ASSASSINIO SU COMMISSIONE
Il film Sherlock Holmes: notti di terrore (A Study in Terror) realizzato nel 1965 da James Hill ebbe poco successo all’uscita. Il soggetto era (e sarebbe ancora oggi) intrigante, in quanto porta in scena lo scontro tra il celebre detective e Jack lo Squartatore, in un contesto ucronico o fantastico che fa convivere personaggi letterari e persone realmente esistite. Questa pellicola purtroppo venne realizzata con pochi mezzi, lasciando con l’amaro in bocca parecchi spettatori. Si trasformò in un piccolo classico irrinunciabile per molti fan solo nel corso degli anni successivi, tanto da ispirare Assassinio su commissione (Murder by Decree), un film del 1979 diretto da Bob Clark.
Non si tratta esattamente di un remake, sebbene le premesse siano simili a quelle del vecchio film. Entrambe le pellicole sono apocrife, in quanto le indagini di Sherlock Holmes e del dottor Watson alle prese con Jack lo Squartatore in una Londra invasa dalla nebbia e spesso ricostruita in studio non sono state scritte da Conan Doyle. In entrambi i film i fatti di invenzione rispettano la cronologia degli eventi storicamente accettati, e in entrambi la verità si scopre e viene occultata. Le somiglianze si limitano a questi aspetti, mentre le differenze sono profonde, a partire dai protagonisti.
Watson ( James Mason) più o meno è lo Watson che è logico attendersi, a parte il fatto che appare assai più vecchio di Holmes, tanto da poter sembrare suo padre. Sorvolando sull’estetica, il personaggio è ben inquadrato, manca della genialità dell’amico e coinquilino, a volte appare ingenuo però è sempre dignitoso e mai scivola nel ridicolo, nel diventare una spalla comica.
Sherlock Holmes è invece molto diverso da quanto fino ad allora era apparso sul piccolo o grande schermo. Il cinema e le serie televisive, per quanto spesso pregevoli, ci avevano abituati a seguire indagini che privilegiavano il ragionamento logico. Holmes è un provetto schermidore, esperto in arti marziali, si intende di chimica, inganna tutti con i suoi travestimenti, è capace di arrampicarsi sui tetti e cavarsela in situazioni essenzialmente fisiche e Watson è un ex soldato, di certo avvezzo a difendersi. Gli spettatori se lo dimenticano perché le trasposizioni audiovisive mettono in secondo piano le abilità fisiche. Probabilmente la complessità dei ruoli aveva fatto sì che fossero stati scelti attori eccellenti nella recitazione, meno adatti a simulare scazzottate, inseguimenti o duelli all’arma bianca. Le prodezze atletiche del detective venivano raccontate con dialoghi opportuni. In Assassinio su commissione lo stereotipo del raffinato e algido investigatore che fuma e beve il the alle cinque e inchioda i colpevoli incontra il pessimismo postmoderno dell’hard boiled e del noir. Il detective interpretato da Christopher Plummer è un uomo nel fiore degli anni, di aspetto piacente, e molto umano. Il distacco emotivo, la logica glaciale, lasciano il posto alle emozioni di una persona che si appassiona alle indagini, tratta con empatia le persone che incrocia nel suo percorso verso la verità, fallisce e brancola nel buio tanto da arrivare ad affidarsi a un sedicente sensitivo. Sherlock Holmes fa anche quello che lo spettatore si attende che faccia, fuma la pipa e riflette seduto nella comoda poltrona della casa al 221b di Baker Street, talvolta indossa il caratteristico berretto da cacciatore e il cappotto di tweed con la mantellina, eppure nell’insieme assomiglia ad un Philip Marlowe dell’epoca Vittoriana. E’ un antieroe d’azione, usa l’arte marziale di derivazione giapponese e fa scherma da strada col bastone da passeggio, insegue i sospettati, talvolta esce malconcio dagli attacchi di quanti intendono fermare le sue indagini, e quando fallisce si arrabbia e si dispera.
