L'ISOLA DEL TESORO - mimiserie anni'80

ALL’ANIMA MIA!

A cavallo tra gli anni Settanta e primi anni Ottanta, lo sceneggiato divenne uno dei momenti più attesi dei palinsesti televisivi serali, un rito collettivo consumato davanti ai teleschermi. In mancanza di videoregistratori, le puntate venivano “rivissute” nella memoria, rielaborate dalle chiacchiere della gente, fino a diventare un fenomeno di costume vero e proprio.

Impossibile, per quanti siano cresciuti con questo tipo di spettacolo, non ricordarlo con grande affetto.

Nella grande e coraggiosa varietà di tematiche e stili narrativi, ciascun spettatore poteva trovare personaggi in cui identificarsi e vicende appassionanti.

Lo sceneggiato si era evoluto partendo dalle vecchie trasposizioni di romanzi famosi che erano state di moda nel decennio precedente: i teleromanzi.

Rivisti oggi, magari su qualche canale satellitare a tardo orario, questi primi approcci alla narrazione televisiva paiono irrimediabilmente datati. Trasmissioni in bianco e nero sgranato, sceneggiature che imponevano ritmi lenti e fedeltà letterale ai testi trasposti, povertà di movimenti di macchina e montaggio essenziale; set tutti realizzati in interni, costumi, trucco e acconciature che interpretavano le diverse epoche con vistosa approssimazione, soggetti tratti da opere famose messi in scena con mezzi inadeguati alle pretese, attori importati dal teatro, seri professionisti magari un po’ impacciati nelle scene d’azione…

C’è di che sorridere, eppure furono quelle ingenue riduzioni televisive di classici della letteratura mondiale a spianare la strada a successivi piccoli cult.

Tra la metà degli anni Settanta e il decennio successivo le pretese dello spettatore, fattosi più smaliziato, crebbero, e le diverse produzioni dovettero sperimentare nuove strade.

Nacquero così trasmissioni di vario genere che assorbivano, in parte, modi e forme proprie del cinema contemporaneo. Spesso erano coproduzioni realizzate dalla RAI insieme a TV di altre nazioni europee, interpretate da attori di prestigio; a volte sostenute da budget faraonici, offrivano un onesto e decoroso intrattenimento: Gesù di Nazareth, Ligabue, Michele Strogoff, Sandokan, Marco Polo… e moltissime altre.

Riciclati come film – e in questo modo accorciati e inevitabilmente mutilati – hanno incontrato la allora nascente tecnologia del VHS e sono riapparsi, seppure nella forma destinata al grande schermo, in videocassetta. Alcuni di essi sono stati distribuiti solo in certe nazioni, e oggi si trovano sul web, ma in lingue generalmente poco conosciute, come il Cinese o il Giapponese. Altri attendono di essere recuperati da chissà quale archivio, oppure sono andati perduti. Il grosso delle produzioni che non hanno vissuto questa doppia vita sono scomparse e forse non le vedremo più, nemmeno in versione ridotta!

SPAGHETTI SPACE OPERA

L’Isola del Tesoro è uno di questi illustri dispersi della guerra dell’audience. È la trasposizione fantascientifica dell’omonimo capolavoro di Stevenson, realizzata nel 1987 da ANTONIO MARGHERITI, uno dei pochi autori italiani che si è dedicato a generi inconsueti, spesso usando lo pseudonimo anglosassone di ANTHONY M. DAWSON.

Questo sceneggiato comparve sui teleschermi in prima serata, in cinque puntate da 100 minuti l’una. Venne ben reclamizzato, con brevi spot precedenti e successivi ai telegiornali e alle trasmissioni più seguite, e ampi servizi giornalistici che ne rivelavano i “dietro le quinte”. Lo spettatore si trovò ad assistere a un esperimento ardito e costoso, realizzato forse sulla scia del successo della prima trilogia di Guerre Stellari. Dalla più celebre saga, la pellicola di Margheriti ereditava l’ambientazione avveniristica, la presenza di androidi, robot e alieni vari, le astronavi velocissime e un gusto per l’avventura quasi fantasy. Una “space opera”, ovvero Fantascienza che descrive mondi lontani, pervasa da un grande senso di meraviglia, dominata da una ferrea legge: nessuno pretende di spiegare i prodigi della tecnologia ricorrendo a pretesti scientifici o pseudo tali!

Tuttavia lo sceneggiato non era completamente “space opera”: in esso confluivano la tradizione europea delle serie televisive, la voglia di riavvicinare giovani e meno giovani a un classico della Letteratura, la vocazione di trasporre le pagine con fedeltà rigorosa, i ritmi narrativi un po’ lenti, un cast internazionale.

La vicenda si snodava proprio come quella narrata da Stevenson; unica differenza: la rivisitazione di ogni dettaglio in chiave fantascientifica. Non c’erano più galeoni, ma navi spaziali; non isole, ma pianeti, e così via.

