INDIANA JONES E IL QUADRANTE DEL DESTINO

Indiana Jones è uno dei personaggi che sono entrati  nell’immaginario collettivo, un po’ come Darth Vader  e Yoda, come Harry Potter o Superman. Ha caratteristiche tali da renderlo gradito ai giovani come alle persone più mature: le sue avventure sono ambientate in scenari esotici e includono inseguimenti spettacolari un po’ come per James Bond, i combattimenti hanno coreografie che ricordano le comiche del muto, c’è qualche scena un po’ paurosa e orrida, c’è sempre una caccia al tesoro con i suoi misteri e rompicapi e trappole e trabocchetti, gli avversari sono cattivissimi e per i ‘buoni’ c’è sempre il lieto fine. Grazie al fascino dell’interprete Harrison Ford è riuscito a conquistare il pubblico femminile, spesso più  restio alle pellicole fantasy e di avventura.
L’archeologo è stato protagonista di ben cinque film, oltre alla serie Le avventure del giovane Indiana Jones, qualche romanzo e fumetto, e alcuni videogiochi. Mentre quasi tutti i fan sono concordi nell’apprezzare i primi tre film, l’accoglienza del quarto capitolo è stata meno calorosa. Era il 2008, diciannove anni dopo Indiana Jones e l’ultima crociata, e Harrison Ford appariva invecchiato, appesantito. La sceneggiatura aveva cercato di fare il possibile per dare la possibilità di riportare Indy sulle scene, ideando la figura di Mutt Williams, un figliolo che ne seguisse le orme. Il giovane Shia LaBeouf avrebbe dovuto  avere tante scene d’azione, in modo da limitare quelle di Ford… Il pubblico male ha digerito Mutt Williams: a meno di creare un reboot con un nuovo volto, Indiana Jones è necessariamente Harrison Ford. Inoltre l’uso di controfigure è palese, anche quando il montaggio cerca di minimizzare i cambi imprimendo un ritmo vertiginoso, qualcosa si percepisce a livello subliminale. Le scene d’azione sembrano quelle di un videogioco, e tradiscono molto l’idea di un eroe retrò, ereditato dai vecchi film d’avventura degli anni Cinquanta e Sessanta.
Nonostante tutto è stato realizzato un quinto capitolo, con Harrison Ford ottantenne e scelte narrative che cercano di rimediare al danno fatto dal precedente capitolo. Steven Spielberg ha lasciato il timone a James Mangold e la storia non esce dalla fantasia di George Lucas, per la prima volta, ed è stata ideata da James Mangold, Jez Butterworth, John-Henry Butterworth e David Koepp.
La grafica digitale ha consentito di provare a rilanciare il personaggio ed è migliorata al punto da permettere un ringiovanimento del protagonista. Il realismo è tanto da consentire di iniziare la pellicola con un’avventura ambientata alla fine della seconda guerra mondiale, con Berlino caduta. E’ un inizio col botto e ci racconta di quando Indiana Jones recuperò una parte del meccanismo di Antikytera, o Quadrante del destino, un’invenzione del matematico siracusano Archimede che permetterebbe di scoprire le crepe nel tessuto spaziotemporale. I primi venticinque minuti ci fanno rivivere quanto ha reso Indiana Jones un’icona pop indiscussa. Ci sono i cattivissimi nazisti e c’è una fuga rocambolesca, con tanto di inseguimento sul treno e salvataggio dell’amico e collega Basil Shaw. Ci sono i dovuti colpi di scena e soprattutto c’è Lui, l’Harrison Ford giovane e virtuale, ottenuto sovrapponendo il viso dell’attore ringiovanito ricreato dalla grafica alla faccia di una controfigura. Ci si crede fino a che non deve muoversi, altrimenti la sovrapposizione deborda e si capisce l’artificio.
Il sogno di avere un Indiana Jones convincente, tornato ai fasti degli anni Ottanta si spezza appena l’azione si sposta al giorno dell’allunaggio. C’è Indy in mutande, vecchio e appesantito, una visione da far stringere il cuore alle ammiratrici. E’ in un appartamentino, alle prese con il divorzio dalla moglie Marion Ravenwood, e con un lavoro in un’università anonima dove cerca di insegnare a ragazzi poco interessati. Il figlio Matt è morto in guerra, dopo essersi arruolato contro la volontà della famiglia. Sembrerebbe avviarsi verso la quieta vita da pensionato ma viene raggiunto da Helena Shaw (Angela Brusa). La giovane è figlia di Basil che ha passato la vita con l’ossessione del meccanismo di Antikytera. A caccia dell’oggetto c’è anche Jürgen Voller (Mads Mikkelsen), astrofisico nazista che sa a cosa serve l’invenzione ed è sopravvissuto fuggendo negli U.S.A., dove per anni ha lavorato alla N.A.S.A..
Il resto della pellicola racconta la cerca dell’ultimo pezzo del meccanismo, tra Tangeri, il Mare Egeo e Siracusa.
Gli ingredienti delle belle storie di Indiana Jones apparentemente ci sono tutte, con tanto di citazioni dai precedenti capitoli e la buona dose di trabocchetti, trappole, misteri, murene che escono da scheletri inabissati. Parecchie sequenze sono ricalcate sui vecchi film, si è eliminato lo sgradito Matt ma compare Sallah, e anche le battute citano i vecchi copioni. Probabilmente una parte di fan sarà anche soddisfatta, altri più smaliziati probabilmente torceranno il naso. Apparentemente il quinto capitolo ripara alcuni errori del quarto, tuttavia manifesta altre debolezze.
