LA TERRA SILENZIOSA

Immaginare come potrebbe essere la  vita dell’ultimo uomo sulla Terra è un tema abbastanza consueto nel panorama della fantascienza apocalittica e dell’horror. Che sia pandemia, olocausto nucleare, invasione di zombie o vampiri, più o meno gli ingredienti sono sempre gli stessi: c’è una catastrofe descritta nei minimi particolari, con effetti disastrosi e prevedibili incursioni nello splatter. Risulta interessante il film neozelandese La Terra silenziosa, realizzato nel 1985 da Geoff Murphy e diventato un piccolo cult perché affronta l’apocalisse da un punto di vista piuttosto originale.
Ispirandosi molto liberamente al romanzo  di Craig Harrison, il regista ha dato vita a una pellicola che sfrutta molti luoghi comuni del sottogenere, rielaborandoli in modo efficace benché minimalista. Che la pellicola sia costata poco, è ovvio, però la narrazione evita ingenuità e trovate appariscenti che avrebbero potuto tentare. L’ambientazione tanto per iniziare è anomala, non l’ennesima metropoli americana ma le più piccole città neozelandesi, con tante case singole, strade non troppo grandi, foreste e laboratori sotterranei. Non viene detto esplicitamente, però i fatti si svolgono in Nuova Zelanda, e alcune battute scambiate con un personaggio aborigeno sono comprensibili solo se si si ricorda la triste storia della colonizzazione. Niente è andato distrutto, apparentemente, a parte le auto rimaste in mezzo alla strada o gli elettrodomestici ancora in azione nelle case. Però l’umanità è scomparsa e con essa ogni suono.
Siamo nel  presente o al limite in un futuro abbastanza prossimo, con computer stile vecchio Commodore 64 e nessuna tecnologia Web, ma abbondanza di tecnologie per radioamatori, stazioni radio, altoparlanti… quanto veniva usato prima dell’avvento di Internet in una Nazione con piccoli centri distanti parecchi chilometri l’uno dall’altro.
Il minimalismo regna sovrano, e in questo caso è un complimento poiché evita effetti speciali dozzinali esibiti con insistenza, e li limita al minimo indispensabile. I trucchi sono più o meno quanto potremmo attenderci in un telefilm di tardo pomeriggio, e l’effetto estraniante è dato dal vedere un uomo solo alle prese con un mondo che, a parte l’assenza di persone e di suoni, apparentemente è rimasto lo stesso di prima.
Gli attori coinvolti sono tutti neozelandesi e quindi sono volti poco noti alle platee internazionali, e sono pochissimi, tanto da contarsi sulla punta delle dita di una mano. Anche i cadaveri, per quanto sia importante e rivelatrice la loro presenza nell’economia della vicenda, sono persone truccate invece di manichini.
I dialoghi stringati accrescono il senso di oppressione, oltre ad aver obbligato gli sceneggiatori Bruno Lawrence e Sam Pillsbury ad un lavoro di meticolosa selezione. Per quasi metà spettacolo le battute sono rarefatte, o sono monologhi allucinati. Nella seconda metà le battute sono utilizzate per definire la personalità dei personaggi.
Il bravissimo Bruno Lawrence, co-sceneggiatore e fondatore insieme allo stesso Murphy della compagnia teatrale itinerante Blerta, interpreta il protagonista Zac Hobson. Zac è uno scienziato della Delenko Corporation e un mattino si risveglia in un mondo divenuto silenzioso. Si aggira per la città deserta, fa lo slalom tra pochi veicoli rimasti abbandonati, entra in case abbandonate, apparentemente ignaro di quanto è accaduto. Radio, tv, radiofrequenze per amatori tacciono, sono sparite le persone ma anche gli animali, sebbene non ci siano tracce della catastrofe a parte qualche macchina abbandonata. In realtà lo scienziato sapeva cosa  poteva accadere, e la sua visita al laboratorio conferma i