WATERWORLD

Di solito i film di fantascienza ambientati dopo l’ ennesima e fatale guerra atomica ipotizzano un futuro di macerie, rovine, malattie, con i sopravvissuti obbligati a vivere in zone protette o nel sottosuolo. Waterworld, pellicola diretta nel 1995 da Kevin Reynolds e prodotta ed interpretata da Kevin Costner, ci dà una versione tutta diversa del dopo bomba, e parimenti apocalittica.
Nella distopia i Poli… se la sono squagliata, e tutta la superficie della Terra è sprofondata di centinaia di metri sotto il nuovo livello del mare. I superstiti vivono su zattere gigantesche attaccate insieme,in modo da formare atolli; riciclano tutto quello che riescono a procurarsi dai fondali. I cittadini del domani  ricordano pochi dettagli della storia che li ha preceduti, per molti è difficile accettare l’ idea che in un tempo neppure tanto lontano l’ uomo vivesse in maniera diversa. La stessa esistenza dei continenti e delle città è considerata un mito, proprio come Atlantide per noi. I resti del passato, quando vengono ritrovati impigliati nelle reti dei pescatori, sono un’ ambita merce di scambio. Il commercio è molto praticato, tuttavia il valore attribuito ai beni è assai differente da quello a cui siamo abituati. Ogni oggetto vale per la sua utilità, e non solo per lo status symbol che evoca.
L’ambientazione relativamente inusuale è il punto di forza della pellicola. Superato lo stupore iniziale, la platea si trova a rivivere una vicenda già proposta in decine di pellicole, dalla saga di Mad Max all’epopea della conquista del West, rivisitata con qualche influsso del cartone giapponese Conan il ragazzo del futuro.

In questo immenso oceano vivono piccole comunità, minacciate da bande di pirati equipaggiati di scassati motoscafi e moto d’acqua, gli Smokers. Sono guidati dal Diacono, un leader fanatico pronto a tutto pur di impossessarsi dei pochi beni rimasti a galla. Come in ogni pellicola sul dopo bomba che si rispetti, c’ è un ribelle dal cuore puro che combatte gli aguzzini di turno. In questo caso, abbiamo il Marinaio: un atletico navigatore solitario, interpretato da Kevin Costner all’apice del successo. Il personaggio è l’ennesimo lupo solitario destinato a riportare la giustizia per poi riprendere il cammino verso nuovi torti da raddrizzare. Di lui sappiamo poco, solca i mari su uno speciale catamarano, commercia e non ama trattenersi per troppo tempo nello stesso posto perché è un mutante, e quelli come lui vengono perseguitati ed uccisi. La diversità fisica è forse il suo unico tratto originale: ha le branchie poste dietro le orecchie, i piedi sono palmati, può stare in immersione a lungo e scendere a grande profondità. Nonostante lo si veda orinare come un normale essere umano, ha un apparato riproduttore modificato e non può procreare.
La scelta di mettere in scena un eroe d’azione, di aspetto virile tuttavia sessualmente ambiguo poteva essere un’interessante variazione sul tema dell’eroe macho e prestante. Sarebbe addirittura andata oltre un legame gay o saffico, ci avrebbe parlato di legami interspecie, dato che il Marinaio appartiene ad una specie nuova e potrebbe non essere un solitario capriccio genetico. Tutto questo anni prima de La forma dell’acqua.

L’ avventura prende l’avvio quando il mutante approda in un atollo artificiale e si rifiuta di mettere incinta un’indigena. Viene scoperto ed imprigionato; riesce a stento a fuggire in compagnia della barista Helen e della piccola Enola, approfittando di un’incursione del Diacono. La bambina è ricercata dai pirati perché sulla schiena ha un tatuaggio, una specie di mappa che potrebbe condurre a Dryland, la leggendaria terra emersa. Inizialmente il Marinaio vorrebbe disfarsi di Enola e di Helen, poi accetta di proteggerle. A parte questo episodio necessario per innescare l’avventura, la diversità fisica del protagonista resta fuori campo, o peggio, viene rinnegata.  La  mentalità puritana elimina questa traccia narrativa, o piuttosto la sfrutta per motivare l’esistenza errabonda dell’eroe, Dal punto di vista narrativo era preferibile esplorare la sessualità del protagonista e l’affettività che ne poteva derivare, oppure eliminare direttamente ogni riferimento ad essa, lasciando ad altri particolari fisici il compito di rendere il Marinaio un reietto.

