IL FASCINO DELL' INSOLITO

Il fascino dell’insolito - Itinerari nella letteratura dal gotico alla fantascienza è una serie TV antologica trasmessa da RAI 1. Si compone di tre stagioni corrispondenti agli anni 1980, 1981 e 1982, per un totale di quattordici episodi da un’ora circa ciascuno. Ogni episodio traspone racconti di grandi autori di fantascienza e gotico, dando loro un’ambientazione moderna e spesso italiana. Era un po’ la moda del periodo, c’erano state produzioni analoghe come Racconti fantastici (1979) e Nella città vampira. Drammi gotici (1978). Negli anni Settanta  la televisione aveva ridotto almeno in parte la distanza che separava le produzioni da quelle cinematografiche e c’era una grande voglia di sperimentare soggetti diversi dal consueto racconto realistico. Erano nati piccoli capolavori caratterizzati dell’innovazione, dalla voglia di istruire e di divertire. Come in passato, erano prodotti che male si confrontavano con quanto si vedeva al cinema, però erano eventi mediatici, un intrattenimento che concludeva degnamente le serate. Il pubblico era attratto dal paranormale, dagli U.F.O, dal mistero e nonostante le realizzazioni risentissero della tradizione dei teleromanzi del decennio precedente, con la loro lentezza e col montaggio limitato all’indispensabile. A dar fiducia alle opinioni di quanti ricordano con piacere Belfagor che scorrazza nel Louvre o la mano insanguinata della Baronessa di Carini che si stampa sul muro candido, piacevano.
 Il fascino dell’insolito, pur essendo stato realizzato a partire dal 1980, ha caratteristiche tali da sembrare già molto datato al suo debutto, in quanto ha tutti i tratti tipici che hanno reso memorabili sceneggiati come Il Segno del Comando o L’amaro caso della Baronessa di Carini.
Il cast era composto da attori che avevano una grande esperienza teatrale alle spalle. Di conseguenza, le interpretazioni erano molto intense e sono apprezzabili anche oggi, a distanza di tanti anni, a patto di lasciare da parte preconcetti e guardare lo spettacolo come se fosse una piece da palcoscenico invece di un film.
La messa in scena nasconde male il fatto di essere stata allestita in studio, quando non avevano approfittato di luoghi storici già adatti alla vicenda narrata. Negli anni Sessanta e Settanta  la gente si accontentava delle scenografie di cartapesta: accettava l’artificio e voleva sospendere l’incredulità. Il teatro era antirealistico, si poteva vedere Amleto con in mano un foglio di carta appallottolata a fare da teschio e Orlando fiero su un cavallo fatto di bancali. Alla fine degli anni Ottanta però il teatro era in crisi e la gente andava facilmente al cinema a vedere spettacoli  del tutto diversi dai vecchi teleromanzi. Fossero anche state le pellicole più modeste, sembravano nuove e bellissime, mentre gli sceneggiati dai fini educativi, lenti, in bianco e nero rappresentavano il vecchiume, la muffa che tanto spiaceva ai giovani. Comprensibile che iniziassero a rifiutare le riprese in interni con tutti i loro artifici, figurarsi poi il bianco e nero.
La prima stagione del Fascino dell’Ignoto ha un sobrio, affascinante bianco e nero, e soltanto le successive sono a colori, per quanto spenti e polverosi.
Tutti gli episodi mantengono ritmi lenti e una finalità didattica esplicita, almeno in apparenza. Già il titolo lo dichiara, non è solo un ‘Il fascino dell’insolito’ che potrebbe suonare bene ieri come oggi; c’è quell’aggiunta ‘Itinerari nella letteratura dal gotico alla fantascienza’ pronta a ricordare che si tratta di testi di genere fantastico, però impegnati. Passato l’entusiasmo degli anni Sessanta e primi Settanta per l’utopia dell’insegnare divertendo, a inizio anni Ottanta sembrava sempre più un’antiquata proposta intellettualoide. La RAI però doveva mantenere la facciata di ente educativo, e quindi quell’aggiunta era necessaria.  In realtà la rassomiglianza tra pagina e pellicola spesso è labile e si riduce a poco più di un omaggio, con sceneggiature ispirate ai classici da cui si discostano fondendosi con il gusto contemporaneo. Per essere una serie da prima serata, ci sono momenti paurosi e sequenze drammatiche di forte impatto, rese ancora più coinvolgenti dalle belle interpretazioni.
La sigla iniziale, con una versione animata dell’Incubo di Fussli, e di opere di surrealisti, è raffinata ed elegante, degna di un prodotto che si concede solo in parte al gusto pop.
Dietro alla macchina da presa si sono alternati Giulio Questi, Enrico Colosimo, Mario Chiari, Fabio Piccioni, Paolo Poeti, Biagio Proietti, Andrea Frazzi, Antonio Frazzi e Massimo Manuelli, nomi ben noti negli ambienti televisivi e teatrali.
Ecco gli episodi.
LA MEZZATINTA è tratta da un racconto di Montague R. James, ed è stata realizzata da Biagio Proietti. Marco, un architetto dedito al recupero di palazzi nobiliari (Marco Fiorentini ) riceve un’incisione (la mezzatinta) con una villa vesuviana un tempo maestosa. Quando la fotografa che lavora per l’architetto scatta alcune foto, si accorgono che l’immagine cambia, compare una figura in nero. Marco crede che stia per accadere qualcosa di terribile nell’antica magione, ma il segreto è nel passato.
E’ una ghost story sui generis, con i ricordi ad essere fantasmi fissati in una stampa d’arte. L’atmosfera viene costruita lentamente, con lunghe carrellate nella villa deserta o nel parco, e splendidi  esterni ed interni d’epoca che trasmettono il senso della decadenza e del mistero. Gli interpreti sono giustamente espressivi e c’è una colonna sonora sospesa tra l’allora moderno progressive e influssi jazz suggestiva.

