LA DEA DELLA CITTA' SEPOLTA
Alla fine dell’Ottocento i romanzi di avventura erano veri e propri best seller, diffusi tra vari ceti sociali, apprezzati da chiunque sapesse leggere e scrivere abbastanza da trovare diletto nella lettura. Le esplorazioni geografiche stavano rendendo il mondo meno sconosciuto, e la gente faceva degli esploratori, degli archeologi, degli scienziati e degli inventori i propri modelli ideali. She o La donna eterna, o Lei (She: A History of Adventure), è un romanzo fantastico avventuroso di H. Rider Haggard, pubblicato a puntate tra la fine del 1886 e l’inizio dell’anno seguente. Immediatamente è entrato nell’immaginario degli avidi lettori di storie esotiche ed è divenuto un classico della letteratura. Rientra nel sottogenere dei ‘Mondi perduti’, avventure di audaci esploratori alle prese con i misteri di civiltà antichissime, popoli misteriosi o animali preistorici che vivono in luoghi rimasti isolati, tesori nascosti e tanto sense of wonder. Non sorprende che il cinema si sia presto appropriato di un soggetto tanto accattivante e ne abbia prodotto parecchie trasposizioni più o meno fedeli. I remake in questo caso sono motivati dalle grandi migliorie tecniche che si sono susseguite, dalla conquista del sonoro a quella del colore, ai progressi degli effetti speciali, ed anche al cambiamento di prospettiva che è seguito alla decolonizzazione, o all’emancipazione femminile.
La versione di She diretta da Robert Day nel 1965 in Italia è stata distribuita come La dea della città perduta, e ripropone le avventure di un gruppo di archeologi diretti nel cuore dell’Africa Nera, alle prese con una regina immortale, Ayesha. Il testo originario è stato adattato e modificato, introducendo pause comiche, tacendo la genealogia del giovane avventuriero Leo e facendolo innamorare di Ayesha già prima del grande viaggio nei deserti dell’Africa Nera. Anche l’ epilogo è in buona parte diverso da quello scelto dall’Autore. Gli adattamenti dello sceneggiatore David Chantler sono molto pesanti e modificano parecchio le pagine, però l’insieme funziona, grazie a un riuscito mix di sense of wonder, avventura, erotismo, senso del macabro. Non è un caso se il film è stato prodotto dalla casa britannica Hammer, nota per i gloriosi titoli horror e per aver lanciato divi come Christopher Lee e Peter Cushing, entrambi presenti anche in questo titolo, e dalla MGM. La sceneggiatura mette in risalto il gusto pulp che il romanzo presenta in forma più castigata, rendendo esplicito quanto Haggard suggeriva all’immaginazione del lettore borghese. Quando sensualità, violenza, e stupore vengono esaltate, la pellicola funziona, tanto più che questi elementi vengono sempre accompagnati a una sana dose di ironia. Gli archeologi preferiscono sgambettare tra odalische piuttosto che insegnare a pivelli brufolosi, il bel Leo ha l’aria tonta sia marci ferito nel deserto sia contempli le grazie di Ayesha, e cade nelle sue braccia con l’eleganza di un broccolo in pentola. Il maggiordomo è poi strepitoso, con le sue gag umoristiche che ci ricordano che tutto è un regno di colorata cartapesta.
