L' ENEIDE

Lo sceneggiato Eneide – distribuito anche come film, Le avventure di Enea - è figlio di tempi felici in cui la RAI proponeva opere davvero impegnative e varie come argomenti trattati, e le coproduzioni con altri Paesi erano all’ordine del giorno. Era il 1971, c’erano solo due canali e nessuno misurava lo share. Senza la concorrenza spietata di altri intrattenimenti più commerciali, era possibile anche portare sui teleschermi opere ispirate ai grandi classici, o inventate di sana pianta mescolando generi apparentemente antitetici. C’era posto anche per un antieroe come  Enea.
L’Eneide nasce dalla fantasia dello scrittore latino Publio Virgilio Marone, che voleva celebrare le fittizie origini divine del popolo Romano e dare illustri origini al suo primo imperatore Augusto.
I dodici libri raccontano il viaggio di Enea e il suo insediamento nel Lazio. Nato dal mortale Anchise e dalla dea Venere, è il capo di un gruppo di sopravvissuti alla guerra di Troia. E’ un buon guerriero ma le sue virtus stanno nell’essere pietoso, ovvero devoto agli Dei, alla famiglia, agli antenati:  un ottimo leader che cerca una patria invece che avventure, scoperte o ricchezze. Si tratta di un personaggio lontano dagli stereotipi epici cari al cinema di genere, e quindi raramente trasposto in film.
Lo sceneggiato in sette puntate da un’ora ciascuna venne realizzato da Franco Rossi, il regista innamorato della cultura classica che diresse anche l’Odissea e il Quo Vadis, in coproduzione con canali televisivi francesi, tedeschi e jugoslavi.
L’autore rifugge fin dal primo fotogramma il tono epico dei film mitologici degli anni Sessanta: prima introduce sequenze con i resti delle antichità facendoli descrivere ad una voce fuoricampo, poi ci fa conoscere i protagonisti. Rifiuta i modelli di narrazione tipici del peplum, e va verso una versione teatralizzante del testo. Compare, come già era accaduto nella precedente Odissea, un coro, ispirato a quelli presenti nelle tragedie dell’antichità. Più volte la narrazione è accompagnata da gruppi di figuranti che fungono da commentatori, ripetono nenie funebri, declamano all’unisono parti dell’opera. La voce fuoricampo di Riccardo Cucciolla segue gli eventi collegandoli tra di loro e ci sono addirittura brani recitati in latino, poi riassunti in italiano.
Lo spettatore resta spiazzato appena vede i personaggi vestiti di tuniche fatte all’uncinetto e costumi che mescolano culture diverse da quanto di solito è attribuito alla Grecia antica, disarmati o quasi. Maschere Papua, tuniche bianche sferruzzate ad arte, monili afghani e pochissimi abiti colorati danno l’idea di trovarsi in un tempo indefinito, proprio della scena teatrale più che della Storia. L’impressione è accresciuta dalle scenografie minimaliste, che quando non sfruttano paesaggi naturali ricorrono a monumenti in località esotiche come Bamiyan in Afghanistan, o nella ex Jugoslavia. E’ una scelta stilistica precisa, era quanto accadeva sui palcoscenici degli anni Settanta, c’era tanto antirealismo, costumi ed oggetti dovevano rendere l’idea di quanto veniva recitato e non necessariamente essere l’oggetto stesso. Si vedevano spettacoli ambientai in locations insolite, con tanto di cavalli fatti con sagome di legno infisse su manici di scopa e corone di carta stagnola. Nell’ Eneide vediamo scelte di quel tipo, tanto più giustificate dai costi enormi che avrebbe avuto una ricostruzione verosimile della vita di tremila anni fa. Nell’ottica di Rossi sarebbero stati soldi buttati, il risultato si sarebbe rivelato comunque inadeguato, poiché si tratta di un poema epico e si affida al lirismo e alla fantasia.