Il soggetto de LA STANZA NUMERO TREDICI è ancora una ghost story di Montague R. James, realizzata da Paolo Poeti. Un anziano professore (Tino Scotti) torna nella locanda dove aveva conosciuto la donna dei suoi sogni. L’aveva lasciata per studiare, perdendo i contatti poco a poco e ignorando la morte della giovane. L’albergo riserva anche sorprese: di notte si sentono canti , e la stanza in cui alloggia il vecchio ha una specchiera che mette in comunicazione con un’altra dimensione. Forse il professore può rimediare agli errori del passato.
E’ un episodio elegiaco, di grande suggestione, che fa della memoria una vera macchina del tempo e che rifugge da spiegazioni prosaiche. Riesce a osare quello  che Ovunque nel tempo non è riuscito a esprimere. Anche in questo caso, le interpretazioni magistrali del cast e le musiche folcloristiche sono vincenti, regalando un’ora di malinconica poesia.

 PICCOLO ASSASSINO di Stefano Calanchi deriva da un racconto d Ray Bradbury, trapiantato in una sconosciuta città italiana dalla mano di Stefano  Calanchi. David e Alice hanno avuto il primo figlio, ma c’è qualcosa nel pargolo che inquieta la mamma. Ha l’impressione che il neonato la odi. Il marito e i conoscenti credono che sia depressione post partum, invece è la rabbia di un’entità strappata ad un luogo beato per dover vivere in un mondo crudele. La creatura si vendica.
L’idea è suggestiva e sarebbe anche scioccante, la resa convince meno. Le inquadrature sono semplici, minimali, il montaggio avrebbe dovuto osare soluzioni alla Dario Argento e invece resta piatto. 
La recitazione dei pochi personaggi affidati a volti giovani e probabilmente meno esperti è decorosa: non c’è da attendersi una telenovela sudamericana ma nemmeno Lawrence Olivier.
La musica è un commento che sembra riempire buchi e si fa dimenticare. In un mare di situazioni gestite sotto tono, viene da chiedersi se c’è stata imperizia o se la censura ha guidato certe scelte poco felici.

VEGLIA AL MORTO nasce da un testo di Ambrose Bierce trasposto da Mario Chiari, maggiormente noto per le sue splendide scenografie di fama internazionale. Nella san Francisco di fine secolo tre medici organizzano una scommessa facendo restare una persona chiusa in una casa con un cadavere. La sfida viene raccolta da un giocatore d’azzardo, John Jarette. La veglia è un esperimento per vedere le reazioni e il cadavere è in realtà uno dei tre medici; le conseguenze sono però drammatiche. Qualche anno dopo, nella stessa casa, verrà rivelato cosa successe davvero. Nonostante  la palese artificiosità delle scenografie di polistirolo, dopo un avvio sonnacchioso c’è la parte della sfida vera e propria, e quella riesce a fare davvero paura. Il buio è il migliore effetto speciale , insieme alla colonna sonora ridotta rumori d’ambiente, scricchiolii, gemiti di infissi, gocce d’acqua che scendono dal lavandino. Il bravissimo Bruno Cozzari si muove nelle ombre e da solo vale la visione della puntata.