La Regina del regno perduto nel cuore dell’Africa ( Ursula Andress all’apice della sua bellezza) fa in modo da incontrare Leo Vincey ( John Richardson più avvenente che espressivo, come imposto dal testo che lo vuole ‘più bello che interessante’). Prima fa rimorchiare il giovane da Ustane, un’attraente ancella, e lo fa uscire fuori da un malfamato bar di Gerusalemme dove sta gozzovigliando con il mentore Horace Holly ( un bravissimo e a suo modo affascinante Peter Cushing ) e il maggiordomo Jeb (un delizioso Bernard Cribbins lontano dai fasti del Doctor Who ma già in stato di grazia). Poi fa tramortire e rapire il povero Leo perché crede che lui sia la reincarnazione del suo amore perduto da secoli, gli dona un antico anello egizio e lo invita a raggiungerla nel suo reame. E’ un episodio inventato di sana pianta, però ci trasmette subito due informazioni importanti, indispensabili per godersi il film e perdonare le svariate ingenuità. La prima è che il viaggio verrà compiuto perché il giovane è folle d’amore, il Professor Holly sogna ricchezze e il maggiordomo vuol mantenere il lavoro. La componente sentimentale avrà il suo peso nella vicenda, e non si limita ad essere solamente un motivo per rischiare la vita ben comprensibile anche da spettatori che hanno accettato o subito una vita tutt’altro che avventurosa. La seconda informazione è che Ayesha è una creatura pericolosa e lunatica, come ci si potrebbe attendere da un’entità che ha vissuto per secoli e quindi è solo esteriormente umana. Ancor prima di raggiungere lo stato di immortale era una persona avvezza al potere, e vendicativa. La regina infatti aveva ucciso con le sue mani Callicratis il sacerdote di Iside, colpevole di averla tradita, e crede che Leo ne sia la reincarnazione. Nel romanzo è chiaramente spiegato che Leo discende dal sacerdote e quindi la somiglianza con i ritratti dei medaglioni ha una spiegazione razionale, per quanto improbabile. La sceneggiatura invece lascia prevalere ipotesi sovrannaturali e lo spettatore può accettare per veritiere le superstizioni di Ayesha oppure pensare a una somiglianza del tutto casuale: il dubbio giova alla vicenda.
Di ultraterreno c’è solo il magico potere della Fiamma, capace di rendere immortali quanti vi si immergano per la prima ed unica volta. Il resto sono solamente leggende o artifici creati dai popoli tecnologicamente più avanzati per terrorizzare le popolazioni nere.
Ebbene, il film ha tanti anni addosso, e riflette la mentalità ante 1968, almeno in parte. Ovvero i neri sono sottomessi, e quando si ribellano sono una massa inferocita priva di un leader, di uno stratega che li guidi. Le donne sembrano capricciose e dominate dall’istinto, sia l’ intelligente e pericolosa Regina, sia l’ancella Ustane (Rosenda Monteros) sono mosse solo dall’amore. L’ancella Ustane non desidera sconfiggere Ayesha per averne i poteri, vuole Leo. Che a sua volta, come esemplare della razza umana, è bianco e bello e stolido, tanto da invaghirsi e imbarcarsi in un’avventura senza neppure controllare se l’anello ricevuto dalla bella Regina sia un trucco. E’ un giovane ricco e di buona famiglia, e sarebbe stato facile, per un rivale intelligente, attirarlo nel deserto con un vero reperto acquistato appositamente per convincerlo a levarsi di torno insieme ai suoi amici, e magari tirar le cuoia tra le dune. Siamo però nel reame di cartapesta dipinta che, suonata la metà del secolo breve, è ormai l’unico capace di raccontarci i mondi perduti. Lo spettatore sa che il mondo è ormai quasi del tutto esplorato, e anche l’archeologia può stupire poco.
Vediamo quindi la bellissima Ayesha con un memorabile costume dal copricapo vistoso, il suo disilluso sottoposto ( il bravo Christopher Lee versione pseudo egizia), e poi un mix di armature di seconda mano, ereditate da qualche peplum e assortite alla bell’e meglio, di caftani colorati, di scenografie vistosamente artigianali. In un altro contesto simili costumi e monumenti sarebbero apparsi stonati, ma in questo film si fanno perdonare, perché She è la storia dei nostri sogni: il sogno di stringere tra le braccia un bel giovanotto o una bella donna, il sogno di vivere avventure dove i buoni sono sempre vincitori e i cattivi sempre puniti, il sogno dell’immortalità… Ogni mondo perduto, ogni eroe d’altri tempi, ormai appartiene all’immaginario creato dal cinema o dalla letteratura, quando non è emigrato su qualche pianeta di una galassia lontana lontana. La dea della Città perduta ci trasmette la poesia di aver provato a inseguire e trattenere quel sogno.
Cuccussette vi ringrazia della lettura.
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