ORZOWEI

Svariate produzioni televisive sono andate perdute a causa di incidenti, riutilizzi della pellicola, mancata distribuzione a causa di controversie legali sui diritti d’autore; tra esse, Orzowei il figlio della savana. E’ un telefilm o meglio, uno sceneggiato a episodi prodotto nel 1977 da Italia e Germania. Divenne popolarissimo tra i giovani del periodo, aveva le accattivanti musiche degli Oliver Onions e un’ambientazione esotica che richiamava Tarzan. Prometteva avventure mozzafiato e attraeva anche gli adulti, anche perché veniva trasmessa la sera prima del telegiornale, un momento della giornata in cui gran parte della popolazione era a casa e si preparava alla cena accompagnata dai telefilm.
Diretto da Yves Allégret, Orzowei il figlio della savana venne replicato un paio di volte e poi scomparve. Fino al 2022, si credeva irrimediabilmente andato perduto a causa di un incendio, con dispiacere di quanti allora erano giovanissimi e lo ricordavano con affetto. Da qualche mese è invece ricomparso sul più famoso canale di streaming, probabilmente grazie all’impegno di fan che hanno recuperato l’audio italiano per assemblarlo con un video tedesco. E’ quindi possibile rivivere le avventure di Muhammed Isa, ragazzo bianco trovato nella foresta da un guerriero Hutzi… anche se l’amarcord può regalare amarissime delusioni.
Le allegre musiche degli Oliver Onions, lo stesso duo famoso per le colonne sonore dei film con Bud Spencer e Terence Hill, per molti anni furono cantate dai ragazzini. Se di un prodotto televisivo gli spettatori ricordano benissimo la sigla e dimenticano la vicenda narrata, dovrebbe suonare un campanello d’allarme.  Purtroppo il telefilm tanto mitizzato nei ricordi, rivisto dopo quasi mezzo secolo, sembra essere invecchiato tanto e per diversi aspetti, male.
La vicenda di Orzowei, “il Trovato”, è tratta dall’omonimo romanzo di Alberto Manzi, il maestro che insegnò a leggere e scrivere a molti analfabeti con la trasmissione “Non è mai troppo tardi”. Fedele al suo intento pedagogico, e forte di esperienze di viaggio in Paesi lontani, Manzi creò un romanzo di formazione ricco di valori educativi, ambientato nel Sudafrica coloniale del secolo scorso. Orzowei, bambino bianco adottato dagli Hutzi, è stato sempre mal accettato nel suo villaggio, a causa della pelle chiara e dei lineamenti caucasici. La stessa prova di iniziazione che gli viene imposta dal capo villaggio ha lo scopo di farlo morire. Dipinto di pittura bianca, deve sopravvivere nella foresta fino a quando il colore si scioglierà. Nessuno può aiutarlo e rischia di morire di stenti, ucciso dalle belve o per mano dei suoi stessi compaesani. Essi attendono l’occasione per sbarazzarsi di Isa in modo socialmente accettato, in quanto durante la prova iniziatica la caccia all’uomo è consentita dalla legge tribale. Nella sua quotidiana lotta per sopravvivere Orzowei conosce il saggio Boscimano Pao, che lo tratta come un figlio nonostante Hutzi e Boscimani si facciano guerra da tempo immemorabile. Anche l’incontro con i bianchi riserva cocenti delusioni… Tutto il percorso evolutivo del giovane è basato sul non essere a suo agio in nessuna delle civiltà del suo tempo, discriminato dai neri per il colore della pelle, ma anche dai bianchi per la sua religione animista e per le abitudini di vita.
