WHO ? L'UOMO DAI DUE VOLTI

Who? L’uomo dai due volti è un insolito film di fantascienza, o di spionaggio, realizzato da Jack Gold nel 1974. E’ la trasposizione del romanzo dello scrittore statunitense di origine lituana Algis Budrys Incognita uomo (Who?) pubblicato nel 1958. La vicenda è ambientata in un futuro prossimo, pochi decenni dopo il 1958. Russia e USA ancora rivaleggiano, la Guerra Fredda perdura e l’incidente che occorre al dottor Lucas Martin a Berlino Est fomenta terribili sospetti. L’uomo è uno scienziato americano e stava lavorando al ‘Programma Nettuno’ quando ha subito un terribile incidente che lo ha lasciato sfigurato oltre ogni possibilità di recupero. I Russi gli hanno salvato la vita rinchiudendolo in un’armatura di un metallo sconosciuto e di argentea pelle sintetica. Lucas Martin ha solo gli occhi dell’uomo che era, ha cambiato anche la voce. Quando, qualche mese e tanti interrogatori dopo, i Russi cercano di rimandarlo in madrepatria, gli Americani si trovano davanti un cyborg. Temono che si tratti di una spia accuratamente mimetizzata, o di un automa, oppure lo scienziato ormai asservito al nemico grazie al lavaggio del cervello. L'agente dell'FBI Sean Rogers cerca di fare luce sulla verità…

