SIGNS

Bucks County, Pennsylvania, è uno dei tanti paesini dell’America rurale: un pugno di case disposte lungo la via principale, qualche negozio che vende un po’ di tutto, la stazione di polizia, e campi coltivati a mais, a perdita d’occhio, interrotti da occasionali abitazioni.

In una di queste grandi fattorie vive l’ex pastore Graham Hess, da pochi mesi vedovo, con i figli Morgan e Bo, ed il fratello Merril.

Una notte, i ragazzi vengono svegliati dall’abbaiare furioso dei cani; esplorando i dintorni, trovano il granoturco schiacciato e piegato in modo innaturale a formare una serie di disegni circolari ben visibili dall’alto, detti “crop circles”. È un fenomeno noto fin dagli anni Settanta, inspiegabile, attribuito di volta in volta a scherzi di buontemponi, alla sperimentazione in gran segreto di armi e velivoli, al magnetismo terrestre, ad atterraggi di astronavi aliene…

Graham, che in seguito alla tragica morte della moglie ha perso la fede ed è portato a negare qualsiasi manifestazione sovrannaturale, rincorre una possibile spiegazione razionale. Pensa così ad una bravata di alcuni turbolenti vicini e chiama la polizia.

L’agente che si incarica di svolgere l’indagine dubita però della colpevolezza dei balordi locali: li conosce, e li ritiene troppo rozzi perché possano aver architettato uno scherzo così elaborato. Tanto più che i sospettati hanno alibi dimostrabili, mentre la testimonianza dell’ex pastore appare troppo confusa.

La ricostruzione lascia tanti punti oscuri e le circostanze non sembrano poter suggerire ipotesi plausibili.

Intanto gli strani eventi continuano a susseguirsi, attorno al campo di Graham e nelle vicine fattorie. Gli animali impazziscono, la gente è inquieta, si odono fruscii e s’intravedono movimenti sospetti nei campi di granturco… Inoltre i disegni nel grano appaiono in diverse Nazioni, e bizzarri suoni giungono tramite le frequenze dei walkie talkie.

È sempre più difficile poter dare la colpa a “trentenni che non hanno una ragazza”, a “spostati” in cerca di notorietà.

Graham cerca di mantenere la sua famiglia quanto più lontana possibile dalle preoccupazioni, stacca perfino radio e televisore. Tuttavia sono precauzioni inutili, quanto sta accadendo in tutto il mondo è di portata troppo vasta per poter essere ignorato.

Le tv mostrano a reti unificate le luci di velivoli sconosciuti, sospesi su Città del Messico, poi su Nairobi, su Gerusalemme… Le sagome distinguibili nel cielo buio si fanno invisibili alla luce del giorno, ma sono sempre lì, tanto che gli uccelli in volo non scorgendole ci si schiantano contro. Le “piccole occupazioni quotidiane, la miglior medicina” non bastano più a distogliere la mente.

Morgan e Bo ascoltano gli strani segnali del loro walkie talkie, e studiano con accanimento un libro sugli extraterrestri, capitato per errore nella piccola libreria locale e acquistato da Morgan. Si tratta di un testo pieno di notizie scritte da “scienziati perseguitati per le loro convinzioni” – o da ciarlatani “disoccupati”, come suggerisce il senso comune per bocca di Graham.

Merril asseconda i piccoli, sia per aiutarli a convivere con la paura dell’ignoto, sia perché è convinto dell’origine sovrannaturale di ciò che sta capitando.

L’ex sacerdote continua invece a rifiutare l’evidenza, e si aggira nel campo a notte inoltrata, armato di torcia e scetticismo. Riesce così a scorgere una gamba esile e verde che si rintana tra il fogliame, nel buio. Sembra un arto del medesimo genere di creatura che un Brasiliano è riuscito a immortalare in una ripresa amatoriale del compleanno del figlioletto.

Appare chiaro a quel punto che gli alieni esistono davvero, e che i cerchi nel grano sono segnali indirizzati alle astronavi per organizzare un’invasione che… “è come la Guerra dei Mondi”! Le notizie riportate da certa stampa New Age riguardo a ipotetiche invasioni aliene hanno dopo tutto la loro parte di ragione: a Graham non resta che riconoscere l’esistenza di realtà che l’uomo non può spiegare ricorrendo unicamente ai sensi o alla scienza. Addirittura si fa vivo l’uomo responsabile dell’incidente in cui morì la moglie del pastore. In una conversazione dal sapore di confessione, durante la quale chiede perdono a Graham, rivela di aver imprigionato in casa propria una delle creature aliene e suggerisce l’arma risolutiva: sta partendo per il lago, poiché si è accorto che i crop circles sono sempre apparsi lontano dalle distese d’acqua, e quindi ritiene che gli alieni temano quell’elemento.

