TITO E GLI ALIENI
E’ sempre stato difficile realizzare film di genere fantascientifico in Italia; fino all’avvento della grafica digitale ogni tentativo era condizionato dal costo troppo elevato degli effetti speciali. Oggi questo limite è caduto o perlomeno si è ridimensionato in quanto è sufficiente un’equipe di artisti specializzati per dare vita a mondi straordinari a buon mercato. Permangono però parecchi tabù culturali, in quanto l’eredità del Neorealismo ha condizionato lo sviluppo della cinematografia improntandola all’indagine della società, rigorosa oppure deformata in senso caricaturale e amaro nella commedia all’italiana. La fantascienza è stata troppo a lungo considerata un genere votato alla serie B, destinato ai ragazzini, oppure reazionario, complice anche una frangia di critici politicamente impegnati pronti a screditare qualsiasi volo di fantasia. Con l’eccezione di rare pellicole, l’Italia ha dato il meglio di sé in altri generi, nel dramma a sfondo sociale, nel film d’arte, nella commedia di satira dei costumi. Anche generi autoctoni come i peplum mitologici, i film fiabeschi, l’Ovest disincantato dello spaghetti western, hanno sempre mantenuto salde radici con il realismo. Gli eroi in sandali erano una metafora dell’uomo giusto che rovescia il regime autoritario dei tiranni, le fiabe erano radicate nel nostro folclore, e il west fracassone era una versione popolaresca e disillusa dell’Ovest americano. La fantascienza quindi era destinata a restare una Cenerentola, tra rare sperimentazioni ricche di passione e affetto, e tanti cloni poveri ispirati ai successi americani
Ricordare questi trascorsi è necessario per capire e magari apprezzare film come Nino e gli alieni, pellicola realizzata da Paola Randi nel 2017. Nino è un bambino di Napoli, orfano di madre; quando anche il padre muore viene inviato insieme alla sorella sedicenne in America, da uno zio scienziato. L’uomo vive in un container nel deserto del Nevada, vicino alla famosa Area 51. Vedovo inconsolabile, cerca di captare flussi di particelle provenienti dallo spazio in quanto crede di poter ravvisare in essi la voce della moglie. Gli unici rapporti sociali che mantiene sono quelli con altri scienziati che controllano l’esperimento, e con Stella, un’organizzatrice di matrimoni a tema fantascientifico per quanti credono agli alieni. L’arrivo dei nipoti, annunciato da alcuni dvd contenenti il testamento spirituale del fratello, sconvolgerà la sua vita...
Si tratta di una commedia dai toni crepuscolari ed intimisti, con qualche momento romantico e qualche pausa comica; tutto l’intreccio fantascientifico è finalizzato a raccontarci l’elaborazione del lutto. Gli extraterrestri contattati non sono i ‘soliti’ alieni, pericolosi come Alien, ambigui come L’uomo che cadde sulla Terra o dolci come E.T., ma sono i defunti, anime che non sono più di questa terra. Quando appaiono, sono immagini proiettate come in un film muto, con tanto di dissolvenza finale: sono ricordi, destinati a svanire dopo aver donato un briciolo di speranza a quanti restano. Le analogie tra il proiettore e il robot assemblato con pezzi di scarto che metterà in contatto il Professore con la moglie, tra la proiezione cinematografica e la trasmissione del contatto alieno suggeriscono come il cinema sia mezzo per trasmettere la memoria, per dare una speranza forse illusoria, per concretizzare desideri altrimenti impossibili. Non è un caso se compaiono anche alieni veri e propri, pronti a ironizzare sulla paura dei terrestri, così incapaci di cogliere la presenza di creature provenienti da altri pianeti e nello stesso tempo tanto desiderosi di vedere qualcosa di soprannaturale, di credere. Gli effetti speciali sono irrimediabilmente sotto tono, in quanto la pellicola è stata realizzata con mezzi limitati e soprattutto perché gli intenti narrativi sono