L’intento antirazzista è ben dichiarato, sebbene poi debba fare i conti con tante contraddizioni, su tutte una rappresentazione dell’Africa ancora vecchio stile, oggi indigesta. Pur mettendo in scena anche neri saggi ( o “negri” perché allora si diceva così e in Italiano non ci sono le connotazioni razziste ), i loro costumi sono descritti con un senso di superiorità che nonostante tutto emerge, e si esprime con battute talvolta infelici. Colpa degli anni: la serie è la fedele trasposizione di un romanzo scritto mezzo secolo fa da un autore bianco per un pubblico di lettori europei a digiuno di etnologia, felicemente cristiani e più che soddisfatti di vivere nel mondo occidentale. Lo scarso appeal di un nero agli occhi dello spettatore è dato per scontato, tanto che si possono mostrare belle ragazze Masai saltare a seno nudo certi di non solleticare appetiti carnali negli spettatori e l’avversario di Orzowei, pur essendo esteticamente più attraente, avendo la pelle scura e poche battute crudeli resta ben lontano dal cuore delle spettatrici. Quando Alberto Manzi prova a dare spazio alla sensibilità delle culture diverse, implicitamente descrive la gente africana come naif e “inferiore”. Purtroppo l’autore e sceneggiatore non era Leopold Senghor, il carismatico statista poeta della Negritudine, cantore della bellezza nera. Era piuttosto un volenteroso mestierante spinto dall’impegno civile e il suo sguardo assomiglia ancora troppo a quello di un missionario laico, che non condanna apertamente la società tribale ma nemmeno partecipa della fierezza di essere Africano. Inoltre non prevede personaggi femminili interessanti in cui volersi identificare. E’ già una grande conquista il fatto che l’Autore abbia fatto vedere Europei poveri e superstiziosi quanto gli indigeni. Anche Paul, il Boero di mentalità più aperta, si presenta tornando al suo insediamento di misere capanne con la voglia di bere qualcosa – probabilmente alcolici. La saggezza di Pao invece rimane sospesa tra la concretezza e il linguaggio poetico, e i suoi messaggi di pace e fratellanza sono adatti ad essere compresi anche da un bambino.
La vicenda risente dell’eccessiva semplificazione dei personaggi, comprensibile in un prodotto rivolto a giovanissimi, a persone poco cosmopolite, a spettatori distratti che seguono la vicenda mentre fanno altro e attendono il telegiornale. Eroi o avversari, tutti sono bidimensionali, come nei film di avventura degli anni Cinquanta e Sessanta. O paterni e saggi, o cattivi oltre ogni dire, senza grandi sfumature intermedie. Tanta piattezza sarebbe perdonabile in una storia di avventura esplicitamente finalizzata all’intrattenimento senza troppi pensieri, sulla scia dei romanzi di Tarzan di Edgar Rice Burroughs o dell’Allan Quartermain di Henry Rider Haggard. La bellezza di quelle opere del passato e il loro successo cinematografico vanno ricercati nel sense of wonder delle avventure, nei voli di fantasia in mondi esotici, negli elementi degni di un fantasy, nell’azione ben scandita, in attori amati dalla platea. L’impegno ideologico di Orzowei invece imprigiona protagonista, villain e comprimari in ruoli prevedibili e retorici. Il giovane matura, cambia nel corso delle sue peregrinazioni, passa dal subire le vessazioni degli Hutzi a ribellarsi uccidendo gli stessi membri della sua tribù. Trova il coraggio, la sopravvivenza lo tempra, diventa uomo eppure non sappiamo cosa sceglierà d’essere. L’epilogo ha un retrogusto amaro: tutti i bei discorsi sulla pace, sulla convivenza, perdono importanza con la battaglia finale. Eppure durante tutta la vicenda sono proprio quelle riflessioni l’elemento che rende indimenticabile la storia e la separa dai vecchi film di avventure africane. Come emulo di Tarzan, Orzowei risulta fiacco e poco credibile, se non ottuso. La sua ribellione violenta è comprensibile, più difficile è voler motivare come potesse sentirsi parte della tribù quando per anni era stato la vittima della discriminazione e del sopruso. Desidera sottostare alla prova piuttosto di continuare a vivere senza ricevere il rango di guerriero e i diritti che ne derivano, e il suo padre adottivo lo incoraggia a prendere parte alla prova. Nessun dei due sembra aver capito che è un modo per sbarazzarsi del giovane e che mai gli Hutzi accetteranno un bianco nella loro società. Se Orzowei accetta con fierezza di sfidare i pericoli della foresta per senso di dignità, la scelta mal si concilia con il successivo accettare le vedute ristrette dei coloni boeri, sopportare di venire trattato dalla comunità come un animale da lavoro, umiliato con zuccheroso paternalismo nella più felice ipotesi.  Probabilmente diverrà un uomo che prosegue la sua vita sospeso tra mondi diversi ed inconciliabili, oppure si rassegnerà al doversi adeguare a quanto impone il colore della pelle, però la storia si conclude prima di dare una risposta certa, evitando ai piccoli fan il trauma di un epilogo esplicitamente amaro. Un adulto capisce che il ‘lieto fine’ non è affatto tale, in quanto l’eroe sopravvive solo grazie al manipolo di bianchi che decidono come guidare i neri e forti delle armi da fuoco impongono la loro presenza, e nessuno riesce ad evitare il massacro.