Perplesso, ma già incrinato nel suo rigido scetticismo, l’ex sacerdote fa ritorno alla fattoria. Là si barrica nella cantina insieme alla famiglia, che ha deciso di non abbandonare la casa dove è sempre vissuta. Finale pieno di suspance e di cambiamento interiore.

LA FACCIA TRISTE DELL’ AMERICA

La genialità della cinematografia di M. NIGHT SHYAMALAN si esprime al meglio nella fusione tra sceneggiature impeccabili e di impianto classico, virtuosismi narrativi, e creatività sfrenata. Trame in apparenza semplici vengono attualizzate, attraverso un attento riutilizzo degli elementi più significativi. Essi vengono riproposti sfruttando sempre un punto di vista alternativo a quello che lo spettatore si aspetterebbe. La cronaca di un’invasione aliena, tema caro alla Fantascienza degli anni Cinquanta e Sessanta, prende nuovamente vita. O piuttosto, si reincarna, poiché la tentazione di un facile revival tecnologico è scartata con decisione, e la vicenda viene trasformata in un’occasione per una riflessione metafisica.

Lo scontro con l’extraterrestre non viene più narrato dal solito scienziato sicuro delle conquiste del proprio sapere, dal militare che non deve chiedere mai, dal medico generoso fino all’eroismo, o da immancabili rassicuranti belle signorine della porta accanto. Dimentichiamo pure questi personaggi tradizionali, insieme a tutto il chiassoso repertorio di dischi volanti, raggi laser, omini verdi e mostri giganti.

I protagonisti di Signs narrano gli eventi con il loro sguardo di stralunati anti eroi di un’America rurale, lontana dagli stereotipi di Hollywood o del cinema di genere, quasi che fossero essi stessi alieni. Assomigliano all’umanità ritratta in Una storia vera; stavolta i problemi economici paiono lontani, mentre le angosce esistenziali sono rimosse ma pronte a riaffiorare nel momento della difficoltà. Sotto l’apparenza di normalità, i personaggi celano manie, tic, sensi di colpa; “fan finta di essere sani”. Tutti, invariabilmente, turbano e inquietano, forse perché ci assomigliano un po’, come il riflesso distorto da uno specchio in un baraccone al Luna Park.

Padre “non chiamarmi Padre” Graham è un ex pastore a cui la drammatica morte della moglie ha portato via la fede e l’amore per il divino. Respinge qualsiasi fenomeno che non riesca a spiegare con la ragione.

Merril, il fratello, è un bravo ragazzo di paese, un puro di cuore cresciuto a baseball e giochi all’aria aperta, pronto a vivere ogni coincidenza come un miracolo.

I figli sono figure segnate dalla prematura morte della madre e da doti insolite. Morgan è un ragazzino fin troppo intelligente e sensibile, che si occupa della sorellina con premura; forse perché sofferente d’asma, ha sostituito i giochi più rudi con la lettura, che l’ha reso istruito. Spesso risulta antipatico proprio perché anticipa le affermazioni degli adulti con toni da primo della classe, salvo poi trasformarsi da secchione in malato, divenendo elemento di tensione, nel concitato epilogo.

Bo ha premonizioni e fa strani sogni, crede che l’acqua sia contaminata, ricorderà per certi versi Sadako-Samara del cult Ringu.

La gente del paese in un primo tempo è presa dalle piccole manie quotidiane, poi vive l’invasione aliena come l’avverarsi dell’Apocalisse.

L’agente di polizia è comprensiva e affabile; oscilla tra il pragmatismo e la voglia di credere, tra mentalità moderna e tradizionalismo. I lunghi sguardi che lancia all’ex pastore suggeriscono che tra i due ci fosse un sentimento radicato, benché nessuno ci espliciti completamente la natura del rapporto. È amore? Amicizia coltivata sui banchi di scuola? Parentela? Frequentazione della parrocchia? Sappiamo solo che è stata lei a fare il sopralluogo dell’incidente e ad accompagnare il reverendo all’estremo congedo dalla moglie. D’altra parte, Signs non è un film sull’amore tra un uomo e una donna, e divagazioni in tale senso l’avrebbero trasformato in un superficiale data movie.

