PINOCCHIO di Benigni
Periodicamente il personaggio di Pinocchio torna sul grande schermo, con trasposizioni ardite e futuristiche, inventate di sana pianta come se fossero fanfiction, a cartoni animati, ideologizzate, tradizionali, ultratradizionali…
Talvolta le narrazioni sono poco coraggiose, o anche troppo coraggiose, come la versione del bravo Benigni... stavolta un po' meno bravo però. Il comico toscano nel 2002 ha voluto dire la sua sul famoso burattino, ovviamente con l’aiuto di Vincenzo Cerami, ottimo sceneggiatore che ha firmato capolavori della commedia all’italiana. Come la Fata Turchina voleva far diventare un bambino vero il burattino, stavolta Cerami ha trasformato il comico pratese in un nuovo astro della comicità intellettuale o intellettualoide, o almeno ci ha provato. Il compianto Cerami era molto bravo, probabilmente era il migliore sceneggiatore italiano, però non era una Fata e i miracoli gli riuscivano qualche volta: non questa.
Purtroppo il Pinocchio di Benigni e Cerami è una delusione cocente su quasi tutti i fronti. Il personaggio letterario è troppo noto per poter essere fedele al testo e sorprendere lo spettatore con avventure straordinarie, soprattutto in Italia dove il romanzo viene spesso letto a scuola e quindi è arcinoto. Ormai Pinocchio è come l’Opera lirica, si gustano gli allestimenti, il recitare cantando, e la storia la conosciamo. Il film vive di rendita, sfrutta il successo di La vita è bella e cerca di riproporre la solita maschera dell’omino dinoccolato dalla risata contagiosa. Robertaccio però non è Charlie Chaplin, manca di versatilità e nemmeno da distante si avvicina alla poesia dell’eterno vagabondo in bombetta e bastone di canna. Benigni si è finora dimostrato un attore bravo a fare una parte, la solita. E’ magnifico quando la sceneggiatura vive di voli di poesia o il copione prevede momenti di irriverenza… altrimenti, fa proprio la solita faccia, che debba inghiottire l’amara medicina o faccia i salti di gioia. In questo Pinocchio non troviamo un burattino, sullo schermo c’è un cinquantenne che solo perché è magro e indossa un vestitino a fiori pensa, facendo smorfie e saltellando, di poter assomigliare a una marionetta. A volte ci riesce, più spesso no, e in quelle inopportune sequenze torna ad essere proprio un cinquantenne che sgambetta mostrando invidiabile agilità e poco d’altro. Inoltre recita sempre allo stesso modo, con la medesima intonazione stridula di adulto che fa il verso ad un bambino. Che una persona matura interpreti un bimbo, può essere accettabile, soprattutto se si assiste ad uno spettacolo teatrale. In quel caso il media stesso impone di stare in scena per un periodo prolungato e non poter ripetere le eventuali scene venute male. Ovviamente alcuni personaggi sono troppo complessi per un preadolescente, e in quel caso il compromesso è d’obbligo o quasi. L’alternativa sarebbe quella di scoprire un autentico enfant prodige, ma è una magia che non è riuscita nemmeno a Harry Potter, oppure potere avere svariati piccoli attori che si avvicendano. Spesso nelle recite scolastiche e nei saggi di fine anno delle scuole di recitazione risolvono il problema così, con esiti ovviamente dilettanteschi. Sul palcoscenico si sono viste donne nei panni di Peter Pan o del Piccolo Principe, oppure attori adulti. Alcuni registi, consapevoli delle difficoltà, hanno optato per trasposizioni minimaliste oppure rivisitazioni sperimentali dei testi più tradizionali. Questi dubbi ben noti agli autori teatrali sono rimati estranei alla creazione di Benigni e di Cerami, e quindi non resta che accettare l’artificio fino alla fine, anche se è valso al nostro premio Oscar un imbarazzante Razzie Award per la peggiore interpretazione maschile.
Se la prestazione di Benigni è discutibile, vengono mortificate anche le prestazioni dei personaggi secondari. Che Nicoletta Braschi non fosse una grande attrice, lo si doveva aver capito da tempo. Moglie e musa di Benigni, si aggira nelle sequenze con una faccia poco espressiva, e dalla sua neppure ha la bellezza popolare e procace di certe starlette inserite in camei per la gioia degli sguardi maschili. E’ nel cast per motivi facilmente intuibili, nei panni di un’impacciata Fata dai capelli Turchini. Gli altri comprimari invece sarebbero attori validissimi, dall’espressivo Beppe Barra ai seri professionisti Carlo Giuffré, Corrado Pani… gente che dopo aver macinato anni e anni di palcoscenico, si ritrova confinata in brevi cameo, oppressa da battute ormai imparate a memoria anche dagli spettatori. Se la cava anche Kim Rossi Stuart, un tempo più bello che bravo.