MIRIAM: probabilmente l’episodio di Biagio Proietti  su soggetto di Truman Capote è andato perduto, in ogni caso non è visionabile nei canali di streaming o sul sito della RAI, né acquistabile in DVD o pay per view. Difficile quindi poter dire come fosse, ne resta qualche frammento.

LA STRADA AL CHIAR DI LUNA di Ambrose Bierce rivisitato da Massimo Manuelli è, finalmente, il primo episodio a colori. Tranne il breve incipit e l’altrettanto breve epilogo, le immagini sono colorate, con sfumature spente e livide. C’è addirittura una scena di nudo integrale; a parte le grazie di Eva Axen, il tono della narrazione è piano, come nelle vecchie produzioni. La colonna sonora è inquietante, ossessiva e ben accompagna le fughe del protagonista.
Un manager stanco della moglie la lascia con la scusa di una riunione. Invece va in un albergo alla camera 22, e la chiama continuamente senza parlarle; quando torna la strangola. Siccome contemporaneamente è avvenuto un furto con scasso, la colpa va presumibilmente al ladro. Scappa in America, cambia nome, ma il fantasma è sempre lì e lo reclama.  Mario Valdemarin è piacente e funzionerebbe, se soltanto il regista e autore della sceneggiatura avesse dato maggiori spiegazioni del suo comportamento. Non sappiamo come mai la coppia è in crisi, o come si siano concluse le indagini. L’ignorare questi dettagli lascia un vuoto, pari solo a quello che c’è nell’indagine. Tanta vaghezza evita momenti prosaici, ma lascia troppe domande aperte.

LA CASA DELLA FOLLIA è ispirato da Richard Matheson e realizzato da Biagio Proietti.
Uno scrittore in crisi da anni, insegnante per necessità economica, addossa il suo fallimento professionale alla giovane moglie e su di lei riversa rabbia e odio. La casa pare percepire le emozioni e quando la moglie se ne va, l’equilibrio si spezza e iniziano ad accadere incidenti all’uomo, che scivola nel baratro.
Oltre alla forte prova attoriale di Luigi Pistilli, stavolta le scenografie sono davvero importanti, e pur nella loro semplicità, ci portano in un presente distopico e alienante. Sia nell’appartamento sia negli esterni si vedono murales con volti umani che spiano il protagonista, come se fosse lo sguardo del Grande Fratello orwelliano. Quel poco di ambiente esterno che si vede è spoglio, lineare, e la stessa compagna dello scrittore fissa lo schermo con lo stesso sguardo vacuo della moglie di Montag in Farehneit451. Le musiche di Gianni Mola sfruttano i Pink Floyd e composizioni per organo. Non è esattamente uno spettacolo multigenerazionale, adatto anche ai più giovani, ma un tempo su certi argomenti era lecito osare, primo su tutti l’incomunicabilità e il senso dei rapporti interpersonali.

IMPOSTORE di Andrea Fazzi trae origine da un racconto di Philip K. Dick. In un futuro non troppo lontano la Terra contrasta un’invasione aliena e tranne poche zone, è una landa radioattiva. Un robot sosia carico di esplosivo è stato sostituito ad uno scienziato che lavora alla difesa, si attiverà con una parola d’ordine sconosciuta. Il dottor Spence Olham è sospettato d’essere il robot. Viene catturato e dovrebbe venir fatto a pezzi, ma riesce a fuggire… L’idea è potenzialmente bella, purtroppo le scene d’azione erano fuori dalle corde dei registi italiani impegnati, e in parte lo sono rimaste. Forse avrebbe potuto dare il giusto ritmo un esperto di film mitologici, di polizieschi o spaghetti western, ma non un bravo regista di drammi a sfondo sociale come era Fazzi. Gli attori abilissimi in un teatro non è detto che abbiano anche delle decorose performances fisiche; Adalberto Maria Merli se la caverebbe, se non fosse per l’impostazione teatraleggiante e statica di una vicenda che avrebbe necessitato ben altro montaggio e maggior movimento nelle inquadrature.  Le scene della caccia all’uomo girate con i mezzi di un telefilm europeo sono invecchiate male. Le scenografie invece sono interessanti: si tratta di vecchie aree industriali abbandonate.