Il film a un’occhiata superficiale può sembrare l’ennesimo B-movie anni Settanta. Visivamente dimostra tutti i suoi anni, e la povertà è evidente fin dalla sequenza iniziale, quella dell’incidente. Due auto si inseguono su una strada malandata di periferia: dovrebbe essere il confine tra le due parti di Berlino ma assomiglia in modo preoccupante a un cantiere di tangenziale. Sullo stradone non ci sono altri veicoli, e una delle automobili fa uscire di strada l’altra con una manovra piuttosto goffa. Stacco di inquadratura, vediamo le fiamme levarsi vigorose, così da non aver neppure dovuto usare stuntman o dare fuoco a un’auto vera, fosse pure un rottame o un modellino. Ci saranno, nel corso del film, altre due occasioni per scene d’azione. Entrambe verranno risolte con pochi mezzi e uno stile narrativo degno dei telefilm europei polizieschi coevi, fatto di prevedibili inseguimenti tra auto pronte per lo sfasciacarrozze anche prima del ciak e di un’esplosione, con la vettura visibilmente priva di passeggeri.
La saga di James Bond ci ha straviziato, sono un susseguirsi ininterrotto di scene d’azione ben ritmate, la violenza è tanto esplicita quanto caricaturale, i personaggi si scazzottano tra un Martini e un’aragosta alla Catalana indossando vestiti firmati, le donne sono tutte bellissime. L’uomo dai due volti invece rifiuta la spettacolarizzazione estrema di tutti gli eventi. Immortala anonimi capannoni industriali invece di location da vacanza esotica, interni di squallidi ospedali militari invece di alberghi di lusso. Tutto il glamour è quello delle vie cittadine di una metropoli, con piccoli ristoranti e interni di modesti appartamenti. I volti che vediamo difficilmente figurerebbero sulle pagine di magazine alla moda, nessuno indossa lo smoking o abiti griffati e anche le donne sono graziose ragazze acqua e sapone. Come nella saga dell’Agente Palmer, anche in Who? L’uomo dai due volti ì si vorrebbe mostrare la facciata più verosimile e disumana del mestiere della spia. Sean Rogers ha il viso triste di Elliot Gould, e questi male rivaleggia con il carismatico Sir Michael Caine, dotato di un fascino da tenero ragazzo della porta accanto, occhialuto e un po’ goffo ma sensuale. L’Agente Palmer attira tutte le simpatie affettive poiché ne conosciamo gusti, abitudini, carattere, e inoltre  è una vittima del gioco di spie e i suoi superiori possono decidere di sacrificarlo. Rogers invece è un leader asservito al sistema, un uomo poco empatico che rimane un estraneo e in cui gran parte degli spettatori non si rispecchia. Si aggira per il set in trench e abiti stazzonati come una versione più affascinante e crudele del Tenente Colombo, ed è pronto a torturare lo scienziato con interrogatori proprio come il corrispettivo sovietico, pur di ottenere una verità che pure gli sfugge.
I Russi sono altrettanto ottusi e manipolatori, e proprio una bugia di troppo, detta alla persona sbagliata, rovinerà i loro sogni di poter ficcare il naso nel Progetto Nettuno. Come se non bastasse, gli attori scelti per interpretare i Russi mancano della fisionomia di solito attribuita ai sovietici e Trevor Howard, il Colonnello Azarin, sembra un distinto gentleman britannico. Le capacità recitative ci sarebbero tutte, è proprio l’aspetto fisico poco convincente dell’attore a renderlo poco credibile. Appendergli le foto di Marx e Engels nell’ufficio non migliora la situazione perché quelli sono personaggi del Comunismo internazionale piuttosto che i padri della Russia moderna. Si ha l’impressione di vedere rappresentato un mondo oltre la Cortina di Ferro assai immaginario, descritto con gli stereotipi diffusi nell’Occidente e immediatamente comprensibili ai più.
Va peggio a Joseph Bova, ovvero Lucas Martin ( o, nella versione originale, Lucas Martino, studioso di origine italiana). Viene sempre mostrato a trasformazione avvenuta. La maschera di metallo limita l’espressività, condannando l’attore ad essere praticamente solo una voce ed un paio di occhi chiari che raccontano tutto il dolore e la frustrazione di un idealista sconfitto.
Tutto apparentemente è sotto tono in questa pellicola britannica dagli effetti speciali limitati al solo trucco indimenticabile del protagonista, dalle ambientazioni tanto modeste, dal cast formato da caratteristi e privo di nomi di grande spicco. All’uscita nelle sale è stato proposto come una spy story fantascientifica: a distanza di anni sembra una trovata pubblicitaria un po’ squallida per attirare nel cinema gli appassionati di entrambi i generi. Di quanto possa essere poco appariscente e dimessa la componente spionistica, si è già detto; la fantascienza invece si riduce alla sola trovata dell’operazione avveniristica che trasforma Lucas Martin. Peraltro come cyborg ha un’aria pacioccona e gli impianti non lo rendono più forte di quanto non fosse prima! Se il Progetto Nettuno ha in serbo scoperte rivoluzionarie, lo spettatore continua ad ignorare su cosa vertano le ricerche. Il futuro immaginato nella trasposizione è molto meno tecnologico di quanto è avvenuto realmente: non ci sono computer, minicar, elicotteri privati, tantomeno c’è internet o ci sono cellulari o test del DNA. Oggi nessuno si chiederebbe per giorni se la creatura chiusa nella maschera di metallo sia o non sia Lucas Martin, basterebbe un’analisi per risolvere il mistero. Resterebbe solo il dubbio sull’integrità morale del cyborg, che potrebbe aver ceduto alle lusinghe degli avversari, essere stato plagiato con l’ipnosi o più probabilmente allettato con onori e lussi.
