TRE MINUTI DOPO LA MEZZANOTTE

La vita del dodicenne Conor O'Malley (Lewis MacDougall) è davvero crudele. La madre (Felicity Jones) è malata di cancro all’ultimo stadio, il padre se ne è andato a rifarsi una vita con una nuova famiglia a Los Angeles, la nonna ( Sigurney Weaver) è una burbera arpia e a scuola subisce il bullismo dei compagni. Quando si addormenta i suoi sonni sono tormentati da un incubo ricorrente: una voragine si apre nel terreno della vecchia chiesa e minaccia di inghiottire la madre. Per quanto ce la metta tutta pur di trattenerla, ogni volta la donna sprofonda e lui si sveglia di colpo. Una notte però gli appare il maestoso Tasso, un’entità sovrannaturale che dimora nell’albero secolare che è piantato vicino alla casa. La creatura fa un patto col ragazzino, gli narrerà tre storie e poi sarà Conor a dovergliene raccontare una, confessando la verità.

Sette minuti dopo la mezzanotte (A Monster Calls) è un film del 2016 diretto da Juan Antonio Bayona, autore di The Orphanage e, in seguito, della molto discussa serie ispirata a Tolkien, Gli Anelli del Potere. E’ stato sceneggiato dallo stesso Patrick Ness,  autore del romanzo omonimo scritto a quattro mani basandosi sulle idee della scrittrice Siobhan Dowd, prematuramente mancata a causa di un tumore.
Il romanzo è un fantasy analogo per molti aspetti a Il Labirinto del Fauno o al più modesto Un ponte per Terabithia, ovvero presenta un’ambientazione realistica, in questo caso quella di un piccolo paese irlandese o scozzese, e alcuni elementi sovrannaturali. Può essere letto anche da preadolescenti, sebbene affronti argomenti abbastanza cupi, e lo faccia con poesia ma senza bamboleggiamenti e moine consolatorie. Dominano la narrazione i temi della malattia e della morte, del bullismo e della solitudine, il valore delle fiabe e delle storie come metafore di verità altrimenti non semplici da esprimere, perché la verità non è quasi mai quella che vorremmo sentirci dire. C’è anche la dolorosa presa di coscienza che la vita non è sempre giusta e che non funziona su premi e punizioni, anche perché non ci sono buoni e cattivi ma persone e mix di caratteristiche, ed inoltre molto spesso siamo noi gli stessi cattivi della storia.
Il film è una trasposizione del testo che enfatizza l’estetica dark ereditata da Del Toro e da Tim Burton, e ha il pregio di essere stata curata dall’autore stesso del romanzo, Ness. Quanto vediamo sullo schermo è quanto lo scrittore ha deciso di comunicarci, senza altri intermediari se non il regista. Se ci sono stati dei compromessi con il gusto mainstream per il character design del Tasso, così simile a un Ent sotto anabolizzanti, o con la scelta del cast, sono quelli che Ness e Bayona hanno deciso di accettare, per scelta o per necessità commerciale.
La pellicola è stata prodotta da Spagna e Stati Uniti. Sono state utilizzate location e maestranze dei due Paesi, oltre che del Regno Unito. La possibilità di avere un cast di volti internazionali celebri senza dubbio ha favorito la diffusione della pellicola, distribuita nel periodo natalizio, nonostante si tratti di un dramma fantasy – melò privo di un lieto fine in senso tradizionale.
L’atmosfera della vicenda è molto cupa, da fiaba gotica, e il dramma è annunciato a lettere cubitali. Fin dall’inizio è ovvio che la madre è davvero arrivata alla fine dei suoi giorni e per lei ogni speranza di cura è fallita. Vengono evitati  prevedibili espedienti miracolistici di facile impatto e di dubbio gusto pur di avere guarigioni inverosimili e improbabili ricongiungimenti familiari. E’ negata ogni possibile speranza allo spettatore, e gli si suggerisce che il lieto fine, ammesso esista,  è da ricercarsi in qualcosa di diverso da quello che poteva attendersi.
A dimostrazione che le storie sono bestie pericolose e solo in qualche caso rispettano i desideri di chi le ascolta, la sceneggiatura inserisce tutti gli stereotipi più tipici dei drammi basati su bambini e malattie. In parecchie occasioni il protagonista subodora che qualcosa non funzioni nelle cure, oppure origlia i litigi tra nonna e madre, o ascolta le parole caute di chi cerca di condurlo a capire la gravità dei fatti. Neppure la Preside ha il coraggio di espellerlo dopo un grave episodio di indisciplina, conoscendo la tragedia. Né può affidarsi alla figura del padre scapestrato e leggero. L’accumulo di luoghi comuni è realizzato in modo così esplicito da