THE RETURN OF SHERLOCK HOLMES - serie tv

L’idea di attualizzare il personaggio di Sherlock Holmes portandolo con qualche artificio a vivere ai giorni nostri è stata concretizzata per la prima volta nel 1987 con il film per la televisione The Return of Sherlock Holmes. Si tratta di una pellicola creata per la CBS, il celebre network americano, diretta da Kevin Connor. In pratica si tratta di un telefilm lungo che riadatta situazioni e personaggi britannici al gusto del pubblico d’oltre oceano. Succedeva spesso che i registi di serie televisive girassero un primo episodio pilota e se fortunati e talentuosi poi proseguissero con la stagione regolare di una ventina di episodi.
Le scelte della sceneggiatura parlano chiaro, sono quelle che ci si può aspettare da un film realizzato con pochi mezzi, bravissimi attori e una buona dose di ingenua fantasia. Ovvero si tratta di un prodotto molto creativo, penalizzato da scelte di regia a loro volta condizionate dai costi, e condannato a dover rimanere un garbato intrattenimento televisivo, con scelte narrative orientate verso una platea generalista.
Viene inserita come personaggio principale una discendente di Watson, una giovane detective incapace di far quattrini. La donna si rifiuta di accettare casi di corna vissute e non riesce a tirare per le lunghe le indagini, perché è troppo sincera con i clienti. Il gender swap permette di avere un protagonista maschio e una protagonista femmina, sulla scia di Cuore e batticuore, Detective per amore, MacGruder & Loud, Hunter… peccato che quei telefilm potevano vivere di una blanda tensione sentimentale perché i personaggi erano stati creati per formare coppie, erano sessualmente ben definiti e dotati di un sex appeal abbastanza esplicito. Sherlock Holmes forse è gay, comunque è asessuale o\o sapiosessuale, dato che la sola donna per cui ha interesse è Irene Adler, l’unica persona capace di reggere una sfida col suo intelletto oltre al fratello e al criminale Moriarty. Cercare di costruire un legame amoroso tra la detective imbranata e lo spaesato Holmes porta a snaturare i personaggi, e anche se tutto rimane a livello platonico – sguardi, movimenti di mani, innuendo – per un fan purista è sempre troppo. La coppia doveva attirare non solo i fan di Sherlock Holmes e del dottor Watson, quanto un target di casalinghe abituate alle soap o alle storie d’amore, ai gialli privi di dettagli troppo raccapriccianti, e doveva ammiccare a quei titoli polizieschi che riscuotevano successo, in modo da accontentare gli altri spettatori.
L’idea era quella di trasmettere un episodio pilota per poi lanciare una serie con Sherlock Holmes ai giorni nostri. Quanto la produzione voleva far arrivare in televisione non sarebbe stato uno Sherlock Holmes moderno come quello ideato da Steven Moffat, bensì il ‘vero’ Sherlock Holmes nato in epoca vittoriana e giunto in qualche maniera nell’America di cento anni dopo con il suo bagaglio di valori, conoscenze e sensibilità propri di un'epoca passata. Per consentire il viaggio nel tempo, scartate le classiche macchine, gli sceneggiatori idearono un escamotage che è tanto funzionale allo scopo quanto poco credibile. Holmes finisce per venire infettato da Moriarty e ammalarsi di peste; a fine Ottocento non esiste una cura e il detective si fa conservare criogenicamente nella cantina della villa rurale degli Watson. La discendente si trova a dover vendere la casa, e prima di lasciarla deve assolvere a una serie di istruzioni lasciatale dal suo legale. Non immagina neppure lontanamente di scongelare Holmes, che si ritrova di nuovo vivo, gravemente malato ma con cure moderne a disposizione.  
La detective lo soccorre e lo porta con sé in America, e lo spettatore può solo restare basito davanti a tanta mancanza di logica. O accetta gli eventi condividendo le scelte ingenue ed avventate della donna, oppure cambia canale, perché in questo caso l’espediente per avere Sherlock Holmes negli anni Ottanta del Novecento è davvero poco verosimile. La donna non esita a credere che quel gentiluomo moribondo sia proprio Sherlock Holmes, personaggio di finzione, e lo cura da una malattia potenzialmente mortale e contagiosa sottraendo qualche antibiotico a un medico che nel frattempo ha allertato il manicomio. Cosa la spinga a rischiare la pelle e la reputazione per uno sconosciuto, resta un mistero. Per fortuna, il disorientamento del detective è ben rappresentato, si rispecchia nello sguardo impacciato del redivivo, nel cibo industriale che è per lui insapore, o nel Mac Donald’s che serve panini al 221\B di Baker Street. Approfondire l’introspezione, dare voce alla disperazione di un uomo che si risveglia in un mondo alieno e non ha i mezzi per decodificare i cambiamenti sociali che ci sono stati, rallenta l’azione, però è anche quanto di meglio la pellicola può offrire.
il giallo narrato si ispira al Segno dei Quattro, riveduto e corretto seguendo alcuni stereotipi dei telefilm di quel periodo. La scelta di ispirarsi a un classico rivisitandolo dovrebbe avvicinare gli spettatori al detective ed al suo mondo, però l’operazione funziona solo in parte. Quanti conoscono il personaggio solo per fama, trovano un poliziesco simile a tanti altri, di ambientazione metropolitana e contemporanea. Privato del fascino della Londra Vittoriana, dei costumi d’epoca, dell’atmosfera che spesso sconfina nel sovrannaturale, Sherlock Holmes perde gran parte del suo fascino. Si aggira per i set vestito vintage, con il tradizionale cappellino da cacciatore che nei libri mai compare ma caratterizza il personaggio. Gli appassionati possono divertirsi a cogliere le attualizzazioni, o godersi le interpretazioni degli attori, per gli altri c’è davvero poco. Non è colpa degli interpreti, che sono più o meno bravi, da un Michael Pennington compassato e deduttivo, alla coprotagonista Margaret Colin, o a Barry Morse (proprio l’attore reso famoso in Italia da Spazio 1999 con il ruolo del professor Victor Bergman).
Il cast funziona, e i problemi della pellicola sono principalmente da ricercarsi nell’espediente che porta al ritorno alla vita di Holmes, in una confezione un po’ scialba tipica dei telefilm di quel periodo, e soprattutto nel prendersi un po’ troppo sul serio. La vicenda ha pochi momenti davvero esagerati e parodistici, che avrebbero risolto con una risata le necessarie incongruenze. Purtroppo non riesce neppure a marciare sui toni del dramma, perché alla fine i momenti di vera tensione emotiva sono limitati a poche sequenze. Pur nell’assurdità della situazione, le sequenze con la Watson che segue le istruzioni per far scongelare il corpo chiuso nella capsula sono visivamente una spanna sopra al resto della pellicola, ammiccando direttamente ai classici dell’horror e alla saga di Frankenstrein.  Il resto della pellicola è assai più convenzionale, si lascia guardare e sarebbe stata valorizzata da una sceneggiatura più briosa e comica oppure più cupa e gotica.

Per quanto piacevole, è rimasto un curioso esperimento, che non ha dato il via all’agognata serie eppure delizia ancora i fan di Sherlock Holmes.

Cuccussette vi ringrazia della lettura.

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