TUT
La realizzazione di un film in costume deve affrontare invariabilmente due difficoltà proprie di qualsiasi ricostruzione storica. Una di esse è la fedeltà visiva a quanto conosciamo di quel periodo che dovrebbe fare da sfondo alle vicende. Anche se la tecnologia ha fatto e fa moltissimo per offrire scenari adatti, i risultati sono spesso vistosamente artificiosi. Inoltre costumi e pezzi di scena possono essere di complessa realizzazione perché non si conoscono più le tecniche costruttive di un tempo, o anche perché la fedeltà ai canoni di un’epoca lontana e di una cultura diversa dalla nostra può distaccarsi parecchio dai canoni di bellezza attuali. In questo caso entra in ballo l’altro ostacolo, ovvero la difficoltà a calarsi nel modo di sentire di un’epoca e di una cultura diversa da quella attuale. Quasi sempre pur partendo con le migliori intenzioni otteniamo storie con personaggi d’oggi vestiti con abiti ispirati al passato e più o meno adattati al nostro gusto che si comportano come persone del terzo millennio in ambienti ricostruiti con compromessi che indignano i rievocatori e non soddisfano le platee avvezze a reality show e paccottiglia simil antica.
La miniserie americana Tut - Il destino di un faraone firmata da Russell Mulcahy purtroppo è gravata da entrambe le caratteristiche, e non solo, tanto da trasformarsi in un fantasy sciatto, o in un’ucronia disonesta. Si parte da un personaggio di cui si sa poco: Nebkheperura Tutankhamon (1341 a.C. circa – 1323 a.C. circa) è un faraone famoso solamente in quanto la sua tomba è stata ritrovata integra da Howard Carter nel 1922. Di lui si sa solamente che riabilitò il culto degli dei e di Amon, soppresso dal padre Akhenaton che voleva invece instaurare una sorta di monoteismo con il dio Aton. Il resto delle sue imprese sono solo supposizioni di cui si possono trovare incerte tracce in lettere di scrittori vissuti secoli dopo. Questo faraone salì al trono bambino, a nove anni, e morì giovanissimo per cause ancora oggi dibattute. Probabilmente non fu un omicidio a portarlo alla tomba, quanto un insieme di condizioni genetiche dovute alla discendenza da consanguinei unite alla malaria. Di fatto gli esami della mummia condotti dal professore Zawi Hawass, il celebre archeologo curatore del Mueso Egizio del Cairo e carismatico divulgatore, fanno intendere ben altro. Invece del belloccio protagonista, interpretato daAvan Jogia, c’era un ragazzo affetto da malformazioni e incapace non solo di combattere ma anche di camminare senza l’aiuto di bastoni. Nella sua tomba sono stati trovati i suoi ausili con segni di usura, chiara riprova della sua inabilità alla vita militare e anche civile. Ci sono anche due feti, poiché anche se riusciva a congiungersi con la sorella e sposa, le tare genetiche erano troppo gravi per consentire la vita ai nascituri.