rasentare il kitsch strappalacrime. Tanta sovrabbondanza da un lato prepara gli spettatori più giovani a quella che è la conclusione dolceamara, dall’altro gli stessi stereotipi vengono analizzati, destrutturati e in alcuni casi, rivisitati in modo critico. La quest del piccolo Conor , troppo grande per essere bambino e troppo piccolo per essere adulto, riguarda sé stesso e la sua elaborazione della perdita. Il Tasso non promette mai esplicitamente la salvezza della donna e parla sempre in modo ambiguo. D’altra parte Conor non ha gli strumenti retorici o probabilmente non ha le forze per mercanteggiare con la magica creatura rilanciando la posta della guarigione come in una partita a poker.
Lo scrittore-sceneggiatore ha preparato l’atmosfera giusta per provare a ribaltare i più diffusi stereotipi sulla malattia, sull’etica, sull’innocenza dell’infanzia.  Il tentativo mi pare riuscito in parte, poiché per mettere in discussione i tabù il regista ha dovuto rappresentare personaggi e situazioni in un modo accessibile allo spettatore medio, quindi ha dovuto creare un equilibrio tra situazioni in parte edulcorate, verosimiglianza e voglia di metterle in discussione. 
Conor è sensibile, è autonomo, ha grandi doti artistiche o forse è stato educato così dalla madre e volentieri pratica il disegno perché lo porta a ricordare i bei momenti trascorsi con la donna. Però non è innocente quanto una letteratura e una cinematografia tradizionaliste vorrebbero far credere che i bambini siano; è più vicino al malinconico ribelle Antoine Doinel dei 400 colpi di François Truffaut. Dentro di sé sa che la madre dovrà morire, e si nasconde che lo strazio nasce dalla separazione sempre più vicina e dal dover sopportare la lunga agonia, le menzogne sempre più evidenti, il venire sballottato da una casa all’altra, costretto a stare con la nonna che è una donna severa, d’altri tempi. Si vergogna dei suoi sentimenti, li ritiene inaccettabili per la morale a cui è stato educato, sebbene siano quanto di più umano possa esserci. La società contemporanea non gli dà gli strumenti per capire ed elaborare la tragedia, si limita a rimuovere malattie e morte dalle conversazioni e quindi Conor rimane sospeso tra quanto gli adulti gli lasciano capire e quanto lui stesso riesce a percepire. Per venire a patti con la realtà c’è bisogno della mediazione del Tasso, albero secolare di cui la mamma raccontava nei suoi acquerelli giovanili e che Conor evoca. Lo spettatore non ha mai la certezza assoluta che la creatura sia solo un’invenzione della fantasia dolente del bambino, in quanto alcuni piccoli dettagli disseminati in tutta la narrazione, e l’epilogo in cui anche la madre pare vederlo, lasciano dubbi. E’ un’entità alta dodici metri, con la corteccia  mobile come carne, simile ad uno spirito guida delle culture sciamaniche e giunge sette minuti dopo la mezzanotte. Il personaggio, realizzato con una stupefacente grafica digitale dallo stesso team di artisti de Il Labirinto del Fauno, ha proprio il compito di guidare il ragazzo verso l’essere adulto e consapevole delle proprie emozioni. E’ indimenticabile, grazie anche alla bella interpretazione di Liam Neeson. Consiglio almeno una volta di guardarlo in lingua originale poiché senza sminuire l’abilità del doppiatore italiano Alessandro Rossi, la voce maestosa e cupa di Neeson, col suo bell’accento irlandese è davvero adatta.
La vera chicca sono le fiabe narrate della creatura, caratterizzate da splendide animazioni che simulano gli acquerelli che Conor dipingeva con la madre. Visivamente ricordano in parte la storia dei Doni della Morte, sono basate sui disegni e acquarelli di Jim Kay, già illustratore per Harry Potter e sono state realizzate dalla catalana Glassworks. Sono storie che hanno per protagonisti i personaggi tipici dei racconti popolari britannici, ci sono re e regine, principi e contadine, preti e erboristi, un uomo invisibile... Niente è come sembra - afferma il Tasso - e così ciascuno dei personaggi non rispetta le caratteristiche attribuite dalla tradizione: chi viene additato come mostro spesso non ha colpe, e quanti sembrerebbero virtuosi invece nascondono segreti.
La realtà attende una decodifica più approfondita di quanto non appaia a un’occhiata superficiale. E’ anche quanto chiede questo film allo spettatore.

 

 

Cuccussette vi ringrazia della lettura.

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