In mezzo a tanto spreco di validi talenti, il problema secondo me più evidente della pellicola è purtroppo la sceneggiatura, firmata da Benigni e da Cerami stesso. Il film si apre e si chiude con grande poesia, il volo di una farfalla blu, l’ombra del burattino che se ne va, quasi a significare una ‘morte’ del burattino stesso, e la sua rinascita. Pinocchio diventando bambino abbandona la sua esistenza di marionetta magica, e rinasce come essere umano, e la farfalla è la vera anima di Pinocchio, il suo spirito anarchico che sfugge alla trasformazione. Forse è una coincidenza voluta e ricercata, in greco antico la parola psyché significa sia anima che farfalla. L’animale in ogni caso sembra portare in sé il senso della metamorfosi. Peccato che l’invenzione poetica rimanga confinata all’incipit e all’epilogo. E’ senza dubbio una bella cornice, peccato che il quadro in sé sia tanto scialbo, innocuo come una litografia da studio medico, di quelle che non devono far pensare, e devono essere gradevoli.
Se non ci fosse stata una campagna pubblicitaria martellante ad alzare le aspettative nei confronti della pellicola, il film di Benigni sarebbe potuto passare in sordina, al pari di tanti titoli di intrattenimento senza infamia e senza lode destinati ai giovanissimi. Se fosse stato proposto con umiltà, probabilmente nessuno lo avrebbe coperto di insulti, talvolta esagerati. Gli squilli di tromba trionfali che l’hanno preceduto lo hanno fatto apparire ancora più deludente, soprattutto all’estero ed in particolare negli Stati Uniti. Le voci dei critici d’oltre Oceano si sono levate in coro, accusando la pellicola di ogni nefandezza. Forse avevano nel cuore il Pinocchio secondo Disney, forse erano faziosi, oppure in buona fede si aspettavano qualcosa di differente. Di fatto oltre i confini nazionali l’accoglienza è stata fin troppo calorosa, ovviamente in senso negativo. Purtroppo i fischi sono in buona parte meritati, Pinocchio non riesce neppure ad essere un film brutto, di una bruttezza da B- movie, capace di suscitare un’intensa emozione e scatenare riflessioni estetiche o sociali. La bella confezione mal si sostituisce alla povertà di inventiva, almeno per quanto riguarda la sceneggiatura. Essa ripropone ogni dettaglio e battuta prevista dalle pagine: gli episodi vengono snocciolati uno dopo l’altro, gli effetti speciali mostrano tutto, proprio tutto, senza obbligare più di tanto lo spettatore a cercare significati sottintesi. Nulla viene lasciato all’immaginazione, tutto fila con irritante prevedibilità nelle due lunghe ore di proiezione. Le scene si susseguono come se fosse obbligo dover raccontare ogni riga nel modo più fedele possibile, nemmeno si trattasse di un fan film obbligato a compiacere le richieste di una nicchia di irriducibili appassionati. Mancano grossi messaggi sottesi alle immagini patinate che possano portare a discutere, magari a non essere d'accordo, a pensare.
Se qualcosa è da salvare nell’anonimato di una pellicola che vorrebbe sembrare d’autore, è proprio il lavoro dei vari mestieri del cinema. Le scenografie e i costumi di Danilo Donati sono maestosi e concretizzano la sintesi tra il gusto barocco tipico del fantasy e le illustrazioni d’epoca.
Le immagini sono impeccabili, fantasiose, colorate come quelle di un videogame e raffinate come una decorazione Liberty. La pregevole fotografia di Dante Spinotti valorizza la creatività dello scenografo, al suo ultimo lavoro – morirà prima del debutto della pellicola, a lui dedicata.
Le musiche di Piovani sono memorabili, immediatamente riconoscibili ed orecchiabili.
Purtroppo non bastano le belle partiture e la raffinatezza esteriore a dare calore ad una pellicola che assomiglia troppo ad un riassunto fatto da un alunno studioso e metodico.
Viene da sospettare una grande operazione commerciale, condotta sull'eco dei successi passati.
L’intervento della post produzione confeziona un prodotto visivamente accattivante, bello come una strenna natalizia ed altrettanto indispensabile.
Realizzato con enorme dispendio tanto da essere il film italiano più costoso realizzato fin ora, girato a Terni negli studi di Cinecittà, Pinocchio è un capitolo della carriera di Benigni che in molti preferirebbero dimenticare, a partire proprio da Benigni.
E mentre il Robertaccio nazionale, dimentico dei bei tempi andati di Televacca e del libero turpiloquio sulle emittenti private sale sui palcoscenici per divulgare a modo suo Dante e la Costituzione come se fosse la caricatura di un professore universitario del tempo che fu, altre versioni del capolavoro di Collodi si sono susseguite.
Cuccussette vi ringrazia della lettura.
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