LA CHIAVE MAGICA

 

La chiave magica (The Indian in the Cupboard), diretto nel 1995 da Frank Oz, già regista del coraggioso e sperimentale Dark Crystal (fantasy ‘interpretato’ da sofisticati pupazzi animati), è un film apparentemente destinato all’infanzia.

Il protagonista è Omri (Hal Scardino), un ragazzino che ha ricevuto alcuni regali insoliti per il suo nono compleanno. In particolare, l’amico Patrick gli ha donato un indiano di plastica, e il fratello un vecchio armadietto di legno del tipo usato per contenere medicinali, recuperato chissà dove. Di quest’ultimo manca la chiave, ma la madre del bambino provvede a trovargliene una tra quelle che colleziona.

Presto Omri scopre la bizzarra magia dell’armadietto (o della chiave stessa): qualsiasi oggetto di plastica riposto al suo interno prende vita quando estratto. È ciò che accade all’indiano: lo stupefatto ragazzino si ritrova davanti Piccolo Orso (interpretato dal rapper cherokee Litefoot), un Irochese vissuto nel Settecento, all’epoca delle guerre contro i Francesi.

La scoperta complica la vita di Omri, il quale deve ora provvedere alle necessità del minuscolo amico, evitare che gli adulti si accorgano di quanto sta accadendo, moderare le pretese dell’egocentrico Patrick (Rishi Bhat, oggi esperto informatico)… Quest’ultimo non esita a usare la magia dell’armadietto per animare un cowboy. Proprio la difficile convivenza tra indiano e cowboy cambierà radicalmente la visione della vita da parte di Omri.

La vicenda assomiglia alle consuete parabole sulla crescita (Elliot, il drago invisibile, E.T., Mary Poppins, Bogus…), dove amici immaginari o personaggi insoliti accompagnano il cammino verso l’età adulta, con prevedibile separazione finale. Ma non si tratta di una scialba variante sul tema ormai sovra sfruttato del racconto di formazione.

Sceneggiato da Melissa Mathison già autrice di E.T., per alcuni aspetti La chiave magica è superiore al cult di Steven Spielberg, rispetto al quale mette da parte la spettacolarità, o piuttosto vi ricorre per affrontare riflessioni più mature. Le avventure del piccolo extraterrestre colpivano per la raffinatezza tecnica, per le soluzioni narrative, per gli effetti speciali di Carlo Rambaldi (straordinari per il 1982), per l’introspezione affidata a elementi concreti, alle poche battute dell’indifeso alieno, agli sguardi dei suoi amici terrestri. La chiave magica affronta temi analoghi, ma sviluppandoli in maniera diametralmente opposta. La narrazione ha un ritmo più lento, i virtuosismi tecnici si limitano a poche trovate non appariscenti. L’alieno è stavolta un uomo di un’altra cultura, viene evocato da una magia innescata volontariamente e può comunicare nella lingua del suo ‘creatore’. Gli effetti speciali restano anche qui importanti ma le immagini non si sostituiscono alle battute e tutto ruota attorno all’interiorità dei personaggi.

Sulla pellicola di Oz aleggia un sentimento di malinconia raramente esplorato dai film per ragazzi; è lo stesso senso di dolorosa mortalità che grava sull’universo fantasy di Dark Crystal, dove i personaggi positivi si sacrificano per far scomparire le loro controparti malvagie e garantire l’equilibrio all’universo.

Piccolo Orso e il cowboy Boone vivono il dramma del trovarsi sradicati dal proprio mondo, soli e indifesi davanti a una realtà che non riescono a capire, sottomessi ai capricci di un bambino. Sulle prime, l’Irochese pensa che Omri sia il Grande Spirito, poi capisce, e la disperazione aumenta; anche perché nella sua cultura i piccoli vengono educati precocemente alla responsabilità e alla consapevolezza delle proprie azioni. La stregoneria, per un nativo americano, non è un gioco da prendersi alla leggera, né un mezzo per procurarsi vantaggi senza faticare. Omri invece conduce i suoi esperimenti magici con superficialità, senza una guida, senza il senso spirituale del contatto col divino. Le trasformazioni che avvengono nel piccolo armadio producono anche dolore, tanto che un indiano animato con lo scopo di recuperare un arco finisce per morire di infarto alla vista del bambino. Boone, dal canto suo, è abbattuto almeno quanto Piccolo Orso. Era un cowboy codardo e ubriacone, poco incline all’igiene, che tra un whisky e l’altro sognava sparatorie e scorribande nel West. Ora la cruda realtà lo mette davanti a un avvenire ancor più miserevole, fatto di galoppate sulla moquette e di oggetti sconosciuti potenzialmente letali, sottomesso inoltre ai capricci di un ragazzo immaturo che gioca a sentirsi una divinità.

In altre pellicole che hanno per protagonisti giocattoli fuori moda, come Toy Story (1995), la malinconia è stemperata dal fatto che i personaggi sono consapevoli d’essere balocchi, e le gag da slapstick comedy sminuiscono i momenti più cupi. Piccolo Orso e Boone invece conservano ricordi nitidi di esistenze reali (quella dell’indiano segnata anche da eventi tragici, come la perdita di moglie e figlio). Entrambi vorrebbero una donna al fianco, capendo però che il desiderio è ingiusto: costringerebbero un’altra disgraziata creatura a condividere la loro sorte infelice. Quando poi viene smarrita la chiave miracolosa, ogni speranza di poter ritornare al loro mondo si frantuma.

