TREMILA ANNI DI ATTESA

3000 Anni Di Attesa è una commedia romantica fantasy molto diversa dalle consuete opere del genere, troppo spesso film leggeri senza troppe pretese, buoni per un appuntamento galeotto o qualche ora col cervello in vacanza.
3000 anni di attesa ha alle spalle un racconto di Antonia Susan Byatt , The Djinn in the Nightingale’s Eye, ed è stato diretto dal padre della saga di Mad Max, il visionario regista George Miller.
Protagonista della vicenda è una studiosa di miti e racconti, la ‘narratologa’ Alithea Binnie (Tilda Swinton), una donna con alle spalle un matrimonio finito in una bolla di sapone e un presente di successi accademici. Invitata a partecipare ad una conferenza ad Istambul, non si lascia sfuggire la possibilità di fare shopping e acquista al bazaar una vecchia bottiglia di vetro celeste e bianco a righe. Appena la pulisce, ne esce fumo colorato e si materializza un Djinn (Idris Elba). Il contenitore è la prigione di uno spirito che in cambio del favore d’ essere stato liberato concede di esaudire tre desideri. Alithea è però una donna saggia, abbastanza soddisfatta della sua vita, e non è disposta ad esprimere i desideri in modo impulsivo. Ospita il Djinn nella camera da letto e si fa raccontare la sua vita. Le confessioni del Djinn portano la donna ad  innamorarsene, ricambiata…
La storia sentimentale che sboccia, pur intervallata da parecchie gag umoristiche,  è un pretesto per porre alcune domande filosofiche allo spettatore.
Il film per due terzi è ambientato in un passato leggendario o storico, contenuti da un incipit e da un epilogo nella nostra realtà. La storia lunga tremila anni che il Djinn ha vissuto tra palazzi e re, tra donne bellissime e tra crudeltà inaudite, è la parte più interessante della pellicola.
Più che raccontare storie d’amore in costume orientaleggiante, il Djinn parla di desiderio da parte dell’uomo per quanto non può avere o per quanto sarebbe bene che non desiderasse. Per riavere la libertà e tornare nella dimensione di fuoco sottile da cui proviene il Djinn si trova costretto ad assecondare i desideri degli esseri umani, che spesso fanno scelte sbagliate. E’ pur vero che ci sono forti limitazioni al potere magico, è vietato desiderare di aver 100 desideri invece di tre, è impossibile allungare la durata della vita. Magari i mortali avrebbero desiderato proprio quanto viene loro negato, e chiedono cose diverse, possibili ma non ragionate e perciò insoddisfacenti. Gran parte dei desideri esauditi non apportano benefici a chi li ha espressi, e talvolta causano la rovina. Per un motivo o per un altro il Djinn si ritrova sempre prigioniero della sua bottiglia, in solitudine, fino a quando un nuovo proprietario della boccetta lo libera. Si parla di desideri, e anche della forza creatrice della parola; tutto quanto vediamo è il racconto della narratologa, che tramanda così la sua esperienza in un libro illustrato. Niente e nessuno garantisce che quanto affermi sia la verità oggettiva, e lo spettatore più disincantato può immaginare che sia una dolce fantasia. Come nei racconti delle Mille a una Notte, la suggestione del racconto orale è l’elemento più importante, quello che stimola l’immaginazione degli ascoltatori e rende ‘vero’ quanto viene loro narrato, per quanto sia improbabile. Gli episodi sono svariati, dalla vita come oggetto di desiderio con la Regina di Saba distrutta dall’arrivo di Re Salomone, ai desideri di una schiava che voleva esser la favorita del sultano, alla brama di conoscenza e d’amore di una giovane, alla tragedia del principe Mustafà… Le vicende si susseguono come nelle Mille e una notte; nella raccolta di novelle persiane, egiziane, arabe le descrizioni sono dettagliatissime e creano l’atmosfera. Il barocchismo visivo usato nei racconti del Djinn è la traduzione in linguaggio cinematografico del tipo di narrazione orientale. In questo senso l’estrema cura formale, i costumi appariscenti, le scenografie da fiaba e i tanti effetti speciali sono parte integrante della narrazione e perciò sono irrinunciabili.