Gli attori erano in gran parte volti ignoti o non professionisti: a parte il bravo Stanley Baker (Paul), gli altri personaggi erano interpretati da comparse a bassissimo costo. Il protagonista Peter Marshall divenne per qualche mese l’idolo delle ragazzine, tanto che gli sono state attribuite biografie diverse a seconda di quale giornaletto per adolescenti dovesse raccontare qualcosa di lui. Nato in Africa da Italiani… o figlio di un ingegnere britannico che lavorava in Africa…oppure nato a Roma, italiano oppure mezzo Scozzese… Sarebbe uscito di scena subito dopo aver lavorato in questo telefilm, passando per un precoce viale del tramonto con esperienze lavorative sempre meno entusiasmanti, da artista di circo a pilota di aerei in parchi giochi sudafricani. Sarebbe poi morto in un incidente automobilistico in giovane età, ammesso che sia mai davvero esistito un Peter Marshall attore. In questo caso il condizionale mi pare d’obbligo, per la contraddittorietà e la scarsità delle informazioni, per l’aura di leggenda metropolitana che avvolge questo sceneggiato. Anticipando tante meteore degli anni 80, da Den Harrow a Baltimora, i produttori potrebbero aver costruito un personaggio su misura degli ipotetici gusti di adolescenti e bambini, affibbiando nome e cognome e biografie esotiche varie a un giovane interprete italiano, tanto atletico quanto impacciato a recitare. Per scelta o per dolorosa consapevolezza delle proprie mediocri capacità, il ragazzo si sarebbe ritirato dal mondo del cinema e avrebbe lasciato spazio alle dicerie più disparate.
Oltre all’imperizia del ragazzo protagonista, gli scenari della natura incontaminata dell’Africa de Sud si riducono a poche location riproposte per la durata delle tredici puntate: tre villaggi, un fiume, qualche scorcio di foresta. La fotografia è scialba, o così ci appare, viziati come siamo da documentari e reportage di viaggi. Le inquadrature sono funzionali alla vicenda e rivelano pochi guizzi di genialità.  Gli animali selvaggi sono imbarazzanti sequenze di footage di documentari inserite spesso in modo casuale, e la grana diversa della fotografia rivela il rozzo artificio. In alcune sequenze vengono impiegati pupazzi, e il montaggio piano, degno di uno sceneggiato d’altri tempi più che di un safari movie, rende dolorosamente evidente l’ingenuità. Tra l’altro parecchie sequenze vengono riutilizzate da una puntata all’altra. Dei venticinque minuti almeno cinque se ne vanno tra sigla iniziale, sigla di coda e riassunto, e altrettanti sono ottenuti da footage e da sequenze riproposte puntualmente.
Anche sulle varie etnie c’è una bella confusione. Al posto di robusti Hutzi, ci sono slanciati Masai; tutti indossano lo stesso abito, rosso per i Hutzi e celeste per i Boscimani. Orzowei si sentirebbe tanto Hutzi, salvo indossare la pelle di leopardo e, unico della sua gente, calza sandali e tiene i capelli senza le tipiche trecce che sono l’orgoglio di quelle popolazioni. Stranamente è più abbronzato quando lavora alla fattoria boera rispetto a come appaia all’inizio della storia… Sono dettagli apparentemente di poco conto, e tuttavia divengono significativi in quanto sono sintomi dell’approssimazione ingenua che si estende a tanti aspetti del telefilm, battaglie incluse.
Eppure la serie piaceva tantissimo, nonostante le pecche… Faceva riflettere e conquistava l’attenzione dei piccoli spettatori, intratteneva gli adulti, e nella sua ingenuità si faceva amare.
Orzowei per lunghi anni è scomparso, non è stato più replicato, né in edizione integrale né in quella versione cinematografica che fu distribuita in qualche sala. Mai arrivato in videoteca o in vendita come dvd, è un telefilm che ha lasciato un ricordo generalmente positivo sfuggendo però a qualsiasi possibilità di rivisitazione critica. Orzowei il figlio della savana – almeno fino alla recente riscoperta – ha evocato ricordi felici di bambini di un tempo, che si accontentavano della TV con due soli canali, credevano alle innocue bugie dei giornalini per preadolescenti e giocavano a imitare il loro idolo nel cortile di casa. Visto con lo sguardo innocente di un piccolo spettatore di cinquanta anni fa riesce a divertire, in quanto ha un intreccio ricco di colpi di scena, un’ambientazione esotica. Guai però se si è spettatori di oggi, adulti, abituati a incontrare gente di ogni colore, a seguire serie ben più smaliziate e esteticamente complesse! Oggi è possibile vedere nuovamente Orzowei, e la consapevolezza dei limiti di quello che si ricordava come un piccolo cult può essere uno shock, soprattutto per quanti idealizzano la TV del passato.

 

Cuccussette vi ringrazia della lettura.

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