Il primo problema riguarda i viaggi nel tempo, o meglio, le linee temporali. Indy stavolta tocca la storia, quella documentabile. Le precedenti imprese dell’archeologo si erano svolte in luoghi lontani, e quanto accaduto era ovviamente incredibile, e non documentabile. L’Arca era stata riposta in un magazzino segreto, l’India è isolata, il Graal era ricaduto nelle profondità della Terra e i teschi stanno in Sudamerica, che gli eventi fossero reali o spacconerie da accademici, nulla cambiava. Invece Indy ruba un cavallo ed attraversa la parata di New York per celebrare l’allunaggio, svende addirittura nella metropolitana. Se nella nostra linea temporale se ci fosse stato un uomo a creare scompiglio nel corteo si sarebbe saputo dai giornali e sarebbe oggetto di servizi di giornalismo web, al pari Jack ‘Mad Jack’ Churchill, il soldato che combatté la Seconda Guerra Mondiale armato di claymore e arco.
Il viaggio nel tempo è poi trattato in modo altrettanto ingenuo con l’incontro con Archimede, per le possibili ripercussioni e perché, come nella parata, avviene qualcosa di eccezionale e non documentato. Se si fosse visto qualcosa di tanto sconvolgente come il vortice che concretizza la crepa temporale oppure il volo degli aerei, di certo qualcuno avrebbe scritto qualcosa, visto che l’assedio di Siracusa è un fatto reale testimoniato da Greci e Latini. Ancora più scellerata l’idea di far tornare Indy a un momento imprecisato del suo tempo. Ogni possibile datazione sulla data a cui la macchina lo ha riportato con Helena crea paradossi. Senza scendere in particolari che rovinerebbero a sorpresa, l’epilogo è probabilmente quanto di più sbagliato potesse essere inventato. Sarebbe stato meglio terminare la pellicola dieci minuti prima, in modo più poetico e malinconico, perché quello che manca in questa storia è la malinconia, il senso del tempo che è passato, la poesia dell’essere storici o archeologi e dedicare la propria vita a trattenere momenti della vita che fu.  Ma ormai scrivere The end è fuori moda, il cinema deve dare l’illusione che ci sia sempre una pagina da sfogliare in più.
Altro problema non meno importante, e correlato con il rifiuto della malinconia, è lo sviluppo del personaggio di Indy. Da anziano ripete gli stessi errori compiuti nel quarto capitolo, ovvero si lagna d’essere vecchio, si sente in qualche modo fuori posto ma poi si comporta ancora come un uomo d’azione. Potevano far vedere un’evoluzione dell’eroe, il suo compensare il calo fisico con una maggiore astuzia, con le capacità che un professore universitario dovrebbe avere. La storia ci mette davanti archeologi veri che hanno continuato a esplorare, viaggiare, conoscere e scoprire anche suonati i settanta: dal povero Khaled al-Asaad l’ottantenne siriano che ha pagato con la vita la scelta di proteggere Palmira, al più fotogenico Zahi Hawass che è ancora oggi alla ribalta per le scoperte in Egitto e che ironizza sul suo sentirsi come Indiana Jones… Purtroppo Harrison Ford, pur esercitando un mestiere in cui l’immagine conta, pur essendo specializzato in ruoli dove l’avvenenza e l’essere prestante sono metà della riuscita, è invecchiato come un uomo qualsiasi, e peggio anche di tante persone comuni. Anche i suoi sessanta anni non erano quelli di Tom Cruise, che era atletico e tale si è mantenuto. Gli anni sono passati impietosi, e la presenza della figlioccia è imbarazzante. Essendo ancora emotivamente legato a Marion, il rapporto resta quello di una sincera amicizia, o forse è un modo corretto per evitare di mostrare un ottantenne innamorato di una quarantenne che sbircia i muscolosi marinai e alla fine tra cervello e altre doti sceglie queste ultime. Purtroppo il personaggio di Helana rimane una spalla, espressione di girl power, necessaria rappresentazione di una donna d’azione, ma a essere cattivi, badante ! Anche il villain è sottotono, nonostante Mads Mikkelsen sia un fior d’attore, capace di dare il meglio in pellicole d’autore e in blockbuster. A essere cattivi, si potrebbe sospettare che abbiano voluto per lui un copione scialbo, una recitazione buona senza eccessi, un po’ come quando in Robin Hood Principe dei ladri le scene dello sceriffo ( Alan Rickman ) venivano tagliate per non sminuire Kevin Costner.
Il resto è fanservice di lusso, glamour da godibile blockbuster, ma allora perché non osare e avere sullo schermo attori ‘clonati’ dal computer, magari doppiati dagli interpreti originali, sulla falsariga di quanto profetizzato da The Congress?  ahimé la macchina del tempo ha un buco nella gomma e il cacciavite è andato perso !



Cuccussette vi ringrazia della lettura.

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