Più enigmatico è Ray, strumento della Provvidenza, l’uomo che involontariamente uccide la moglie del pastore e lo priva della fede, ma fornendogli poi la salvezza dalla minaccia aliena.

Cambiano gli ambienti che fanno da sfondo alle vicende, perdono il carattere rassicurante tipico della Fantascienza anni Cinquanta. È una scelta che va oltre l’innovazione scenografica e ben asseconda la mentalità dei personaggi. Bucks County è distante solo poche decine di miglia dalla metropoli, eppure sembra un altro pianeta. La vita scorre lenta, gli svaghi sono semplici, i criminali al massimo sono buontemponi che alzano il gomito o inviperite vecchiette che sputano sugli skateboard; tutti si conoscono e in qualche maniera si tollerano reciprocamente, mentre il benessere si esprime in enormi fuoristrada che conducono i cittadini verso un altrove.

Gli abitanti del paese appartengono ad una realtà sociale assai lontana dalla nostra e dall’idea che abbiamo degli USA. Spesso i film d’oltreoceano ritraggono città ultramoderne, forse violente ma luccicanti di neon e di altissimi grattacieli, o di ville lussuose. Oppure si rifugiano nel ricordo mitizzato del West della frontiera, e nei grandi spazi sconfinati.

Gli ambienti della provincia americana, poco frequentati dalle cineprese, fanno da sfondo all’allucinata quotidianità degli spaesati personaggi di Signs. Le citazioni volute o inconsapevoli contribuiscono ad aumentare il senso di angoscia: Bucks County non è il ridente villaggio dell’infanzia di Superman, il campo di mais riporta alla memoria Grano Rosso Sangue, l’austera fattoria rammenta certe case descritte da STEPHEN KING, la caccia alla misteriosa presenza ammicca al bellissimo incipit di E.T. L’Extraterrestre. Graham vive in una casa colonica, eppure l’edificio ha interni cupi, degni di Piano piano dolce Carlotta, e, già prima di divenire teatro dell’assedio, trasmette un senso di claustrofobia, analogo a quello provocato dalle lunghe carrellate tra il granturco cresciuto, assai più alto di una persona adulta.

La cantina non può che ricordare GEORGE ROMERO e la sua filmografia sui morti viventi; di certo STEVEN SPIELBERG deve essersi ispirato a quelle sequenze drammatiche per la sua cantina ne La Guerra dei Mondi.

Neppure il cielo si salva dal generale senso d’inquietudine, percorso com’è da strane voci che parlano una lingua sconosciuta, ingombrato da misteriose masse invisibili, e dagli uccelli che impazziti lo percorrono senza più orientamento.

IL VANGELO SECONDO ALFRED HITCHCOCK

Sorprende piacevolmente il modo di creare tensione usato dal regista, che s’ispira direttamente ad ALFRED HITCHCOCK. Ne rielabora lo stile in forma personale e introspettiva, oltre a citare esplicitamente Gli Uccelli – per il comportamento anomalo degli animali, per la stanza dalle finestre sbarrate da assi, per i dialoghi in paese. Tanto è reverente l’affetto di M. NIGHT SHYAMALAN per il “Maestro del Brivido”, da imitarlo nell’abitudine di ritagliarsi sempre un’apparizione nelle proprie pellicole. In questo caso, interpreta l’uomo che ha investito la moglie del protagonista, e che diviene, anche nella finzione, regista delle vicende umane dei personaggi. E come si può vedere, è giovanissimo!

Fin dalla prima inquadratura, quella che ci mostra la foto di famiglia di Graham, si avverte che il modo di comunicare con lo spettatore è diverso da quello stereotipato di certa cinematografia horror. Nel giro di un paio di minuti di proiezione ci vengono trasmesse tantissime informazioni sui protagonisti, molte più di quante non avrebbero comunicato i dialoghi. Tutta la pellicola procede con l’accumulare dettagli sull’ambiente e sui comportamenti; talvolta la mancanza di qualche particolare viene evidenziata (come l’alone del crocifisso rimosso dalla parete), suscitando domande in chi osserva.

A poco a poco lo spettatore provvede ad elaborare con la sua immaginazione i dati che gli giungono dalle immagini. Nessun fotogramma è superfluo, ogni inquadratura è funzionale per suggerire un’interpretazione degli eventi, un’atmosfera. Gli stessi sentimenti dei personaggi sono espressi dal dialogo ed ancor meglio dalle immagini. Una certa lentezza è obbligatoria per poter innescare questo meccanismo di coinvolgimento emotivo: la velocità è lasciata alle concitate scene d’azione.

