OSCAR E LA DAMA ROSA

Oscar e la dama in rosa (Oscar et la Dame rose) è un romanzo breve dello scrittore e drammaturgo francese Éric-Emmanuel Schmitt; lo stesso autrore ha diretto la trasposizione cinematografica nel 2009. Oscayr è un bambino malato di leucemia ormai in stadio terminale; è consapevole del destino che lo attende e si sente abbandonato dai genitori e dal personale dell’ospedale in cui è ricoverato. I genitori non sanno gestire le emozioni e sono incapaci di assistere il piccolo, i medici ne eludono gli sguardi. L’unica presenza capace di venire incontro ai bisogni di Oscar è l’anziana volontaria dal camice rosa: la donna non gli nasconde la dura verità ed con lui instaura un rapporto basato sull’onestà e sulla fiducia. Giunge addirittura a proporgli un gioco bizzarro, l’unico capace di donare a Oscar l’effimera illusione di morire sazio dei suoi giorni. Ogni giorno Oscar immaginerà di vivere per dieci anni, e scriverà una lettera a Dio raccontando come ha trascorso quella fase della sua vita immaginaria, magari esprimendo un desiderio di natura spirituale…
Il testo, assai poetico e delicato, ha avuto numerose trasposizioni teatrali, talvolta assai pregevoli. Purtroppo non tutto quello che funziona alla perfezione sulla carta ha la stessa resa qualitativa quando viene portato su un palcoscenico, oppure sullo schermo. Oscar e la dama in rosa è stato adattato come piece teatrale, anche come monologo, e ci sono state belle performance di attori affermati. Il film invece è pressoché sconosciuto nel nostro Paese, è stato distribuito malamente in poche sale, e dimenticato assai prima di poter anche solo essere conosciuto dal pubblico o considerato dalla critica. Il flop è motivato, per svariate ragioni che hanno poco a che vedere con l’epilogo tragico e prevedibile. Il pubblico negli anni Settanta aveva gradito i lacrima movie a base di giovanissimi destinati a morire per le più varie ragioni. Da allora la fine tragica di un bambino aveva cessato di essere un tabù se narrata nel modo ‘giusto’, ovvero con una trama ben prevedibile, farcita di buoni sentimenti e priva delle crudezza che le malattie comportano nella realtà. Gli ultimi giorni del piccolo potevano rientrare in questo filone, se Schmitt li avesse raccontati seguendo gli stereotipi consolidati. Invece l’autore tratta il tema in modo diverso, lo filtra attraverso lo sguardo consapevole del protagonista e lascia da parte qualsiasi buonismo. La famiglia di Oscar è atea, finge di credere a Babbo Natale e davanti all’irreparabile neppure ha la consolazione di una fede ingenua.  Fallita la chemioterapia e l’operazione, dirada le visite o le riduce a momenti sterili, impaurita dalle domande che il figlio potrebbe porre. Il dottore vive sulla propria pelle la sconfitta e sente l’inadeguatezza del proprio sapere. La vicenda di Oscar sfugge perciò agli stereotipi e invece  va dritta verso argomentazioni più inconsuete: sfrutta il dramma umano per parlare del senso della vita, del rapporto con la divinità e del valore della fantasia come arma per opporsi alle situazioni più atroci. L’autore certamente accusa una società che rimuove la sofferenza e la morte, un sistema educativo che forse sforna abili medici eppure li lascia impreparati a gestire il rapporto con i pazienti, una religiosità che si rifugia in formule sterili. L’analisi sociale presto cede il passo alle riflessioni esistenziali di Oscar e del suo angelo custode. I luoghi comuni riguardano più l’aspetto formale della pellicola, apparentemente così simile a tante fiction ambientate tra medici e ospedali; il regista si concentra sui contenuti e lascia in secondo piano le raffinatezze estetiche. Purtroppo la scelta di privilegiare la sostanza e calarla in un allestimento modesto si rivela un errore. Se è vero che una bella confezione non salva dalla mediocrità una pellicola povera di idee, purtroppo è altrettanto vero che una confezione sciatta purtroppo impoverisce irrimediabilmente una vicenda basata sulla poesia. In assenza di virtuosismi della macchina da presa e del montaggio, con una recitazione valida ma adatta al teatro più che al cinema a causa degli importanti monologhi e con una colonna sonora dimenticabile, il messaggio di Schmitt sullo schermo diviene artificioso, e giunge agli spettatori ambiguo, a tratti catechistico.