L’aver dato voce all’emotività, l’aver reso il suo acume meno efficace di quanto ci si aspetterebbe, ci rende un personaggio meno invincibile. E’ un modo per prepararci al fatto che stavolta il detective si contrappone a poteri più grandi, che intendono zittirlo. La pellicola infatti mette in gioco la famiglia reale, la massoneria, il governo britannico, abbracciando alcune ipotesi che vennero sussurrate già all’epoca dei delitti, avvenuti nel 1888. Si accenna alla pista ebraica, con la famosa frase ambigua scritta in prossimità di una scena del crimine, subito cancellata per evitare linciaggi e episodi di antisemitismo. Si propende però per una congiura di ben altre proporzioni, ordita da potenti e orchestrata in modo tale da coprire il colpevole. Che Holmes trovi ostacoli e depistaggi, è mostrato fin dall’inizio. Lo spettatore non ci fa caso perché si attende il ‘solito’ Holmes, pronto a far trionfare la giustizia. La sceneggiatura ben diluisce i segnali che fanno rendere conto di come, almeno questa volta, la situazione sia ben differente. Scotland Yard spesso ricorre all’aiuto di Holmes, ora è alle prese con il serial killer e i suoi delitti che minacciano l’ordine dei quartieri degradati di Whitechappel, con masse di immigrati e poveri autoctoni pronti alla rivolta. Nonostante la situazione sia esplosiva, nessun poliziotto bussa alla porta del detective per implorarne l’aiuto. Sono i commercianti della zona a supplicarlo di intervenire poiché gli omicidi fanno allontanare i clienti. Ogni occasione in cui il detective si trova ad aver a che fare con i poliziotti, siano essi l’ispettore Lestrade (Frank Finlay) o l’ambiguo ispettore Foxborough (David Hemmings), trova un muro di omertà. La soluzione giunge attraverso Mary Kelly (Susan Clark), prostituta che incontrerà il suo tragico destino nonostante gli sforzi da parte di Holmes e Watson e che riuscirà comunque a metterli sulla giusta pista. La ‘vittoria’ ha un retrogusto amaro, mal conciliabile con un Holmes fedele alle descrizioni libresche.
Il film gode di un cast stratosferico, forse non sempre azzeccato o sfruttato al massimo, comunque assai valido. Sono proprio questi attori a fare la differenza, con le loro belle interpretazioni, tali da far accettare le numerosissime licenze poetiche. Assassinio su commissione in fondo è una fanfiction, o meglio un fan film basato sul libro The Ripper File scritto dal di Stephen Knight, Elwyn Jones, John Lloyd. In questa avventura apocrifa i personaggi sono OOC, out of character, e va benissimo così. Dopotutto di trasposizioni dei racconti e dei romanzi fedeli alla virgola ce ne sono state, e trovare qualcosa di diverso stuzzica l’interesse.
La bravura degli interpreti in parte compensa una sceneggiatura che deve trovare compromessi tra il voler mantenere le atmosfere placide tipiche delle indagini deduttive, il dover valorizzare i momenti horror e la scelta di imboccare la strada di un noir d’azione in costume. Lo sceneggiatore John Hopkins ha cercato di conciliare gli stereotipi che rendono il detective e l’assistente ben riconoscibili, con le nuove esigenze di un vero e proprio noir in costume. La lunghezza di oltre due ore, insolita per una pellicola realizzata alla fine degli anni Settanta, è proprio giustificata dal dover conciliare questi aspetti. Alcune sequenze forse potevano venire eliminate, come il dialogo sul voler raccogliere un pisello con la forchetta senza schiacciarlo o l’esperienza di Watson nel pub con le prostitute. I tagli però avrebbero penalizzato soprattutto il fedele dottore, personaggio che per non finire ridotto a macchietta comica o ad accessorio di scena necessita di momenti in cui far vedere la sua personalità. Di conseguenza il film non ha il ritmo frenetico di un’indagine a tinte forti come sarà quella di From Hell.
La fotografia spenta, con colori opachi, rende l’atmosfera di una Londra industriale invasa dallo smog e afflitta da gravi disuguaglianze sociali, enfatizza l’atmosfera claustrofobica e teatrale. Il film infatti fa largo impiego di set ricostruiti in studio, proprio come era avvenuto in Sherlock Holmes: notti di terrore. Sentito omaggio o necessità di risparmiare, il risultato in ogni caso convince nonostante l’estrema artificiosità. Ogni scena si richiama al teatro, alle scenografie dettagliate che nel teatro del tardo Ottocento cercavano di ricostruire scorci di luoghi, e ci ricorda che in fondo una storia in cui un eroe letterario e un serial killer coesistono, è a suo modo un fantasy. Non c’è niente di sovrannaturale, ovviamente, se non questa commistione di inventato e storia, e la ri-creazione di un passato parallelo.
Le sequenze dei delitti, riprese in soggettiva e immerse in una fitta nebbia, sono ben riuscite, anche se non c’è da attendersi il tripudio di dettagli splatter tipico degli horror del periodo. D’altra parte la pellicola non è un film dell’orrore vero e proprio; la brutalità dei delitti viene esibita con moderazione sia per evitare censure, sia per mantenere un tono di esplicita rappresentazione. Nonostante le sbavature, Assassinio su commissione riesce a regalare uno sguardo diverso su un eroe amato in tutto il mondo.
Cuccussette vi ringrazia della lettura.
Questa recensione è stata edita su questo sito. Se la volete ospitare, contattatemi. Florian Capaldi su Facebook

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