La personalità del mutante e dei suoi alleati viene appena tratteggiata ed ogni accenno di introspezione finisce sommerso dall’orgia di effetti speciali e scene acrobatiche. Dopo aver sovra sfruttato il cliché del cavaliere solitario buono e invincibile, poteva essere giunto il momento di proporre un autentico anti eroe. Fare del Marinaio una creatura malinconica e crepuscolare, sospesa tra il desiderio di un’esistenza stabile e la consapevolezza di non poter essere accettata fino in fondo per i troppi pregiudizi, poteva essere una scelta davvero vincente. Si sarebbe rivisitato l’adagio del super eroe con super problemi, fondendo il tema caro al mondo del fumetto con una figura radicata nell’immaginario cinematografico del western. Forse i tempi non erano ancora maturi per un eroe gay, figurarsi per uno asessuato, oppure i produttori temevano di mettere in scena una creatura autenticamente aliena, diversa dai comuni mortali sia nell’aspetto sia nei sentimenti. Costner mancava del fascino ambiguo di David Bowie e del suo Uomo che cadde sulla Terra, e probabilmente il risultato sarebbe apparso grottesco, anche perché le doti interpretative del buon Costner erano soprattutto fisiche. In ogni caso, ogni supposizione resta un amaro what if..? reso ancora meno digeribile dalla superficialità con cui sono rappresentati tutti i personaggi, buoni e cattivi. La barista Helen ripropone l’ennesima bella da proteggere, la bambina disegna palme e isole ed è una presenza necessaria per far avanzare gli eventi, il Diacono è dimenticabile nonostante spesso i ruoli dei cattivi sullo schermo siano più interessanti di quelli degli eroi. La lezione di Alan Rickman e del suo Sceriffo di Nottingham interpretato magistralmente in Robin Hood il principe dei ladri viene travisata. Il povero Dennis Hopper si trova a dover pronunciare battute non ironiche quanto demenziali. Il Marinaio si trova a contrastare un altrettanto insipido villain, in un contesto troppo serioso. Se la sceneggiatura scritta e corretta troppe volte avesse dato spazio al dramma esistenziale dell’eroe, l’epilogo avrebbe assunto ben altro tono, sfuggendo alla consuetudine. Invece i titoli di coda seguono sequenze scontate; date le premesse, a quel punto poteva risultare più trasgressivo concedere al protagonista di fermarsi a Dryland per fondare una nuova civiltà più libera e aperta alla speranza insieme ai nuovi amici. Gli sceneggiatori sono voluti però andare sul sicuro, forse negli anni Novanta la società era impreparata a rappresentare una famiglia lontana dagli stereotipi puritani, oppure c’era la speranza di poter realizzare dei sequel in caso di successo del primo capitolo.
Qualsiasi siano le motivazioni, il risultato è prevedibile, e stona con le tante energie impiegate per concretizzare un’ambientazione così inusuale.
L’avventura del Marinaio è ravvivata da sequenze spettacolari, le scenografie sono degne di un vero kolossal d’altri tempi, rare sono le riprese sulla terraferma, o in uno studio. Il Medioevo acquatico vive di ricostruzioni mastodontiche di architetture futuribili, a metà tra la barbarie e la tecnologia, allestite alle Hawaii e in altre location del Pacifico. A metà anni Novanta la grafica digitale non permetteva ancora di creare mondi ex novo, e il lavoro degli scenografi si è basato soprattutto su set costruiti appositamente per il film. Dal punto di vista formale, il film è una vera meraviglia, i costumi sono adeguati al clima della storia ed è stato impiegato un esercito di controfigure specializzate in acrobazie acquatiche. Poteva forse funzionare se Waterworld fosse stato un’attrazione da allestire in un parco a tema in alternativa alle esibizioni di delfini e orche. Nessuno si attende dagli spettacoli ispirati al nouvelle cirque un intreccio elaborato, con personaggi credibili e momenti introspettivi, e quanti amano il genere apprezzano invece le coreografie, le doti atletiche. Congelate in sequenze dove la macchina da presa fa sfoggio di virtuosismi, le imprese degli stuntman restano spettacolari esempi di barocchismo visivo. Si ha l’impressione di assistere ad uno show circense trasmesso in televisione, con artisti abilissimi privati però della bellezza dell’esibizione dal vivo. La pellicola dura 135 minuti ed una buona parte di essi viene impiegata per le mirabolanti scene d’azione. Passato l’entusiasmo iniziale, subentra la noia proprio perché senza la presenza di personaggi davvero convincenti, ogni scena d’azione rischia di restare un atto fine a sé stesso, come l’atto sessuale in un film pornografico.  Né l’ambientazione sopperisce del tutto a questo vuoto: mentre in Dune la descrizione delle abitudini e del credo dei nomadi delle sabbie del lontano pianeta occupa una buona parte del minutaggio, in Waterworld c’è poco spazio per definire la società degli atolli di chiatte, ed ogni riflessione viene affidata a quanto le inquadrature mostrano tra un’esplosione e una sparatoria. Le incoerenze poi si sprecano, anche dal punto di vista scientifico, e sarebbe una pecca lieve in una vicenda che vuole colpire l’immaginazione della platea con le armi della spettacolarità portata all’estremo.

In ogni caso  Kevin Costner ha voluto credere nella sua faraonica fiaba acquatica, e l’ha realizzata con uno stile che ammicca e scopiazza i grandi classici. Di nuovo per l’epoca c’è la libertà di attingere da situazioni e modi narrativi tipici del cinema di genere, ibridando il western con il post atomico, la fantascienza con l’avventura. Kevin Reynolds ha fatto il possibile per realizzare un kolossal, e gli sforzi appaiono  fin troppo evidenti. La storia poteva stare in piedi anche con una maggiore sobrietà di mezzi, o piuttosto, con un uso più oculato degli stessi. Qualche taglio nelle interminabili scene d’azione, una sceneggiatura più attenta a dare vita ad un mondo diverso dal nostro, popolato da personaggi più sfaccettati, avrebbero fatto la differenza per questa pellicola. Se davvero verrà realizzata una serie televisiva basata sul soggetto di Waterworld, c’è da augurarsi che gli sceneggiatori non ripetano gli stessi prevedibili errori.

 

Cuccussette vi ringrazia della lettura.

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