La sceneggiatura cerca di imbrigliare i diversi piani di lettura, la denuncia dei limiti della Scienza, la ricerca del senso della vita, la scoperta di Dio, il valore dell’ironia e della fantasia quali armi per opporsi in modo positivo alle difficoltà, la malattia e l’importanza dei rapporti umani. Per conciliare i tanti temi è costretta ad alternare momenti con dialoghi un po’ troppo didascalici e pause umoristiche. Il risultato appare disomogeneo e la poesia delle pagine spesso viene sminuita. Calati nella concretezza di immagini i personaggi perdono la lievità fiabesca che li caratterizzava sulla pagina. Non è colpa di Max von Sydow, attore feticcio di Ingmar Bergman costretto a ottanta anni suonati ad interpretare il dottore dell’ospedale, o di Michèle Laroque, la Dama in Rosa divenuta una improbabile venditrice di pizze che rifornisce medici e infermieri, tantomeno dell’attore bambino che interpreta il protagonista. Tutti i personaggi sono esemplari, e portano avanti le argomentazioni sul senso della vita, senza pretendere la verosimiglianza. La Dama sa sempre cosa dire senza ricorrere a bugie, e riesce anche a suscitare qualche risata con i suoi modi sboccati e il passato, vero o immaginario, di star del catch. Il personaggio stesso, per le sue caratteristiche, non può essere realistico, così come Oscar non può essere verosimile, poiché esprime considerazioni che solo una persona adulta o anziana riuscirebbe ad elaborare in base a situazioni ed esperienze veramente vissute. Inoltre difficilmente un bambino immaginerebbe un’esistenza così ordinaria, tra cotte giovanili, crisi matrimoniali, decisioni riguardo all’avere figli; sarebbe credibile invece che sognasse un lavoro inconsueto e avventuroso, l’amore di un partner parimenti dotato, al limite una vecchiaia trascorsa nel benessere e nella fama.
Nonostante la regia dello stesso autore, è difficile credere a quanto si vede, e la sospensione dell’incredulità non funziona come dovrebbe. La fragilità della pellicola è proprio dovuta al volere essere parabola, al dover calare temi filosofici in un contesto concretissimo. E’ quasi impossibile mantenere toni da fiaba contemporanea quando le inquadrature sono tutt’altro che eteree e le situazioni suonano comunque artificiose. A teatro lo spettatore è pronto ad accettare le necessarie approssimazioni imposte dallo spazio scenico, gli adattamenti in forma di monologo o una recitazione che è una lettura espressiva corale all’insegna del minimalismo. Il cinema, e le produzioni recenti di genere fantastico in particolare, hanno rinunciato a tanta semplicità e anche quando non si giunge al barocchismo di certe ricostruzioni create dalla grafica digitale, comunque le immagini devono trasmettere la sensazione di trovarsi in un universo ‘altro’ dal nostro. La messa in scena troppo povera, con soluzioni visive scontate se non proprio sciatte, delude sia la platea colta che presto rimpiange le versioni teatrali, sia gli spettatori meno smaliziati che credevano di vedere un dramma ospedaliero oppure volevano essere stupiti da immagini spettacolari. L’ animazione forse poteva offrire soluzioni visive più astratte, negate però al cinema con attori in carne ed ossa, per quanto possano essere abili gli interpreti. Ci si ritrova così ad assistere ad una pellicola che della poesia della pagina fa una versione in prosa e riduce i voli della fantasia di Oscar a siparietti che interrompono il contesto da fiction ospedaliera. Nelle sequenze più riuscite, i momenti elegiaci stonano con quanto precede e segue; altrimenti sembra di vedere una puntata dei Braccialetti Rossi, peggiorata da intenti pedagogici troppo espliciti.

L’ambiguità è forse insita nel testo stesso, Oscar e la dama in rosa parla della vita più che d morte, del potere della fede e della forza della fantasia. La leucemia è un pretesto, un espediente narrativo necessario per motivare le riflessioni. Sebbene si tratti di una vita sognata e narrata in toccanti lettere, il gioco della Dama in Rosa regala a Oscar sentimenti sinceri e con essi, l’illusione di aver davvero vissuto un’esistenza degna di essere vissuta. Quella di Oscar è una vita virtuale, non più concreta del sogno del condannato a morte dello splendido Un avvenimento sul ponte di Owl Creek (La Rivière du hibou). Il cortometraggio, parte della serie Ai confini della realtà, narra il sogno di un condannato a morte, che nei suoi ultimi istanti di vita crede di sfuggire ai suoi carnefici e di tornare dalla propria famiglia. Purtroppo la pellicola di Schmitt non ha la grazia e la genialità della trasposizione del racconto di Ambrose Bierce, con il suo raffinato bianco e nero e la stupenda colonna sonora. La narrazione è ben più modesta e non sfrutta a pieno il linguaggio della poesia, tanto necessario quando si affrontano temi esistenziali. La platea resta spiazzata, si attende un film lacrimoso sulla malattia e trova ad assistere ad un bizzarro ibrido, che vorrebbe aspirare al realismo magico e invece stenta a trovare la sua strada. Avviene qualcosa di analogo a quanto era si era verificato all’indomani della proiezione de La vita è bella. Il film di Benigni fu accusato di aver ingentilito il dramma del lager, eppure lo scopo della pellicola non era quello di dare una rappresentazione credibile dell’Olocausto. Si trattava di far vedere come la fantasia di un padre creativo ed amorevole potesse vincere la brutalità del mondo. In Oscar e la Dama in Rosa la situazione è analoga: la malattia è solo uno strumento per parlare del senso della vita, peccato che il messaggio arrivi così affievolito.

 

Cuccussette vi ringrazia della lettura.

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