LA TORTURA DELLA SPERANZA, diretto da Mario Chiar nasce da Auguste de Villiers de L'Isle-Adam.
Un rabbino prigioniero da più di un anno degli Inquisitori spagnoli scopre di poter fuggire e percorre così le carceri, riflettendo sulla condizione umana.
E’ un episodio intimista, privo di elementi fantastici se non la riflessione filosofica sul senso della vita che esplode nello stupendo monologo in chiesa. Tutto si regge su tre modi di vedere la vita, quella del macilento rabbino, della strega, dell’Inquisitore. La vicenda vive dei lunghi monologhi di questi tre personaggi, ruoli affidati a solidi attori di teatro. Il rabbino è interpretato dal leggendario fondatore del Living Teather Julian Beck; l’Inquisitore è Bruno Corazzari, Piera Degli Esposti la strega.
La fotografia in questo caso è essenziale, poiché a parte il beffardo colpo di scena finale, la suggestione nasce dai contrasti tra luce ed ombra dove si nasconde lo sventurato ebreo. Più che giocare sulla suspance, imita Caravaggio e riesce a creare la giusta atmosfera grazie a locations particolari.

LA SCOPERTA DIMORNIEL MATAWAY è un episodio fantascientifico realizzato da Enrico Colosimo e basato su un’opera di William Tenn.
Nel 3487 d.C Glesco, un famoso critico d’arte pur di studiare le opere di Morniel Mataway, da tutti considerato un genio della pittura, utilizza la macchina del tempo per andare a conoscere di persona il pittore. L’artista è però un disgraziato che vive d’espedienti in un appartamentino a Roma, con una fidanzata che sogna di fare l’attrice. I quadri che dipinge sono croste orribili. La macchina del tempo deve sottostare a leggi implacabili, può essere usata una volta ogni cinquanta anni e il crononauta può restare nel passato per un tempo brevissimo. Con una scusa il vero pittore usa il macchinario e va a sostituirsi al critico. I due si scambieranno i ruoli…
E’ un episodio spassoso, nonostante un inizio un po’ lento appena la vicenda si avvia, i momenti comici ben dosati la rendono divertente ed attuale. Gli interpreti sono brillanti, dal pittore cialtrone (Franco Graziosi) alla fidanzata Mimì (Ivana Monti), a Glesco (Warner Bentivegna).
Ovviamente il linguaggio espressivo è quello di una sitcom stile Mork e Mindy, anche perché di effetti speciali non c’è nulla di più che qualche luce colorata e la bellissima villa con parco, museo nel futuro.
si ride come nella migliore commedia all’italiana, e c’è un messaggio profondo sul valore della critica d’arte e degli artisti veri. Glesco sostituitosi a Mataway avrà successo, non perché sia un genio, ma perché ne sa di più sul passato e dipinge immagini a lui familiari.

VAMPIRISMUS  è, come il titolo fa capire, un episodio horror; è stato diretto da Giulio Questi basandosi su un testo E. T. A. Hoffmann.
In piena Belle Epoque il conte Ippolito ospita la baronessa di Valobra in compagnia di sua figlia Aurelia, e di lei si innamora nonostante la madre sia stata processata per avere ospitato e amato un fuorilegge. Si sposano ma la bella ragazza inizia ad avere comportamenti bizzarri. Una notte nel  chiostro della dimora scopre la terribile verità…
Più che un omaggio a Hoffmann, che eccelleva nel creare atmosfere claustrofobiche, Questi pare ispirarsi al grande horror italiano degli anni Sessanta, quello di Bava. Cannibalismo, seni scoperti, qualche scena di sapore sado maso. Sembra impossibile che la tv nazionale abbia potuto osare tanto. L’erotismo è parte integrante e intrigante della vicenda, altrimenti di stampo molto teatrale. Le interpretazioni sono quelle che ci si può attendere sul palcoscenico, con voci molto impostate e scenografie abbastanza posticce.

