BIANCO SCARLATTO

I fantasmi sono una presenza costante nelle leggende popolari, e non fa eccezione il Meridione. A Mesagne, comune della provincia di Brindisi, si narra della Signura Leta, una nobildonna che disonorò la famiglia innamorandosi del figlio di un povero ciabattino. Lo stesso padre incaricò i fratelli di uccidere la coppia, e così avvenne. Leta venne bruciata in una fornace e divenne uno spettro, che si aggira nelle periferie del paese vestito in abito da sposa.

A questo racconto è ispirata Bianco Scarlatto, pellicola firmata dai fratelli mesagnesi Gabriele e Vittorio Magrì, registi che hanno all’attivo collaborazioni con nomi come Dario Argento, Roberto Benigni, Alessandro Gassman, Franco Nero, e che hanno ricevuto riconoscimenti nei Festival Internazionali di Cinema a Cosenza, Torino e Salerno. Qui danno un taglio abbastanza originale alla vicenda della Signura Leta, ambientandola ai giorni nostri. Il fantasma appare a un giovane ritardato, che vive in una modesta casa della periferia con una famiglia che mal lo sopporta: il padre ha alle spalle attività di contrabbando e il carcere, la madre è succube dei modi violenti del marito, il fratello gemello segue gli insegnamenti paterni e si rifiuta anche solo di accompagnarlo a fare una passeggiata. Emarginato da tutti e confinato in casa, il giovane occupa le sue giornate disegnando la paurosa apparizione.

In un clima di povertà materiale e spirituale, Leta compie un grande miracolo: a poco a poco suo fratello si ribella, inizia ad accettare la diversità del gemello, respinge la vita criminale. Sarà il padre ad avere la peggio, in un epilogo trascinante…

Ma questa non è che una parte del film. Si scopre infatti che quanto fino a qui narrato è semplicemente il soggetto per una sceneggiatura creata da un bizzarro autore che venera Akira Kurosawa e che, come un samurai, riconosce nella Settima Arte il proprio Bushido. La vicenda è quindi un copione, e viene proposto a due giovani attori, che accettano perché “è meglio fare il ritardato che il morto di fame”. Di ritorno dal casting, faranno un incontro sconvolgente…

Il film sfrutta luoghi comuni tipici dell’horror nostrano, attualizzati dalle riflessioni sulla società e sul ruolo dei narratori di ieri e di oggi. L’emarginazione dei diversamente abili, il peso dell’arretratezza culturale, il sogno di una vita migliore sono affrontati senza troppa retorica. I fratelli Magrì utilizzano il linguaggio del cinema di impegno sociale, fondendolo con l’horror, proprio come avviene nei migliori B-movie.

Non è un caso se temi scottanti fanno la loro comparsa nel cinema di genere, quello dimenticato dalla grande distribuzione, rifiutato a priori dai critici impegnati. È difficile rappresentare il disagio senza indulgere in atteggiamenti di ipocrita bontà, o raccontare la microcriminalità evitando puerili divisioni tra ‘buoni’ e ‘cattivi’. Il quadro familiare che fa da sfondo alla vicenda è verosimile, e non tace la complicità della madre. La donna forse teme la brutalità del marito, o piuttosto dà un tacito consenso a lui e alle sue attività illecite, unica via per affrontare la precarietà economica. Da un simile scenario poteva uscire una grottesca rivisitazione delle sceneggiate napoletane, rivedute e attualizzate secondo i canoni delle fiction; ma per fortuna la sceneggiatura fonde invece con maestria i diversi piani narrativi, costruendo un gioco ad incastri che stimola la riflessione senza sacrificare l’intrattenimento.

Lode quindi agli autori, e ai bravi interpreti, attori scritturati attingendo dalla Compagni Teatrale Le Comete e dalla GA.VI.M., attive a Mesagne e a Latiano. Spiccano Enzo Dipietrangelo, Angelo Deleo, Carmela Scarafile, Cleto Pernisco, Raffaele Cavallo, Vincenzo Calabretti e Giuseppe D’Angelo, e la protagonista, Antonella Pino. Senza l’abilità recitativa di questi interpreti, la vicenda avrebbe potuto scivolare nel ridicolo involontario. In questo senso, la presenza di Franco Nero nei panni del bizzarro sceneggiatore è davvero preziosa. Le sue battute, messe in bocca a un dilettante, sarebbero suonate comiche; pronunciate da lui sembrano paradossali ed esagerate, ma intanto fanno pensare al destino della cinematografia, oppressa da leggi di mercato e dal ruolo della televisione spazzatura. Il celebre attore ha partecipato in modo del tutto amichevole, ma con convinzione.

La pellicola è stata patrocinata dell’Amministrazione Comunale di Latiano. Grazie alla disponibilità dell’Assessorato alla Cultura, i registi hanno avuto accesso a location suggestive, allestendo i set con professionalità e filmando con attrezzature adatte. Le riprese appaiono sicure, con una qualità visiva sconosciuta a gran parte delle produzioni indipendenti, paragonabile a quella di molti film televisivi del periodo (Bianco Scarlatto è uscito nel 2004). Alcune sequenze sarebbero risultate più incisivae se il montaggio avesse sacrificato qualche fotogramma, e la fotografia risente di poca uniformità nelle inquadrature che ritraggono Leta in abito nuziale, ma si tratta di lievi difetti, che poco tolgono alla validità del film.

Certo, dieci anni significano molto nel campo delle tecnologie di ripresa e post-produzione. Per esempio la viratura seppia che ci porta a rivivere il dramma del fantasma oggi può apparire scontata e alla portata di qualsiasi filmaker. Parte degli effetti speciali è realizzata grazie a software, parte è artigianale, come il trucco che trasforma la sposa in un orribile fantasma. Tanto cerone, guanti e calze ritoccate ad arte, ore e ore di make-up: dieci anni fa era impossibile fare di meglio, almeno per produzioni a basso costo. Il look di Franco Nero è invece invenzione dello stesso attore, che si concede anche un cameo tutto speciale: nella casa dei due protagonisti s’intravede una action figure con le sue fattezze, con tanto di kimono e katana sguainata.

Un film, questo, da difendere a spada tratta!

 

Cuccussette vi ringrazia della lettura.

Questa recensione è stata edita da TERRE  DI CONFINE https://www.terrediconfine.eu/bianco-scarlatto/

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