TUMBBAD
Nel mondo c’è quanto basta per le necessità dell’uomo, ma non per la sua avidità. Questo aforisma di Gandhi è alla base dell’horror indiano Tumbbad, opera prima di Rahi Anil Barve presentata alla 33° edizione della Settimana della Critica a Venezia.
La vicenda narrata si articola in tre capitoli che corrispondono a tre generazioni di una famiglia indiana e a tre momenti chiave della storia del Paese, il 1918 con il dominio britannico, il 1933 con la rivolta non violenta di Gandhi, il 1947 con il Paese ormai indipendente. Essi sono preceduti da un’introduzione mitologica che fa conoscere il dio ribelle Hastar, figlio della Dea Madre dell’Abbondanza. Questi si è voluto appropriare dei tesori della madre, una borsa che dispensa oro infinito e una riserva perenne di grano. La sua cupidigia ha portato la guerra tra gli dei, e quando stava per soccombere è stato salvato dalla Madre, a patto che resti in perpetuo esilio nel grembo della terra, con un sacco pieno di monete d’oro appeso a un borsello, tormentato da una fame atroce e dimenticato dalle preghiere degli uomini.
La divinità giace nel sottosuolo di un fortilizio nobiliare nei presi del villaggio di Tumbbad. Chiunque scopra il suo segreto può cercare di distrarre il dio gettandogli una bambola di pasta per approfittare della sua voracità e strappargli qualche moneta d’oro. Chi viene scoperto dalla divinità finisce trasformato in un mostro orribile, immortale e destinato a dormire per svegliarsi di tanto in tanto sempre più affamato. E’ quanto accadde a una ragazza del paese, nonna o forse antenata del giovane Vinayak. Il ragazzo vive con il fratellino e la madre, emarginata in quanto senza marito, costretta a girare col capo rasato e a fare da serva al vecchio proprietario del fortilizio. Quando la donna torna a casa, deve provvedere alla ributtante vecchia imprigionata in una stanza della povera casa dove vive di stenti. Il ragazzo vuole sfuggire al suo destino di povertà, quindi fa di tutto per scoprire il segreto e vivere così una vita agiata…
La pellicola segue l’ascesa sociale di Vinayak, che riesce a concretizzare il suo sogno; disobbedendo alla promessa fatta alla madre, torna a Tumbbad e si fa rivelare dalla nonna il segreto.
Quanto avviene in seguito è la conseguenza diretta dell’avidità del giovane, in quanto non gli basta avere di che vivere modestamente, magari senza dover più lavorare; vuole i lussi e preferisce il rischio a una vita modesta. Gandhi libera l’India dagli Inglesi con la non violenza: dunque i sogni si possono avverare, anche quelli più proibiti. Vinayak pur disinteressandosi alla politica condivide il sogno di poter cambiare la sua condizione, e in fretta. I beni materiali non gli bastano mai, quando i soldi finiscono torna a tuffarsi nelle profondità del pozzo per recuperare qualche moneta d’oro e andare avanti. Arriva a coinvolgere il proprio socio e poi anche il figlio adolescente; quando poi esagera, il dio lo punisce…
La leggenda è inventata di sana pianta, non appartiene alla religione induista o alla tradizione orale, giustamente, poiché il problema non riguarda unicamente i popoli dell’India, ma è qualcosa che coinvolge parecchie società emergenti o capitalistiche. Hastar diviene la metafora dell’avidità e del consumismo, parte del processo di modernizzazione dell’Unione Indiana e di Nazioni che si sono meccanizzate prima. L’utopia sognata da Gandhi di vivere tutti decorosamente, senza soprusi o lussi effimeri lascia il passo al volere tutto e subito, non importa se a discapito di tanti, non importa se con mezzi eticamente discutibili. In India, negli ultimi cinquanta anni, c’è stata un’escalation analoga, un’industrializzazione che ha reso la società forse libera da ingiustizie sociali basate sulle caste o sul genere, sostituendo però nuove disuguaglianze dovute ai soldi, all’educazione e alla capacità di investire. Nel film è esemplificata dal dio dimenticato ma immortale, che contagia chiunque entri in contatto col suo potere. Il boom scoppia e lascia dietro le vittime, è una crescita incontrollata ben esemplificata anche da mezzi di trasporto usati dal protagonista.al carro tirato dai buoi o dalla barchetta a remi passa all’autobus sgangherato, poi alla moto, poi a un’auto di grossa cilindrata.
Ci sono ovviamente scene gore, ma non sono mai in primo piano: avviene qualcosa di analogo a quanto c’è nei film di Guillermo del Toro. La fantasia è un mezzo per riflettere sulla realtà, e le sequenze paurose sono tutto sommato poche per spaventare lo spettatore occidentale, abituato a pellicole ben più esplicite e basate su un montaggio frenetico. E’ soprattutto una storia di come un animo può corrompersi, narrata con un retroterra culturale insolito e con un messaggio che accomuna tutti. Di conseguenza gli effetti speciali sono mirati a rappresentare la mostruosità che si impossessa degli avidi, il grembo della terra simile a un cuore vivo e pulsante, non a fare paura attraverso trovate immediate. A differenza dei vecchi film realizzati a Bombay, quanto si vede è realizzato con estrema cura, la grafica digitale si integra con le trovate artigianali e mai ci sono momenti kitsch con divinità realizzate in plastica o trucchi dozzinali.
Il retaggio indiano semmai emerge dalla ciclicità degli eventi, dalla difficoltà di sfuggire a un destino solo in parte evitabile e destinato a ripetersi da una generazione all’altra.
Alcuni momenti sono accompagnati da canzoni di tipo tradizionale nelle melodie accompagnate da strumenti tipici, con un testo che esemplifica quanto sta accadendo al protagonista, come è tipico di Bollywood. Negli altri momenti la colonna sonora di Jesper Kyd and Mitesh Mirchandani ha partiture più tradizionali.
La fotografia è poi una gioia per l’occhio, tanto è curata ed efficace nel farci calare in quel mondo così lontano.
Tumbbad è una pellicola creata per essere accessibile anche oltre i confini dell’India; realizzata in tanti anni di ripensamenti, riscritture, modifiche, è interpretata da uno splendido e baffuto Sohum Shah e sicuramente può interessare quanti sono stanchi del solito horror ma cercano spettacoli di qualità.
Cuccussette vi ringrazia della lettura.
Questa recensione è stata edita su questo sito. Se la volete ospitare, contattatemi. Florian Capaldi su Facebook

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