La sceneggiatura di Arnaldo Bagnasco, Vittorio Bonicelli, Pier Maria Pasinetti, Mario Prosperi e dello stesso Franco Rossi segue abbastanza fedelmente il testo, almeno per quanto riguarda i primi sei libri, quelli con il lungo flashback narrato a Didone e con il resto del viaggio. Questa parte occupa cinque delle sette puntate. L’insediamento nel Lazio, con la conseguente guerra, viene liquidato in due puntate, mentre Virgilio ha impiegato ben sei libri e forse ne avrebbe scritti altri se non fosse morto prima di poter dare un epilogo al poema o proseguire il racconto. Anche in questa occasione il regista sceglie di disinteressarsi ai combattimenti e agli eroi secondari, dedicando pochi minuti a ciascuno di loro.
C’ però una coerenza di fondo in questo apparente sbilanciamento delle parti. L’eroe è soprattutto un uomo che vuole trovare un posto nel mondo per sé e per la sua gente. Nel poema c’è spazio per mostrare come questo atteggiamento volto alla pietas conviva con l’ardore guerresco, nello sceneggiato invece c’è un uomo maturo e responsabile, spinto dagli dei e consapevole di essere solo una pedina della loro volontà. Lotta tra quelli che sono i suoi desideri e quanto hanno deciso per lui sull’Olimpo. E’ un’epica malinconica benché illuminata dal sogno di trovare un posto da chiamare Patria.  A poco vale che ci siano momenti edulcorati, che sia evitata la rappresentazione quasi splatter delle battaglie che pure c’è nel poema, o il rapporto tra Enea e Didone o con l’adolescente Lavinia sia fatto di volti vicini, di sagome sul talamo, di sguardi. Il ricordo malinconico di Troia distrutta, e delle violenze seguite alla vittoria che perseguitarono vincitori e vinti, aleggia sugli esuli e le musiche arcaiche trasmettono immediatamente l'idea di assistere a un dramma consegnato ala memoria.
Si riflette profeticamente su cosa significhi essere uno straniero. Enea supera tradimenti, tempeste, pestilenze, e supera anche i suoi sentimenti, mettendoli dolorosamente in secondo piano quando deve abbandonare Didone. Ovunque arrivi, è uno straniero, esule, guardato talvolta con curiosità, e più spesso con sospetto da gente che non ha la più pallida idea non solo dell’assedio decennale di Troia, ma anche di dove si fosse trovata la città.
Certamente ci sono i previsti momenti di lotta, ma tutti sono rappresentati senza epico compiacimento, dall’incendio di Troia al duello conclusivo. E’ difficile stabilire se sia colpa degli attori, volti noti del teatro oppure nomi jugoslavi poco conosciuti in Italia, o se sia invece una scelta coerente con il ritratto malinconico del condottiero troiano esule. Di certo le scelte del cast sono state compiute in base all’abilità recitativa e per nazionalità, visto che la produzione è internazionale. Enea è interpretato da Giulio Brogi, Didone da Olga Karlatos, Turno da Andrea Giordana, e ci sono nomi illustri del teatro italiano: sono bravissimi però non c’è nessuna stella internazionale che faccia da facile richiamo. Nessuno è stato a preoccuparsi troppo se apparivano goffi con le armi, peraltro molto sceniche e quasi sempre poco funzionali. Quindi ci sono tantissimi primi piani che valorizzano l’espressività e la recitazione di matrice teatrale, e le scene d’azione sembrano una penosa necessità. L’inganno di Sinone viene mostrato con dialoghi appropriati e la presa della città grazie al trucco del cavallo è solo un rincorrersi di uomini armati alla meno peggio tra il buio e le fiamme. Il duello finale pure è una serie di sequenze quasi a mano libera, con la macchina da presa che cerca i volti invece che i corpi nella plasticità della lotta.
Coerentemente, non vengono usati effetti speciali, nemmeno quelli che, soldi alla mano, sarebbero stati disponibili in quegli anni. Il cavallo è più nominato nei dialoghi che visto, le dee prendono l’aspetto di donne che vanno in mezzo all’umanità e ne influenzano l’agire senza mai farsi vedere nella loro vera sembianza. Anche la discesa nell’aldilà è un emergere di corpi dal buio, con un po’ di nebbia tra le rovine.
Tanta astrazione è un pregio, a distanza di anni. L’Eneide poteva trasformarsi in un polpettone kitsch, invece è un esempio concreto di cosa la televisione poteva creare: cultura.

 

Cuccussette vi ringrazia della lettura.

 

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