La tragicità non è alleviata dall’umorismo come nella saga di Tesoro mi si sono ristretti i ragazzi (Honey, I Shrunk the Kids, 1989), o da momenti avventurosi degni del vecchio telefilm La terra dei giganti (Land of the Giants, 1968), né da una profusione di effetti speciali, anche se i trucchi ci sono, convincenti per le possibilità tecniche del 1995, e sempre funzionali alla storia. Il bluescreen trova largo impiego quando si tratta di affiancare il bambino all’adulto in miniatura. Gli effetti tuttavia possono sorprendere per i primi dieci minuti, dopodiché ci si rende conto che la loro funzione non è promuovere un crescendo di trovate spettacolari. Sono l’introspezione e le riflessioni, anche quelle più dolorose, a prendere il sopravvento.

La pellicola affronta il tema della morte e il valore della memoria, avvicinandosi all’argomento con delicatezza. La chiave è stata donata dalla nonna al nipote prima del trapasso; l’armadietto non può resuscitare il povero indiano; il bambino si trova a dover sacrificare un cervo per permettere al dignitoso Irochese di poter procurarsi il cibo con le proprie forze; Boone rischia di morire quando viene trafitto da una freccia durante la visione di un western… La stessa magia dell’armadietto è innescata dalla chiave, ricordo tangibile di un familiare che non c’è più. C’è insomma un senso di irreparabilità che allontana immediatamente la vicenda dagli stereotipi delle storie per preadolescenti, farcite di magiche resurrezioni e di miracoli laici dispensati a piene mani. L’unica resurrezione certa è quella affidata alla forza del ricordo, con la memoria a far sentire vicini gli antenati e a rievocare i momenti più belli.

Nei film per ragazzi l’infanzia spesso viene ritratta come un’età dell’oro; ne La chiave magica viene raccontata con realismo. Diversamente da Patrick, viziato, prepotente ed egoista, che solo alla fine acquista un barlume di consapevolezza, il sensibile Omri matura molto grazie all’amicizia con Piccolo Orso. A poco a poco il bambino si confronta con una cultura diversa dalla propria e per alcuni aspetti decisamente superiore, e ne esce cambiato. Viene rivolta un’accusa al sistema educativo contemporaneo, pronto a soddisfare qualsiasi esigenza materiale dei giovanissimi ma deficitario quando invece si tratta di dare loro responsabilità, di renderli realmente maturi: la disarmonia si tocca con mano. Né la scuola pare dare rilievo agli aspetti realmente formativi della persona: i testi liberi letti dai bambini appaiono conformisti, e anche la didattica, ispirata al pedagogista Dewey, può fraintendere i talenti degli alunni, oppure scoprirli tardivamente.

Il confronto tra culture è un altro tema portante della pellicola, trattato con rispetto e senza troppi buonismi. L’Irochese è fiero della propria origine, chiede di potersi costruire una ‘casa lunga’, ovvero una capanna destinata a ospitare il clan; non vuole vivere in un tepee come usavano altre tribù nei periodi di caccia. Supplica il bambino perché questi gli procuri arnesi, in modo da cacciare; non vuole essere accudito come un raro balocco, sfamato come un animale domestico. Appare consapevole dei danni prodotti dall’arrivo della civiltà europea, irrispettosa nei confronti dell’ambiente, pronta a sfruttare i più deboli, a spedire gli Irochesi in prima linea al proprio posto. Perfino Boone dovrà ricredersi davanti alla dignità estrema dimostrata dal nativo americano, e abbandonare le proprie convinzioni, almeno in parte.

Un’altra aspra critica è rivolta alla televisione, o piuttosto al suo uso indiscriminato. La visione di qualche sequenza di una battaglia tra indiani e coloni, probabilmente tratta dal film dedicato allo sciamano e condottiero ‘Geronimo’ Goyatlay, riaccende il conflitto tra l’Irochese e il cowboy, con conseguenze drammatiche. Il cinema e la televisione non sono mezzi asettici, o surrogati di babysitter per genitori presi dal lavoro, suggerisce indirettamente la pellicola. Possono essere strumenti didattici per i bambini (specie se coadiuvati dalla presenza responsabile di un adulto), ma anche creare o consolidare pregiudizi, istigare all’odio etnico.

Proprio per queste ragioni La chiave magica è fedele solo in parte alla serie di romanzi da cui è tratto, creati a partire dal 1980 dalla penna della britannica Lynne Reid Banks. La rivisitazione tende soprattutto a eliminare alcuni stereotipi sugli Indiani d’America, e reinterpreta in chiave critica i comportamenti dell’uomo bianco, il suo atteggiamento aggressivo oppure paternalistico espresso nei confronti delle altre culture. Si tratta di un tradimento rispetto alle pagine, ma necessario. Lo spettatore degli anni 90 è consapevole del genocidio perpetrato oltre oceano: gli studiosi danno per certa la morte di almeno diciotto milioni di nativi, limitandosi alle sole culture del Nord America. Sarebbe stato ridicolo riproporre Piccolo Orso seguendo gli stereotipi dei vecchi film western, diretti da bianchi per un pubblico bianco, offuscato da pregiudizi razzisti e da un’ignoranza abissale riguardo al proprio passato.

Sotto l’aspetto di un’innocua pellicola per famiglie, Frank Oz contrabbanda riflessioni profonde, destinate soprattutto a quanti, ormai adulti, amano ancora volare con la fantasia, in modo intelligente, rifiutando l’idea del fantasy come una facile mera fuga dalla realtà.

 

 

 

Cuccussette vi ringrazia della lettura

Questa recensione è stata edita su TERRE DI CONFINE https://www.terrediconfine.eu/la-chiave-magica/

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