MARCELLINO PANE E VINO

Raccontare agli uomini d’oggi una leggenda religiosa radicata nel folklore richiede una buona dosa di coraggio. Lo scetticismo verso i miracoli è un atteggiamento diffuso e gli stessi sacerdoti si premurano di verificare i fatti prima di ammettere un intervento divino, pur di evitare di essere ridicolizzati. Di fatto, i Santi riconosciuti in epoca contemporanea sono persone che hanno compiuto gesti concreti come quelli di Madre Teresa o di Padre Kolbe, di Zefirino Jimenez o di Don Bosco. Una figura come quella del piccolo santo spagnolo Marcelino, orfano capace di parlare con un crocifisso di legno, appare anacronistica. E in parte lo è, perché si tratta di un personaggio della tradizione popolare spagnola, un prodotto culturale forse creato al crepuscolo del Medioevo, e fatto conoscere dallo scrittore Premio Andersen José María Sánchez Silva in una serie di fortunati acconti e romanzi. La pellicola di Ladislao Vajda del 1955  poteva permettersi di narrare la breve esistenza di Marcellino colta in tutto il suo ingenuo candore, presentandola come ‘vera’ ad un pubblico meno acculturato di quello a noi contemporaneo, e più sensibile agli aspetti (melo)drammatici. Rivisto oggi, Marcelino pan y vino commuove oppure imbarazza, a seconda della disposizione d’animo dello spettatore. La delicata poesia dei dialoghi scarni e il sobrio bianco e nero possono ancora regalare emozioni, a patto che si contestualizzi questo lacrima movie sui generis. Privata del lirismo naif e valutata secondo la pretesa razionalità del terzo millennio la vicenda appare cupa, con quel Cristo patiens di legno pronto ad animarsi per portare con sé l’ignaro bambino, facendolo morire precocemente.
Ben diverso è il remake di Luigi Comencini, diretto nel 1991. Il regista reinterpreta i fatti e impronta la nota vicenda al realismo magico proprio dei rari esempi di fantasy italiano, pur mantenendo la poesia di una leggenda. La pellicola si apre ai giorni nostri, con una gita scolastica in visita al convento dove secondo la tradizione avrebbe vissuto il santo bambino. Con stile piano la macchina da presa si sofferma sui gadget pacchiani in vendita proprio davanti alla chiesa, suggerendo allo spettatore come molti santuari siano imprese commerciali messe in piedi per attirare turisti e di spiritualità autentica ce ne sia davvero poca. La tomba del santo è poi una lapide commemorativa inquadrata rapidamente, tra un dettaglio di cartolina e l’altro. A giudicare dai primi piani focalizzati sugli sguardi dei giovani visitatori, la targa è meno interessante dei colorati souvenir.
Nonostante la mercificazione dei sentimenti, della pietà e della fede, fosse pure la vita di Marcellino soltanto una bella fiaba dall’epilogo malinconico, merita di essere narrata. Il regista ci introduce così ad un cambio di punti di vista, da un narratore esterno ai fatti a un protagonista che racconta sé stesso. La variazione potrebbe spiacere in un altro soggetto; in questo caso invece è appropriata, perché i fatti si basano su una religiosità naif per molti aspetti simile al pensiero magico proprio dei bambini, o attribuito dai colonizzatori bianchi ai popoli conquistati. L’aver evitato complessi movimenti della macchina da presa, o un montaggio ritmato è parte del calarsi nello sguardo di un piccolo, che esprime i suoi vissuti in modo soggettivo e semplice.
Marcellino viene trovato dai frati durante un assedio, in un paese rurale reso ancora più povero dalla guerra. Viene accolto nell’abbazia in quanto nessuno lo reclama, e la sola alternativa è farlo adottare a gente egoista pronta usare il bastone per educarlo, e a tenerselo solo per poter avere in futuro due braccia per lavorare. Al convento il piccolo viene cresciuto con amore; combina qualche innocua marachella, e nutre affetti profondi per i frati, nonostante sogni di poter riabbracciare la madre. Cresce in un microcosmo scandito dalle preghiere e dal sereno lavoro, guarda il mondo esterno con ingenua curiosità, senza però provare rimpianti, anzi... Purtroppo fuori dalle mura del convento la realtà è fatta di fatica ingrata, di personaggi picareschi o oppressi, e di soprusi perpetrati dai potenti. Il regista seleziona gli episodi in modo da dare voce a questa umanità sottomessa alle violenze e alla povertà, e lascia parlare le immagini, senza retorica. L’innocenza del piccolo contrasta con l’abbrutimento della società. Il popolo appare chiuso nell’ottusità causata da secoli di sopraffazione e i nobili sono altrettanto incapaci di aprirsi ai valori dello spirito. Come era avvenuto per gli sceneggiati Pinocchio e Cuore, anche in questo caso un testo tradizionale o tradizionalista viene riletto e trasformato in modo da divenire uno spietato ritratto di un’epoca. Per poter offrire una nuova chiave di lettura la sceneggiatura va a creare o recuperare situazioni e personaggi assenti dalla precedente versione cinematografica, e delle pagine. Compare quindi il Conte, proprietario dei terreni dove sorge il convento; deve procurarsi un erede maschio quanto prima possibile, pur di evitare di dover cedere le terre ad un prossimo parente e non esita a riconoscere in Marcellino suo figlio, perduto durante l’assedio. Il bambino è costretto a seguirlo a corte, tra precettori e lezioni di galateo, battute di caccia e banchetti a base di carni. Quando finalmente scappa viene nascosto dai frati, ma viene scoperto dagli uomini del Conte, entrati nel convento con il pretesto dell’ospitalità. L’episodio è introdotto sia per condannare la prepotenza dei nobili, sia per dare una motivazione concreta all’incontro tra Marcellino e Gesù. Nella penombra del campanile dove si è rifugiato il piccolo incontra un amico, il grande Cristo di legno. Il bimbo ne ode la voce, può parlare con lui,  gli racconta le sue pene ed il suo desiderio di riabbracciare la mamma, per lui ruba il pane e il vino dalla dispensa… fino al giorno in cui giungono le milizie del Conte e danno fuoco alla chiesa. Quando i frati riescono a domare le fiamme, sia Marcellino che il Cristo sono scomparsi.
La scelta di non mostrare il piccolo santo morto, o il Cristo esposto come reliquia da venerare rende il senso del miracolo in tutta la sua pienezza ed accresce il senso del realismo magico che per buona parte della pellicola restava un fil rouge sommesso. Il ritrovamento del corpo, la testimonianza del prodigio ad opera di un frate sminuirebbe il prodigio, almeno agli occhi disincantati degli spettatori di oggi. La sparizione invece enfatizza il senso del soprannaturale e nello stesso tempo, in mancanza di concrete reliquie, lascia spazio allo scetticismo di quanti volessero vedere nella vicenda una poetica invenzione, magari inscenata per poter risollevare l’economia di una regione economicamente depressa.
E dopo tanto lirismo si torna alla concretezza con i bambini di oggi pronti a risalire sull’autobus, forse indifferenti al racconto di Marcellino, un eroe troppo lontano dai modelli apprezzati dai giovanissimi, protagonista di una storia ormai lontana dal modo di concepire la santità.