Di conseguenza la miniserie dedicata a questo faraone parte col piede sbagliato. Deve trasformare la persona storica in un personaggio visivamente appetibile e per renderlo tale è costretta a negarne la disabilità e a inventare imprese mai compiute perché di lui è certa l’incoronazione, la morte e la restaurazione degli antichi dei. Tut nella serie è giovane e aitante, si veste da povero e gira nelle taverne malfamate, scende sul campo di battaglia insieme ai soldati, trova l’amore in una donna di stirpe mista e umile, vive avventure straordinarie… Anche queste scelte narrative fanno venire i capelli ritti agli storici, in quanto sono comportamenti altamente improbabili per un sovrano cresciuto nell’idea di essere letteralmente l’avatar di un dio in terra, e comunque impossibili per un adolescente malato. E’ già tanto che, in una produzione americana, gli abbiano concesso di sposare la sorella Ankhesenamon (Sibylla Deen). Per sminuire l’orrore che a noi provoca l’incesto, gli hanno fatto trovare l’amante, la bella e coraggiosa Suhad (Kylie Bunbury) che lo salva quando viene dato per morto nel corso di uno scontro, col beneplacito del generale Horemheb (Nonso Anozie) e del Visir Ay (Ben Kingsley) che congiurano ai suoi danni. Nessuno si prende la briga di contestualizzare la vita sentimentale del faraone, di spiegare che l’unione con la sorella era spesso un pro forma, e c’erano altre mogli scelte comunque in una cerchia ristretta, troppo esclusiva da impedire malattie ereditarie e deformità. Forse Tut ha un legame gay con l’amico soldato Lagus (Iddo Goldberg), scende in guerra contro i Mitanni e li vince pagando con la vita, però ogni rapporto viene lasciato all’immaginazione degli spettatori. Ci sono anche avversari di vario genere, dal generale Horemheb al Visir Ay, dal pretendente al trono Ka (Peter Gadiot) alla corte che male accetta la magnanimità del sovrano.
Che non potesse uscire niente di serio, lo si doveva capire subito, dal titolo Tut invece che Tutankhamon, neanche fosse un amico. Inoltre la Storia vera manca di troppi elementi necessari a costruire una di quelle vicende che funzionano sullo schermo. Potevano creare un documentario con usi e costumi dell’epoca, tuttavia avrebbe avuto poco appeal e sarebbe rimasto un prodotto di nicchia come le divulgazioni di Zawi Hawass. In questo senso la serie è un affastellarsi di immagini inverosimili, non solo i locali di Tebe ricreati in green screen con i personaggi che spesso si notano appiccicati allo sfondo in modo maldestro. La produzione è del 2015, non del 1995 e la grafica digitale fa un lavoro in economia, con poche scenografie vistosamente alterate che fanno rimpiangere i vecchi peplum e la loro cartapesta.
Gli ‘svarioni’ sono una costante: si va dagli stivali e sandali chiusi, inesistenti in quanto gli Egizi andavano scalzi e solo i ricchi usavano infradito ma solo in occasioni importanti, a acconciature fantasiose, degne di giovanotti in discoteca e cubiste più che delle parrucche ritrovate nelle tombe. Da scudi di legno invece che di giunco a archi troppo lunghi e potenti, a abiti colorati con la porpora in quanto la pianta della robbia non cresce in climi desertici, a stili di combattimento impossibili da attuare se lo scudo non è trattenuto al braccio da lacci, la fantasia non manca. Le scene action sono quelle che ci si può attendere da un fantasy modesto, e l’aver incluso dettagli splatter nei massacri e momenti di erotismo spicciolo peggiora la situazione. Da biopic a fumetto inconsapevolmente trash il passo è breve.
Le concessioni al gusto pulp si estendono anche ai copioni, con dialoghi spesso degni di una soap opera e completamente fuori epoca per costumi e mentalità, come la separazione dettata dalla ragione di stato che sembra uscita da Beautiful. I faraoni avevano potere assoluto, avevano tante mogli e venivano trastullati in ogni possibile modo all’interno del loro palazzo, spesso senza alcuna possibilità di disobbedire alle richieste dei Visir e della corte. Difficile stabilire quali potessero essere i sentimenti di persone nelle loro condizioni privilegiate: probabilmente il Tutankhamon più autentico è quello che commette delitti per noi male digeribili ma probabili in un contesto simile.
I personaggi sono tutti modernizzai e appiattiti, con poche eccezioni, influenzate però anche dalla forte disparità nelle capacità degli interpreti. In particolare il protagonista è impacciato, la regina non muta espressione e così Ka, e si ritrovano circondati da attori ben più capaci a partire da Ben Kingsley, che non delude mai. Il confronto è impietoso: a questo punto era meglio narrare la stessa storia ambientandola in un mondo fantasy.
Cuccussette vi ringrazia della lettura.
Questa recensione è stata edita da questo sito. Se volete adottarla contattate su Facebook Florian Capaldi
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