ci sono gli effetti speciali veramente modesti e invecchiati malissimo. Nel 1999 il computer non faceva ancora i miracoli che oggi sono alla portata anche di produzioni minori. Anche investendo tanti soldi, le immagini erano artificiose, e purtroppo si doveva mostrare sia la personificazione del Dio del Fiume, sia la cascata che cela la tomba, sia il viaggio dimensionale che conclude la miniserie. In mancanza di una sceneggiatura capace di lasciare immaginare gli eventi sovrannaturali, i trucchi sono oltremodo rozzi, però rendono comprensibili gli eventi allo spettatore. Diverso è il caso della cascata etiope, poiché al mondo esistono tante location che potevano prestarsi allo scopo, e lo sfoggio continuo e ripetuto dei fiotti d’acqua visibilmente inseriti con il copia e incolla poteva essere evitato con una spesa maggiore. 
Nonostante i tanti difetti, Il settimo papiro intrattiene lo spettatore che desidera rilassarsi davanti alla televisione, magari sonnecchiare sapendo che tutto andrà bene. Peccato che un risultato tanto onesto e modesto abbia scoraggiato dal trasporre i romanzi di Wilbur Smith, stavolta affidandoli ad autori con esperienza e con mezzi adeguati.  
Cuccussette vi ringrazia della lettura.
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