Margheriti ci fa immaginare che, in un futuro distante – ma neanche troppo – dal nostro presente, la tecnologia abbia permesso viaggi verso pianeti lontanissimi, e il cosmo sia percorso da commercianti, esploratori, contrabbandieri, pirati.

Gimmi è un ragazzino, vive con la madre in una locanda malandata, nella piana di Siracusa, tra rovine di templi e veicoli polverosi lasciati ad arrugginire in uno spazioporto abbandonato. L’incontro con un moribondo pirata spaziale e il dono della mappa di un tesoro nascosto su un altro pianeta danno l’avvio all’avventura. Il giovane parte sull’astronave Hispaniola con a bordo un cuoco di nome Long John Silver, uomo dal passato misterioso e dal corpo tenuto insieme con protesi di ogni genere… il resto ve lo lascio immaginare…

Secondo le intenzioni dell’Autore, ribadite in diverse interviste, non era importante la vicenda in sé, quanto la sua universale immortalità. Il presupposto era e rimane attualissimo: si tratta di dimostrare come i veri capolavori della Letteratura – e dell’Arte – facciano leva su emozioni e comportamenti così radicati nell’essere umano da trascendere epoche e culture. Cambiano gli ambienti, gli abiti, gli utensili, eppure i sentimenti delle persone restano più o meno inalterati; l’Arte è tale proprio perché sa cogliere ciò che permane nel tempo, e può restare attuale nonostante il trascorrere dei secoli e il susseguirsi delle civiltà.

Di conseguenza, lo sceneggiato mescolava senza riserve l’antico e il postmoderno, rovine greche e spazioporti, Piazza Navona e grattacieli e monorotaie, Guerre Stellari, diavolerie tecnologiche, e sogni e speranze di un adolescente: Jim o, piuttosto, Gimmi.

Come non dirsi d’accordo con la dichiarazione dello stesso Margheriti: “È molto più emozionante un mediocre modellino di astronave attaccato ai fili, che non un’intera città sospesa nel cielo, se si intuisce che è solo un disegno animato”! Una lezione che, soprattutto nella Fantascienza d’oltreoceano, viene dimenticata ogni volta in cui si crede che i prodigi delle tecniche digitali possano sopperire a carenze di idee o all’incapacità di emozionare mediante la finzione e la poesia.

Non è un caso se gli effetti speciali erano all’avanguardia, rispetto agli standard televisivi dell’epoca, e per le tecnologie disponibili prima dell’avvento della grafica digitale. Soprattutto i modellini, ricostruiti da artigiani specializzati, parevano verosimili, almeno a uno sguardo non troppo viziato dai miracoli di Lucas.

POTRANNO ESSER PRINCIPI, POTRANNO ESSER RE… ERA AMORE O UN CALESSE?

Lo sceneggiato poteva essere suggestivo proprio per le sue caratteristiche ibride: ancora oggi una buona fetta di cinema insegue la contaminazione di generi, sconfinando talvolta nel pastiche più dozzinale, alla ricerca di soluzioni innovative. C’erano stati illustri precedenti. SERGIO LEONE aveva dimostrato come fosse possibile realizzare un western di successo girandolo in Europa, con tanto di citazioni da KUROSAWA. Lo stesso Maestro del Sol Levante, ambientò tragedie di SHAKESPEARE (Ran-Re Lear, Il trono di sangue-Macbeth) nel Giapppone feudale.

Pur nella differenza di mezzi, ideologia, scopi e risultati artistici, Margheriti tentava un’operazione analoga a quella di certi film di Pasolini, che propongono tragedie greche in location situate nel sud del Marocco e nelle piazze romane, al suono di danze della Transilvania arrangiate da un musicista italiano, o ambientano la vita di Cristo tra le cave e i sassi di Matera.

Il pubblico della metà anni Ottanta era però impreparato a tanta sperimentazione, né era attratto da trasposizioni di testi famosi, preferendo novità. La Fantascienza era di moda, eppure, nonostante il successo di Guerre Stellari, non si poteva certo dire che piacesse a tutti. Se le sale si riempivano di appassionati, i sofà casalinghi si popolavano invece di persone di ogni età spesso annoiate dalla narrazione tipica dello sceneggiato, disinteressate ad astronavi e pirati, già orientate verso personaggi più vicini all’esperienza di ogni giorno.

Come ebbe a scrivere Proietti nel sonetto “La fiction”:

I marescialli, li preti e li dottori
So’ i personaggi che piaceno de ppiù.
Si ffai ‘n’antro mestiere, so’ dolori
Quanno reciti un firme alla tivvù.
Te chiedi, “‘nce sarebbe un muratore?
Un pilota, un postino, un cameriere?
Fateme fa’ un commesso viaggiatore”.
Gnente: dottore, prete o carabbignere.
Allora te fai scrive un polpettone
E te proponi come primo attore:
un brigadiere che ggià sta in penzione
e che cià un fijo prete innamorato
che nun se sposa perché lei je more
pe’ ccorpa de un dottore arcolizzato.