Oggi parecchi registi credono di poter far fare i salti sulle poltroncine ricorrendo a effetti speciali elaborati e iperrealisti, e a scene truculente, montate con ritmo indiavolato per tutta la durata del film, meglio se con l’accompagnamento di buona dose di hard rock. Quasi sempre, l’esito di tanti sforzi accontenta solo i più giovani, anche perché troppo spesso i prodigi tecnici tendono a sostituirsi alla sceneggiatura, piuttosto che inserirvisi quando è indispensabile. Signs dimostra come la vera suspance nasca e cresca in ben altra maniera. La tensione si origina dai personaggi stessi, e dalla loro complessa psicologia; dalla sceneggiatura sempre solida, dagli ambienti, così claustrofobici, dalla colonna sonora che rende al massimo il senso di angoscia. Occorre far leva su motivazioni universalmente valide: il buio, i passi e i rumori della creatura nascosta, i latrati, la presenza indeterminata ed ostile, il senso della perdita, la disperazione, le troppe incertezze e l’attesa di chiarimenti. Ingredienti validi oggi come lo erano cinquant’anni fa, tanto più che gli effetti speciali sono limitati al minimo e quindi poco risentiranno delle future evoluzioni tecniche.

Le astronavi sono solo luci bianche raggruppate nel cielo buio; di giorno scompaiono. L’alieno non viene mai esibito. Viene percepito, fatto immaginare. Se ne intravede una gamba che sguscia tra il fogliame, nel campo di Graham. Alla televisione c’è il video amatoriale brasiliano: breve e sfocato, volutamente simile alle migliaia di filmati di compleanni girati in famiglia; in esso, l’extraterrestre è un umanoide magro, che attraversa una strada. L’esemplare catturato da Ray è rinchiuso in una stanza e se ne scorgono le dita tagliate dal coltello di Graham.

Tutta la sequenza dell’attacco alla cantina è un crescendo di tensione, e così lo scontro ravvicinato tra Merril e la creatura. Finalmente vediamo l’extraterrestre per intero: ma invece di averlo davanti descritto con insistenza nei minimi dettagli, lo scorgiamo riflesso nel monitor della tv, nel vetro del bicchiere colmo di acqua, in penombra, in controluce, da lontano… La nostra fantasia provvede ad aggiungere i dettagli!

IO VOGLIO CREDERE?!

Niente è quello che appare, nei film di M. NIGHT SHYAMALAN.

Signs è senza dubbio una film pellicola atipica, che può lasciare perplessi proprio perché i suoi maggiori pregi possono apparire come altrettanti difetti. Pur trattando di un’invasione aliena, Signs è in realtà uno stimolo alla riflessione sul rapporto tra l’uomo e la divinità, o piuttosto, tra l’uomo e la sua voglia di credere a quanto va oltre i suoi sensi.

Il protagonista è un sacerdote, figura di riferimento per la piccola comunità, interpretato da un parecchio invecchiato MEL GIBSON. Viene preso in esame il culto cristiano protestante, poiché è tipico dagli USA; consente che il ministro di culto sia sposato, e quindi permette lo svolgersi del dramma umano del personaggio. La tragica separazione dalla giovane moglie ha un impatto emotivo assai più forte rispetto alla perdita di un parente stretto, o di un amico di vecchia data. Il dibattito coinvolge tutto il genere umano, e lo divide in due nette metà. Ci sono persone che credono solo a quello che possono vedere, considerano gli eventi favorevoli come altrettante coincidenze fortunate, si credono moderne e razionali, non perdono tempo a pregare. E ci sono gli altri, quelli che credono nel divino oppure si sentono piccoli rispetto ai misteri dell’esistenza; sono pronti a voler credere, alla verità religiosa oppure a quella del possibilismo scientifico. Tutta la pellicola alterna la contrapposizione delle due maniere di concepire la vita, risolvendosi poi in un recupero della fede da parte del protagonista.

Si può obiettare riguardo alla profondità di un Credo che si nutre di miracoli e che tutto misura secondo premi e punizioni.