LA COSA SULLA SOGLIA è tratto dall’omonimo racconto di H.P. Lovecraft, trasposto da Andrea e Antonio Frazzi. Un uomo rincontra un suo vecchio amico che ha sposato la chiacchierata figlia di un presunto stregone. La donna sembra posseduta, e poco a poco anche il marito non è lo stesso.
Portare Lovecraft sullo schermo è una vera sfida, poiché le entità descritte sfuggono alle concretizzazioni dell’arte cinematografica: qualcosa si deve pur vedere  e magari non ci sono i mezzi adeguati, oppure si mostra fin troppo, demolendo il mistero. L’episodio però non sfigura, forse proprio grazie all’estrema povertà che ha impedito l’uso di trucchi rozzi e ha obbligato gli sceneggiatori a sfruttare tutte le strategie per fare paura. Lo spettatore ha da attendere un po’, prima d’aver soddisfazione:  la prima parte con le vicende dei due amici, le crisi e la misteriosa moglie può scoraggiare. Il ritmo è quello lento dei vecchi sceneggiati, girati in set allestiti in pochi ambienti oppure in teatri di posa. Massimo Ghini è un convincente Daniel Upton e Mattia Sbragia si destreggia abilmente nelle possessioni di Edward Derby. A due terzi della narrazione si viene ricompensati della tanta pazienza. Le sequenze dell’esplorazione notturna della casa, accompagnate dal suono di un cuore che batte, sono molto intense.

LA SPECIALITA’ DELLA CASA, diretto da Augusto Zucchi e basato su un racconto di Stanley Ellin è un weird ricco di humor nero.
‘Sbirro’ è un ristorante per ricchi salutisti, che fanno del cibo un piacere epicureo in senso filosofico: non è un posto per abbuffate, ma un club per pochi eletti che bevono semplice acqua e degustano piatti sconditi a menù fisso. Ogni tanto c’è la specialità della Casa, un piatto di carne di un animale misterioso. Il dirigente di una ditta specializzata in pollame introduce in quell’ambiente un suo dipendente. Per molto tempo cenano insieme, poi il giovane scopre ricetta e decide di sfruttarla su base industriale.
L’humor macabro e il senso del grottesco sono quanto trasforma un tema altrimenti ributtante in un piccolo capolavoro. Senza effetti speciali, con un allestimento teatrale e attori di grande abilità, è un piccolo classico dimenticato che ci ricorda quando la tv davvero osava violare i tabù e lo faceva con classe!

CASTIGO SENZA DELITTO traspone un racconto di Ray Bradbury; è stato diretto da Fabio Piccioni e ha tra gli interpreti il bravissimo Arnoldo Foà, che domina la scena.
In un futuro distopico ci sono persone che possono sfogare il loro odio represso su androidi dalle sembianze analoghe a quelle della persona odiata. Per diecimila dollari l’agenzia Anonima Robot  permette a George Hill, marito cornuto non più giovane e poco attraente, di coronare il sogno di uccidere la moglie assai più giovane di lui che lo ha lasciato per un uomo prestante. Il delitto si consuma ma Hill viene condannato a morte lo stesso, perché da poco gli androidi hanno visto riconoscersi i diritti delle persone.
E’ una mesta parabola sulla natura umana, incline alla violenza nonostante il benessere e insidiata dai robot capaci di riprodurre non solo l’esteriorità, ma anche le capacità cognitive e affettive.  

 

Come tutte le serie antologiche alcuni episodi sono riusciti meglio di altri, alcuni restano attualissimi altri appaiono datati. Ad accumunare tutti, la presenza di attori validi, un tono irrimediabilmente più adatto al teatro che al cinema, un’ottima selezione musicale che varia dal progressive al jazz allo sperimentale fino al folk sefradita, transilvano, sudamericano...
Pur essendo giunta in ritardo sulla moda, a distanza d’anni la serie riesce a regalare ancora emozioni, a patto che si ami il teatro e si sappia apprezzare una maniera di far paura basata sul suscitare timori ancestrali piuttosto che affidarsi ai miracoli della grafica digitale. Proprio per queste caratteristiche, unite al fatto che non è stata un fenomeno di costume o una novità, purtroppo non è stata edita in DVD.

 

Cuccussette vi ringrazia della lettura.

La recensione è stata edita su questo sito nel 2023. Vuoi adottarla? Contattami su Facebook, sono Florian Capaldi !

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