lontani anni luce da quanto ci raccontano di solito le pellicole di genere. Tanta approssimazione formale contrasta con i movimenti di macchina elaborati e di rara efficacia, con la magnifica prova attoriale del Professore ( Valerio Mastrandrea), con la bella caratterizzazione di tutti i personaggi comprimari o secondari. Le sequenze di apertura sono rovesciate e ci immergono nello sguardo di un ‘altro’, e in svariati momenti ci sono inquadrature inusuali che suggeriscono la presenza di osservatori esterni. Tutti i personaggi si muovono nello scenario quasi psichedelico delle colline desertiche del Nevada, e sono resi credibili da copioni che vanno dritti al vero scopo del film, parlare con lievità e senza facile retorica del dolore della perdita dei propri cari. La commedia rosa si fonde al dramma e alla fantascienza, e le parti commuoventi evitano toni strappalacrime o da sceneggiata napoletana, nonostante l’uso del dialetto partenopeo. L’amalgama è in buona parte riuscito, e la pellicola riesce a toccare il cuore dello spettatore. Le sequenze dove si dà spazio al sentimento sono particolarmente riuscite: la disillusione dei piccoli quando scoprono un’America diversa da quella descritta nei depliant, Tito che crede di poter usare la foto del padre come se fosse un cellulare, il ballo del Professore con il robot... Ci sono certamente alcune ingenuità, e la parte fantascientifica le accusa tutte. Purtroppo mentre 2001 odissea nello spazio ha indagato il rapporto tra l’uomo e l’assoluto e Carpenter con il suo Starman ha trattato il tema dell’elaborazione del lutto mantenendo tutte le caratteristiche di un film di fantascienza, in Tito e gli alieni la tecnologia del futuro è un pretesto troppo esplicito per dirottare i dialoghi verso l’argomento centrale. Gli spiriti dei trapassati sono così particelle che si trovano in un preciso punto del cosmo piuttosto che essere presenti attraverso l’intero universo, fa sorridere il robot umanizzato quando interagisce con i piccoli come se fosse dotato di coscienza propria. Convincono poco le spiegazioni sul funzionamento dell’esperimento stesso, il fatto che riesca appena entra in gioco l’esuberante Tito e si scopra solo allora che il tempo a disposizione per portarlo a termine è brevissimo. Le ingenuità nascono dalle stesse caratteristiche pregevoli del soggetto, che fa della fantascienza un mezzo per trattare un argomento difficile senza niente concedere alla pietà o alla melensaggine. Non c’è escapismo e finito il volo dell’immaginazione la regista intende riportarci nella realtà. Con simili intenzioni è comprensibile come l’intreccio degli eventi si disinteressi di qualsiasi spiegazione scientifica o pseudo scientifica, e sfrutti invece un grande repertorio di citazioni dal cinema di genere, fin dalle sequenze d’apertura. Dal motto di Alien parafrasato nella sequenza d’apertura al contatto ispirato a Incontri ravvicinati del terzo tipo, dai vari ammiccamenti a Contact, a Starman, omaggi e citazioni abbondano. Altre parti sono prevedibili, come il rapporto amoroso tra il Professore e Stella, o la conclusione. Personalmente l’ho trovata troppo stereotipata, e avrei preferito di gran lunga un finale aperto, e che osasse di più. Anche tanti successi di genere sono basati su soggetti arcinoti, incluso il tanto celebrato E.T., o il visivamente stupendo Avatar; in quei casi, la storia è trita però ci sono immagini ed innovazioni tecniche tali da farli restare nella storia del cinema e quindi farli apprezzare anche a un cinofilo incallito. Nel caso di Tito e gli alieni, la delicata parabola sull’elaborazione del lutto è stupenda e toccante, il resto lo è molto meno.
Cuccussétte vi ringrazia della lettura.
La recensione è stata edita da FENDENTI E POPCORN. Se volete adottarla, contattate Cuccussette
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