Il reverendo Graham viene messo a dura prova dalla vita, tanto che il suo rapporto con il sovrannaturale oscilla tra l’amore e l’odio a seconda di quello che gli succede. La gente si ricorda di Dio quando teme l’Apocalisse, come se il Creatore-Padre dovesse dispensar sculaccioni o caramelle a seconda di come si comporta la creatura-figlio. Una fede forse un po’ infantile, che ben lega col piccolo mondo puritano della provincia americana: lo stesso universo dove, in dosi variabili, convivono fondamentalismi cristiani, sette, predicatori esaltati dalla buona fede oppure dalle offerte dei fedeli, Ku-Klux-Klan, ed una modernità fatta di saggi di danza e gite al centro commerciale, di tv via cavo e Internet, di grosse automobili. Graham Hess appartiene a quell’ambiente ed è naturale che la pensi secondo la mentalità comune; non fosse per quell’incidente, così crudele da cambiare una vita.

Quanto accade alla moglie del sacerdote è uno scherzo crudele della Provvidenza (o meglio, della provvida sventura di manzoniana memoria), forse narrato insistendo troppo nei particolari più strappalacrime. Sembrerebbe un’impossibile trovata da melodramma, se non fosse che il regista è figlio di medici, e laureato in medicina a sua volta. Con una simile preparazione alla spalle, è affidabile come esperto di casi legali, ed è acuto conoscitore delle reazioni umane in situazioni estreme, più del grosso degli autori di detective story o thriller.

Le coincidenze – o miracoli ? – la fanno da padrone, al punto che è quasi impossibile apprezzare il film se si vuole evitare di mettersi in discussione. Occorre maturità per astrarre dai fatti narrati (ovviamente improbabili, ed esemplari quanto una parabola) l’universalità della sfida del credere. Può non essere facile accettare che coesistano diversi segnali del sovrannaturale, stimoli che coinvolgono persone di epoche, religioni e culture distanti.

I “Segni” sono molteplici, laici o confessionali: la piccola Bo con i suoi brutti sogni e il suo tic per l’acqua, che crede contaminata; le tracce nel grano; le ultime parole della signora Hess… Sacro e profano si mescolano in una fusione che lascia spazio a tutte le varie sfumature di quel “I want to belive” che tanto piaceva a Fox Mulder, l’investigatore del telefilm X-Files.

Anche un ateo o un agnostico possono credere, o perlomeno non negare quanto va oltre quello che i sensi mostrano. Tra gli scienziati troviamo laici come Rita Levi Montalcini, e credenti come Antonino Zichichi: ennesima dimostrazione che “non esiste alcuna scoperta scientifica che possa essere usata al fine di mettere in dubbio o di negare l’esistenza di Dio…” come non esiste modo di provare il contrario!

Tutti possono pensare che quei fenomeni che al momento attuale la scienza non può spiegare, il vasto mondo del paranormale, i miracoli, le ipotesi di contatti alieni, i misteri dell’archeologia, in futuro potranno essere riprodotti e studiati con nuovi mezzi e tecniche di indagine.

Così, un’inevitabile delusione attende quanti si attendevano sconvolgenti rivelazioni sui crop circles, su come si formano e sulla loro funzione. Non ci sono paragoni con le tracce di Nazca e di altre località del Sud America, e nemmeno emergono improbabili teorie. Sono segni, e niente più. Compaiono nel primo tempo, in seguito, la loro funzione cessa, e tutta l’attenzione va al dramma esistenziale di Graham. Né vengono accontentati i patiti della Fantascienza più classica, quanti desidererebbero vedere dischi volanti abbattuti e montagne di cadaveri alieni.

Non abbiamo notizia della salvezza dell’umanità, nel finale forse un po’ troppo affrettato. Constatiamo che la famiglia del protagonista vede gli effetti devastanti dell’acqua sugli invasori, e immaginiamo che saprà quindi come difendersi in futuro, ma sulla sorte della Terra nulla ci è dato sapere. Nessun trionfalismo è ammesso: ignoriamo cosa sia successo nel frattempo al resto del pianeta.

Probabilmente, se Graham tornerà ad essere Padre Graham, ritroverà ancora la sua parrocchia a cui fare da guida. Oppure il clergyman diverrà una sorta di divisa simbolica, analoga a quella dei supereroi, che indosserà nuovamente per ribadire a se stesso e a un mondo devastato che Dio c’è e i miracoli avvengono ogni giorno. Ovvio a quel punto che la Fantascienza è un McGuffin, un pretesto del genere usato da ALFRED HITCHCOCK. Argomentazioni interessantissime, che valgono una riflessione; Signs merita di essere visto anche solo per le magistrali sequenze che contiene; attenzione però a non restare delusi credendo di trovarvi profusione di alieni, astronavi e belle donne.

 

Cuccussétte vi ringrazia della lettura.

La recensione è stata edita da TERRE DI CONFINE   https://www.terrediconfine.eu/signs/

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