 Who? L’uomo dai due volti nonostante l’allestimento così sotto tono ha alcuni pregi che si evidenziano poco a poco, in un crescendo di pathos tale da far perdonare ogni evidente povertà e qualsiasi sequenza ingenua. E’ presto ovvio che fantascienza e spionaggio sono un pretesto e ci troviamo davanti a un dramma umano, forse la peggiore disgrazia immaginabile: la perdita della propria identità. Lo spettatore si rende conto che la vicenda è diversa da quelle degli emuli di 007, non assiste a una sorta di scipita rivisitazione del Funerale a Berlino, ed è coinvolto dalla tragedia umana dello scienziato. Inizialmente può dubitare della sincerità di Lucas Martin, che potrebbe essere davvero un impostore, un traditore o una creatura ormai folle. Invece il cyborg riesce a conquistare l’emotività con la sua placida saggezza. La platea prende il suo punto di vista man a mano che capisce la sua disperazione ed il piano sovietico si rivela in tutta la sua crudeltà. C’è una sorta di ribaltamento di ruoli, nel primo tempo lo spettatore parteggia per l’agente dell’F.B.I. e dubita del mostruoso androide. Nel secondo tempo la situazione si ribalta specularmente, perché si tocca con mano l’umanità della creatura di metallo, e l’ottusa fede nello Stato dell’agente. Quanto poteva essere sopravvissuto del mondo di Lucas va progressivamente in pezzi e sequenze in soggettiva rendono partecipi del dolore dell’uomo robot. Il collega che condivideva le responsabilità del Progetto Nettuno non si espone per provare l’identità di Martin, e visibilmente intimorito dall’F.B.I., afferma di conoscerlo esclusivamente per quanto avveniva sul lavoro. I genitori dello scienziato sono entrambi morti e così i parenti. Aveva due amori, una è finita in manicomio e l’altra, sebbene con dispiacere, collabora con l’F.B.I.. Dopo l’incontro con quella che avrebbe potuto essere la donna della sua vita Martin resta solo con il fallimento delle proprie speranze. Non può tornare al progetto poiché le autorità lo impediscono, è sorvegliato e un suo tentativo di fuga ha esiti tragici.
Quando finalmente ci potrebbero essere prove decisive, lo scienziato è ormai sfinito e disgustato, e irrimediabilmente solo, distante dalle persone per cui è solamente un mostro e irrimediabilmente sfiduciato verso le autorità. Non gli rimane che uscire di scena.
La vicenda è indimenticabile grazie a dialoghi perfetti, che esaltano l’introspezione dei personaggi principali, sono commuoventi senza però diventare strappalacrime e fanno riflettere lo spettatore.  E’ una storia molto intimista, e quando lo si capisce, si accetta il triste destino del povero scienziato. Il dramma umano  di Lucas Martin vive di sguardi disperati, di dignità estrema. La storia procede più che altro grazie ai tanti flashback relativi agli interrogatori. Le indagini fanno luce sul passato dello scienziato, sulle sue donne, sui colleghi sleali e pronti a passare al nemico… E’ il dramma della perdita dell’identità quello portato in scena con tanto calore, e la risposta ha i toni dell’esistenzialismo. In fondo, è così importante sapere chi fosse davvero quello scienziato, prima dell’incidente? Alla fine è comunque una persona diversa da quella che guidava il Progetto Nettuno e amoreggiava con una donna che pure non lo ha dimenticato. Lucas era un fanatico del suo lavoro, un ambizioso, e anche se fosse stato reintegrato nella sua mansione chissà se sarebbe stato lo stesso uomo di un tempo.
Per lo scienziato non c’è altra soluzione che …
Ebbene, c’è anche un piccolo giallo, relativo al finale. Come avveniva negli anni Settanta per i film con bassi introiti, i produttori provavano a cambiare il titolo, o il finale, prima di arrendersi al flop e consegnare la pellicola alle trasmissioni televisive. Dello stesso film potevano esistere versioni diverse con particolari differenti, spesso ininfluenti e talvolta assai importanti. Who? L’uomo dai due volti è conosciuto anche come The man in the steel mask e anche come Roboman. Potrebbe aver avuto revisioni e piccole variazioni nel montaggio, nella speranza, vana, di potersi riproporre con maggior successo. Ebbene, forse esistono almeno due finali alternativi. Sottolineo quel forse poiché potrebbe essere una leggenda metropolitana, o un mio lontanissimo ricordo di infanzia. In una versione Lucas Martin, dopo il colloquio finale con Sean Rogers, torna sul suo trattore e riprende la sua vita da contadino, titoli di coda a seguire. In un’altra versione torna sul trattore, l’agente riparte, poi si sente uno sparo e si vede la macchina agricola, ripresa sempre dall’alto, ferma in mezzo al campo. Non so dirvi quale fosse la versione originaria; probabilmente era quest’ultima, così amara e crudele da venir proiettata alla prima uscita del film e subito sostituita con un epilogo più rassicurante. Non sarebbe la prima volta che una pellicola scompare oppure viene mutilata, purtroppo, e in questo caso sarebbe comprensibile. Da vedere almeno una volta nella vita.

 

Cuccussétte vi ringrazia della lettura.

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