Il sentimento che sboccia tra l’affascinante Djinn e la studiosa nasce dalla complicità e dall’affabulazione che la creatura sovrannaturale crea nel corso della lunga narrazione. Gran parte delle commedie romantiche tradizionali sono costruite attorno a situazioni concrete ed esplicite, finalizzate all’esaltazione del sentimento. Raramente presentano elementi di distrazione rispetto allo scopo principale della vicenda, che deve marciare verso il bacio e i fiori d’arancio una convivenza o almeno un ricongiungimento. In questo caso invece il sentimento accompagna la (ri)evocazione dei fatti, senza pretendere il primato. Non mi pare casuale se entrambi gli attori sono bellissimi oltre che molto bravi, e ce il fanno vedere lui in accappatoio o infagottato in cappotti e lei con abiti da vecchia zitella. Sarebbe stato fin troppo facile esibirli in modi espliciti, giocare sul sex appeal, mentre è molto più sorprendente negare scene erotiche tra il Djinn e la protagonista e lasciare il facile richiamo del sesso confinato nei ricordi, nella reggia della Regina di Saba, nei desideri della favorita, o nell’harem del fratello inetto del Principe che si trastulla con donne enormi secondo il gusto dell’epoca.
Quando si parla d’amore, la vicenda assume sempre un tono malinconico ed epico; il Djinn è fatto di fuoco sottile ed è presumibilmente immortale, mentre la donna è fatta di polvere e destinata a morire. Per loro non può esserci un lieto fine in senso tradizionale, ma la sceneggiatura non insiste tanto su questo aspetto quanto sul fatto che entrambi sono condannati alla solitudine ma le due solitudini possono incontrarsi e darsi sollievo. Anche se fosse tutto un parto della fantasia dell’accademica sarebbe comunque un momento di riflessione che rende migliore la vita di Alithea.
Attori fantastici, bravissimi e piacenti; un allestimento sorprendente per eleganza, con effetti speciali appariscenti e un’ambientazione suggestiva; un modo originale e poetico per raccontarci l’amore, il desiderio, la solitudine.  Questo film era nato per andare in sala, e ha avuto la prima alla 75ª edizione del Festival di Cannes, dove è stato presentato fuori concorso e ha avuto grande successo. Al Festival va una platea attratta dal red carpet e dalla mondanità, oppure esperta e dotata di gusti educati al buon cinema. La gente comune al botteghino è ben diversa e, complici i divieti per il nudo e la violenza, purtroppo ha snobbato la pellicola, che viene distribuita per l’home video o in streaming. L’insuccesso è in parte comprensibile, in quanto la gente come sente parlare di Djinn pensa al Genio di Alladin, quello blu che abita nella lampada di ottone. Trova invece Idris Elba con la barba bicolore e il suo fascino d’artista e di uomo. In tempi di live action, tanti si aspettavano le confessioni del Genio di Alladin.
Vede poi la bella e falsamente austera Tilda Swinton , e sogna scene erotiche che non ci sono, non perlomeno con una carnalità esplicita.
C’è molta azione, mai fine a sé stessa, mai tesa a fare del Djinn un superuomo da cinecomic. L’azione e la violenza che ne deriva servono per far risaltare quanto siano futili e insensate le pretese umane: non ci sono mai figure del tutto positive, anche quando l’amore è rivolto alla sapienza o a un amico.
Come commedia sentimentale, non si ride tanto: lo spettatore cerca due ore di roseo sogno romantico, e trova qualcosa che non corrisponde agli stereotipi del cinema sentimentale. I messaggi che portano a riflettere rendono la visione meno disimpegnata del previsto.
C’è però da augurarsi che, come alcuni film lontani da schemi e luoghi comuni, sia rivalutato e fatto conoscere. Se lo merita stavolta.

 

Cuccussette vi ringrazia della lettura.

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