peggiori sospetti: l’umanità è stata annientata da un esperimento, messo in atto proprio dall’ente per cui lavorava. Dovevano creare una gabbia di raggi attorno al pianeta, per ottenere energia e altri vantaggi lasciati immaginare allo spettatore. Inizialmente ignoriamo quanta consapevolezza abbia delle conseguenze dell’esperimento, in seguito scopriamo molto di più sul coinvolgimento di Zac nel progetto. Lo vediamo appropriarsi di beni di consumo costosi, procurarsi auto di lusso e abiti sempre nuovi, addirittura si trasferisce in una villa. Il consumismo e il benessere raggiunto non possono però placare il bisogno di contatti umani, e la solitudine genera pazzia. Alcune sequenze, come quella in cui spara al crocefisso di una chiesa, o si improvvisa dittatore con un look da imperatore romano e parla ad una folla di sagome di personaggi celebri che ha disposto nel prato della villa simil neoclassica, sono da antologia, per il montaggio e per la recitazione.
Non tutta la pellicola è all’altezza di quelle parti, poiché la storia, per procedere, ha bisogno anche di passaggi più prosaici. Zac finirebbe per uccidersi, sopraffatto dalla solitudine e dal rimorso, quando entra in scena un’infermiera, Johanne (Alison Routledge). Si sviluppa un legame tutto platonico con la ragazza,  partono insieme alla ricerca di superstiti, e incontrano il terzo sopravvissuto, un giovane Maori, Api ( Pete Smith). A quel punto dialoghi e situazioni sono selezionati in modo da evidenziare il delicato menage che si forma, tra battibecchi, disillusioni, memorie dolorose rimosse che tornano a galla e l’inquietante verità.
Nessuno dei personaggi è del tutto positivo, nonostante l’empatia che si crea con Zac fin dalle prime sequenze, quando ancora nudo si aggira per casa suggerendoci che qualcosa non va. Lo scienziato ha il suo segreto doloroso e convive col rimorso e con la consapevolezza d’esser stato un vigliacco. L’infermiera è tanto graziosa quanto superficiale, e probabilmente la storia d’amore che poteva nascere tra lei e Zac è morta prima di  poter iniziare, perché la donna eccita i suoi sensi e lo lascia indifferente dal punto di vista affettivo ed emotivo. Se c’è un accenno di interesse reciproco, è perché entrambi credono di essere gli ultimi uomini sulla Terra, e l’intesa è solo il cameratismo di due sopravvissuti. Il giovane Maori ha un omicidio sulla coscienza, e ricorda di essere stato affogato durante una lite causata proprio dal fatto di sangue. La confessione di Api fa tornare a galla l’amara verità nei tre superstiti...
E intanto qualcosa di indefinibile, piccoli tremori nell'aria e nella luce del sole fanno intuire che l’esperimento continuerà a dispetto della morte dei suoi esecutori e di quanto è già accaduto. Zac, consapevole di quanto ha sulla coscienza, dopo essere stato rifiutato da Johanna che gli preferisce Api, fa quanto può per non far peggiorare la situazione. Quanto il suo sacrificio abbia effetto, lo ignoriamo: forse avviene proprio, ancora una volta, nel momento più sbagliato.
Il film è invecchiato molto bene, proprio perché ha investito sulle interpretazioni e sui dialoghi piuttosto che dilungarsi in descrizioni a base di trucchi grossolani. C’è più sostanza che forma, gli attori non hanno l’appeal di divi hollywoodiani e Bruno Lawrence emerge e risalta molto rispetto alla ragazza e al Maori. Ci sono ovviamente ingenuità, soprattutto nella spiegazione dell’esperimento, o nel finale che scorre con i titoli di coda, ma nell’insieme è un gioiellino che può dar lezioni a tanti registi che avrebbero le idee, ma non i soldi.

Cuccussette vi ringrazia della lettura.

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