PARANORMAL

Refaat Ismail è protagonista di una serie di romanzi, Ma Waraa Al Tabiaa  dello scrittore e medico egiziano Ahmed Khaled Tawfik. I libri non sono purtroppo disponibili in lingua italiana, ed è un vero peccato in quanto si tratta di rari esempi di letteratura fantastica provenienti dal mondo islamico moderno che contraddicono pregiudizi radicati. A rimediare almeno in parte c’è la serie Paranormal, realizzata in Egitto e distribuita sulla piattaforma di Netflix.
Refaat è un medico quarantenne che è professore di ematologia all’Università del Cairo; accanito fumatore, si divide tra la cattedra, un matrimonio combinato dalla famiglia che rimanda sempre in quanto non è convinto e preferirebbe una collega scozzese. Nel passato di Refaat c’è stato un incontro col paranormale molto scioccante durante l’infanzia. Il professore ha cercato di dimenticare i fatti scegliendo un approccio razionalista alla conoscenza della realtà, ma il passato ritorna e con esso, creature leggendarie. Lo scettico Rafaat deve affrontare mummie di faraoni in cerca del perduto amore, mostri del deserto libico, crudeli naiadi e lo spettro della piccola Shiraz.
La serie conta solo sei puntate per adesso, con episodi autoconclusivi ma legati da due sotto trame, quella delle relazioni con la famiglia di origine e quelle relative alla magione Khadrawy ed al suo spettro. Sono avventure abbastanza semplici, mai però banali.
La serie diretta e sceneggiata da Amr Salama  sorprende prima di tutto per l’ambientazione, ci trasporta nell’Egitto della guerra civile degli anni della crisi di Suez, il 1956. E’ un periodo poco conosciuto dai giovani italiani in quanto difficilmente viene studiato a scuola. Sono gli anni Sessanta sospesi tra la voglia di modernità, la speranza di ricostruire dopo il conflitto, con una società che sta cambiando lentamente. Anche le creature sovrannaturali risentono delle tradizioni del Nord Africa, portando la serie verso le suggestioni dell’horror a chilometri zero, quello basato sull’immaginario di paesi e culture diverse da quelle occidentali.
Il protagonista interpretato da Ahmed Amin incarna le contraddizioni tra la tradizione e l’innovazione, ed è un perfetto antieroe. E’ un quarantenne poco avvenente, invecchiato presto, gracile fino dall’infanzia e malato di cuore; viene da una modesta famiglia che accorgendosi della sua fragilità fisica e della sua mente brillante ha investito su di lui per farlo eccellere negli studi. E’ stato fatto fidanzare dalle donne della famiglia con una ragazza mite e comprensiva, Huwaida Abdel Moniem, ma ama Maggie Mckillop, studiosa conosciuta durante gli studi in Scozia. Gran parte del fascino del personaggio deriva dal suo percorso umano. Refaat è fondamentalmente un uomo scettico, deride le leggende e le tradizioni, ma l’apparire di una bambina vestita di bianco fa riaffiorare il suo trauma infantile. Il doversi confrontare con l’inspiegabile porta al dovere accettare che ci siano anche fenomeni che la Scienza non riesce a spiegare e di solito neppure si sforza di capire. Passa così dal più ferreo razionalismo al dover credere. Le due posizioni creano contrasti e il professore è spesso incerto se seguire le idee moderne o ammettere le eccezioni. Diviene una celebrità nell’indagare sul paranormale, pur senza desiderare una simile fama.
Anche le scelte sentimentali mostrano il contrasto tra tradizione e modernità. In questo senso la serie ha un suo piccolo impegno civile. Da un lato insinua dubbi su quei pregiudizi che gli occidentali attribuiscono al mondo islamico. Le donne combinano i matrimoni e non vengono costrette solo le ragazze, ma anche i maschietti, come nel caso di Refaat messo insieme a Huwaida per iniziativa della sorella. Molti uomini sono manovrati dalla famiglie, o sono inetti nel gestirsi al di là della professione che svolgono. Il protagonista è goffo con le donne, ma è anche consapevole di non assomigliare a un divo del cinema e poter contare soltanto sul fascino intellettuale. Comunque lo si vede intento a stirarsi la camicia e pulire nonostante abbia a portata di mano mamma e sorella. Maggie poi è straniera, ma è un modello che viene proposto positivamente, perché è intelligente, eccelle in campo accademico e non esita a seguire Refaat nelle sue imprese. La serie non risparmia però riflessioni amare sulla condizione femminile, sebbene porte all’interno di avventure apparentemente leggere. Una bambina nata da un’infedeltà coniugale viene reclusa dal padre, e quando scoppia un incendio nessuno va ad aprirle la porta; una violenza sessuale viene taciuta con la complicità del villaggio. L’Egitto ci viene presentato come un paese ricco di fascino e di contraddizioni, sospeso tra un lontano e glorioso passato, con una decadenza resa più grave dal colonialismo, e lo sguardo verso una modernità che non sempre è raggiungibile in tempi brevi e che comunque deve trovare un ‘giusto mezzo’ per poter armonizzare l’ieri e l’oggi.
Sicuramente gran parte del successo nasce proprio dal protagonista e dall’ambientazione inconsueta. Le avventure sono abbastanza lineari, recitate decorosamente dal cast a parte Ahmed Amin che è una spanna sopra agli altri. I monologhi mentali di Refaat danno spazio alla sua bravura, così come il ritmo lento della narrazione, che dà spazio alla sua prestazione e definisce l’ambientazione.
Ovviamente si vedono gli indimenticabili panorami dell’Egitto, dalle antichità Egizie ai palazzi di gusto britannico o stile liberty, al deserto, ai villaggi tradizionali, ai Berberi con i loro accampamenti di tende di grossa lana. Come per Montalbano o per il commissario Ricciardi, le locations sono molto più di uno sfondo o di una pubblicità che spinge a desiderare di vedere coi propri occhi luoghi meravigliosi. Fanno parte delle vicende e danno gusto, contestualizzando gli eventi in un’epoca e un paese ben determinati: quanto sia una scelta vincente lo dimostrano parecchie serie attuali che sfruttano il paesaggio in modo analogo.
Gli effetti speciali sono quelli che ci si può attendere da una produzione televisiva, talvolta sono usati con ingenuità, ma nell’insieme si difendono bene nel panorama delle produzioni per il piccolo schermo. Si può obiettare che potevano calcare di più la mano con l’horror, ma non era nelle intenzioni del regista. Ha scelto di moderare le scene più crude e di far narrare le situazioni più atroci per bocca dei personaggi, forse perché è una serie pensata per piacere ad un pubblico eterogeneo per età e cultura di appartenenza, e sarebbe stato ostacolato da un rating troppo adulto.
Nonostante qualche ingenuità la serie è avvincente e ci mostra un modo di approcciare la paura diverso dai soliti horror e mistery.

 

Cuccussette vi ringrazia della lettura.

La recensione è stata edita da FENDENTI & POPCORN. Se la volete adottare, ditelo !

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