Marcellino pane e vino venne poco apprezzato a suo tempo, e forse neppure oggi verrebbe compreso dal grosso pubblico. Il regista venne accusato di aver riesumato un soggetto ormai sorpassato, e di aver narrato i fatti con uno stile simile a quello delle produzioni televisive.
Di certo la vicenda ormai era troppo conosciuta in tutto il mondo per poter sorprendere. La commozione poteva rapire gli spettatori degli anni Cinquanta, però all’inizio degli anni Novanta il film di Ladislao Vajda era ben noto e nessuno poteva prevedere chissà quali innovazioni. Nel caso di Comencini, il soggetto era stantio e invece la rilettura appariva trasgressiva in quanto fiabesca, ideologizzata, di sinistra e allo stesso tempo poetica ed antimaterialista. Di fatto parecchi spettatori hanno evitato la visione temendo un remake religioso o un lacrima movie. Marcellino è stato boicottato anche da parecchi critici  perché il regista ha imboccato la difficile strada del realismo magico piuttosto di richiedere un anacronistico atto di fede o scivolare in un facile anticlericalismo. Additare la pellicola come esempio di critica alla chiesa cattolica è sterile, poiché le uniche figure positive sono proprio quelle dei frati francescani, dodici uomini disposti all’accoglienza in un mondo spietato, desiderosi di esprimere amore paterno indipendentemente dal voto di castità, colti rispetto alla massa di contadini analfabeti, coraggiosi davanti alla violenza del Conte. Nessun altro personaggio è positivo, il popolo è una massa abbrutita, i nobili conoscono solo il diritto fondato sui privilegi o sulla violenza.
Qualcuno puntò il dito contro l’estetica del film, accusandola d’esser vicina ai modelli televisivi. La lentezza del montaggio è necessaria per costruire l’atmosfera sognante e calare lo spettatore in un mondo lontano dalla sua esperienza. L’assenza di effetti speciali esibiti con insistenza è un pregio, elimina ogni possibile tentazione di offrire una rappresentazione kitsch del crocifisso animato. Cristo è soprattutto una voce amica che il bambino riesce a udire, è qualcosa di interiore e ogni intimismo naufragherebbe davanti a messe in scena esplicite. Si può credere al miracolo, ravvisare nella voce qualcosa di analogo alla presenza dello spirito guida nello sciamanesimo, oppure pensare che è la fantasia infantile a dar vita ad un amico immaginario speciale. Qualsiasi spiegazione si preferisca, l’astrazione è benvenuta.
Le inquadrature e la fotografia sono pregevoli,  ammiccano ai grandi pittori del tempo, al contrasto tra luce ed ombra di Caravaggio, ai ritratti di gente umile o potente di Velasquez. Né sfigura la recitazione, affidata da Comencini a seri caratteristi. Se anche alcune produzioni televisive del passato hanno raggiunto tanta raffinatezza formale, si può solo rimpiangere un simile modo di fare televisione. Marcellino pane e vino possiede tratti capaci di far riconoscere dopo poche sequenze lo stile dell’autore, e niente ha a spartire con certe miniserie a tema religioso trasmesse in occasione delle feste. Purtroppo proprio le modeste riproposizioni di biografie di santi o di episodi biblici di facile presa, realizzate con bassi standard produttivi e con mezzi limitati, hanno alimentato  nuovi  pregiudizi e ne hanno consolidati di vecchi, anche nei critici.  

Se Marcellino pane e vino ha un difetto è proprio la difficoltà nel trovare un suo spettatore ideale: per i bambini è una fiaba triste, nei genitori evoca il ricordo dei  pomeriggi trascorsi in parrocchia, una parte di anticlericali teme di trovarsi ad assistere ad una lezione di catechismo. Stavolta non sanno cosa si perdono…

Cuccussette vi ringrazia della lettura.

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