La vivace satira dell’arguto attore riflette le mutate esigenze del pubblico contemporaneo, quelle stesse che, proprio alla fine degli anni Ottanta, hanno decretato prima l’ascesa delle biografie dei Grandi – mostrati nelle loro umane debolezze – e in seguito l’invasione dei film televisivi ispirati a storie vere, fino alla calata di un’orda di eroi della porta accanto: carabinieri, sacerdoti, medici, avvocati, nonni, tate…

Si può essere d’accordo o meno con lo spettatore che cerca ed esige, sul piccolo schermo, personaggi rassicuranti. Magari sono protagonisti più onesti dei vari Carlomagno impegnati a lasciare Ermengarda come fossero in una telenovela. Certo è che un pubblico del genere fatica a identificarsi negli archetipi di Stevenson, o di Margheriti, o di chiunque altro proponga eroi sovrumani, universali e immortali, per quanto possa narrare bene le loro gesta. Se poco vengono ammirate le peripezie del ragazzo coinvolto nel viaggio di iniziazione che lo farà avventuriero e uomo, neppure nasce simpatia per la vecchia canaglia John Long Silver, ambiguo come si rivela.

L’ambientazione fantastica acuisce poi il divario dalla tanto bramata quotidianità. Il bravo telespettatore si trova davanti un linguaggio che conosce poco o non apprezza (astronavi, laser, robot, alieni!), e un soggetto che rammenta letture “comandate” da insegnanti e professori.

A volte ha la pazienza di cogliere, sotto la forma resa avveniristica e accattivante per i più giovani, contenuti maturi; spesso però vuole solo rilassarsi davanti alla TV, magari dopo una giornata stressante. Quindi si arma di telecomando e cambia canale.

All’indomani della trasmissione, infuriarono polemiche. Critici televisivi e giornalisti mossero accuse di ogni genere alla produzione, ritenuta da molti superflua, lontana dal gusto popolare, costosa e piena di pretese. Forse fu una una manovra diretta a relegare i lavori del registra nella cinematografia di serie B.

Lo sceneggiato era stato funestato da drammi: la morte di un direttore di produzione, il gravissimo malore del regista, le critiche tese a demolire la pellicola, e non ultima la tragica scomparsa del ragazzo che interpretava Gimmi, annegato in Sardegna pochi anni dopo. Un vero e proprio film maledetto! E allora, se L’isola del Tesoro ha un simile alone, perché non si è originato lo stesso miracolo che ha trasformato Il Corvo da ennesima storia di superuomini e vendette a blockbuster? Perché è scomparso dal palinsesto televisivo.

È stato distribuito in videocassetta, in forma di film – ridotto addirittura da otto ore a due! – solo in nazioni molto lontane dall’Italia, come il Giappone. Nessun passaggio su emittenti private, né su canali satellitari. Non è in commercio in VHS o DVD, né si trova “di contrabbando”, ovvero riesumato da qualche amatore e diffuso in barba alle leggi sul diritto d’autore.

Oggi le produzioni televisive sfornano miniserie e telefilm con la consulenza di un gran numero di esperti. Molti di loro non hanno alcuna competenza in linguaggio cinematografico o teatrale, mentre la sanno lunga su comunicazione e psicologia. Devono svolgere indagini di mercato, conoscere abitudini e preferenze dello spettatore medio e, sulla base di esse, riuscire a orientare le scelte di sceneggiatori e registi. Nel migliore dei casi, agevolano la continua rincorsa all’indice di ascolto più alto possibile; nel peggiore, e spero sia solo un futuristico incubo ispirato da Orwell, manipolano gusti e tendenze, inducendo mode, bisogni, costumi e modelli di vita.

Senza nulla togliere all’interessante e delicato operato di questi specialisti, mi piace ricordare com’era la televisione tra gli anni Settanta e Ottanta: vulcanica, sperimentale, a volte naif nei suoi intenti dichiarati educativi. In una parola, creativa.

Se la Disney ha realizzato il suo film di animazione Il Pianeta del Tesoro, un debito con Margheriti e la sua sfortunata creazione c’è, e attendo solo che qualcuno possa riconoscerlo pubblicamente.

Lo sceneggiato ha dalla sua l’impossibilità di fare un confronto tra memoria e realtà: uno spettacolo rimosso senza dare il tempo di capire, con una seconda visione, se era amore, il mio, o un calesse.

 

Cuccussette vi ringrazia della lettura.

Questa recensione è stata edita da TERRE DI CONFINE https://www.terrediconfine.eu/l-isola-del-tesoro-sceneggiato/

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