LA CITTA' PERDUTA \ LA CITTA' DEI BAMBINI PERDUTI

 

Uno scienziato pazzo, incapace di formarsi una famiglia, si diletta di genetica. Prova a fabbricarsi come consorte una splendida principessa ma gli esce un’acida nana; passa allora a realizzare dei cloni di sé stesso, e nascono sei gemelli pavidi e inetti. Infine, nell’intento di generare l’uomo più intelligente del mondo, dà vita ad un bambino: Krank.

Isolato su una piattaforma al largo di una città portuale, destinato a cadere in una progressiva pazzia a causa della sua incapacità di sognare, Krank commissiona rapimenti di bambini nella speranza carpire i loro sogni tramite una sofisticata apparecchiatura. Nei bassifondi della città, quindi, le sparizioni si fanno sempre più frequenti.

Un giorno l’orfana Miette, obbligata da una coppia di terribili sorelle siamesi a fare la ladra, si dà alla fuga e incontra One, un ex ramponiere dall’animo naïf, il cui fratellino Denrée è stato rapito proprio da Krank. Alla ricerca del piccolo, i due vivono mille peripezie, confrontandosi con vari pericolosi personaggi, compreso il folle Krank. Il tutto è narrato da Irvin, un cervello artificiale che vive in un acquario sulla piattaforma.

La città dei bambini perduti (La cité des enfants perdus, 1995) è un film franco-spagnolo diretto da Marc Caro e Jean-Pierre Jeunet, girato totalmente in studio. Qualche anno fa le riprese in interni erano un obbligo imposto dalla povertà di mezzi, e un esplicito sinonimo di B movie. Nel caso di questa pellicola, si tratta invece una scelta volontaria e precisa. Per attuarla vengono impiegate tecnologie vecchie e nuove. Sono stati costruiti palazzi e canali, la piattaforma stessa è un modellino immerso in una piscina, e alcuni oggetti sono stati fabbricati in scala per dare profondità alle scene. L’uso di set appositamente realizzati si affianca all’utilizzo del blue screen, e le tecniche di ripresa tradizionali si fondono con la grafica digitale. Ogni fotogramma è ritoccato da software che integrano le scenografie e uniformano i colori rendendoli più cupi. Le inquadrature sono estremamente curate, e non è un caso: Marc Caro è un artista poliedrico, che alterna l’attività di regista a quella di grafico realizzando cortometraggi, spot e video installazioni. L’eleganza formale è finalizzata a raccontare dettagli di un mondo lugubre e particolari utili al dipanarsi della vicenda.

Il trucco spesso ricorre a protesi in lattice o a veri e propri congegni meccanici, come la macchina per rubare i sogni o l’occhio bionico dei Ciclopi, o lo stivale che trasforma due attrici nelle sorelle siamesi. I costumi sono stati ideati dal celebre stilista Jean Paul Gaultier, famoso per le sue creazioni di alta moda, e si accordano alla perfezione con lo spirito della pellicola.

Da segnalare la colonna sonora, opera del ‘nostro’ Angelo Badalamenti, noto per le collaborazioni con David Lynch.

Non mancano le citazioni cinefile. Le disavventure di Miette e del suo tenero e impacciato amico ammiccano alle comiche di Buster Keaton e al Monello di Chaplin. Tutti i personaggi hanno toni grotteschi, rifuggono la normalità e richiamano i Freaks di Tod Browning, o le creature di Fellini: One si esibisce strappando le catene in una scena che ricorda da vicino lo spettacolo di Zampanò ne La Strada. Il truce direttore del circo invece ammaestra le pulci, bestiole un po’più perfide di quelle che volteggiavano sotto la Luci della ribalta. Il dialogo tra Krank e il bambino rapito è una rivisitazione del Nosferatu.

La città dei bambini perduti potrebbe sembrare l’ennesimo film per ragazzi, a una prima occhiata distratta. Non basta però scegliere una protagonista minorenne, inscenare atmosfere degne di Oliver Twist e raccontare un’avventura a lieto fine, per attrarre i più giovani. Occorre catturare l’attenzione con personaggi accattivanti e vicende grottesche e macabre quanto basta, e in questo senso il film soddisfa solo fino a un certo punto le platee adolescenziali, le quali troveranno difficile potersi identificare con i protagonisti: sono creature fragili, perdenti, lontane anni luce dalle bellezze che occupano le prime pagine dei magazine per teenager. Dimorano in un mondo oscuro, dove la vita ha un prezzo basso, il crimine è all’ordine del giorno e il sole non splende mai. I personaggi rispecchiano poco i anche i canoni delle storie per bambini: Miette si comporta come un’adulta e appare come una donna in miniatura, mentre One sembra adulto ma è di un’ingenuità disarmante.

Come in tutte le storie ci sono buoni e cattivi, ma soprattutto ci sono persone, con pregi e debolezze. Lo stesso Krank (Daniel Emilfork) è la vittima delle ambizioni dello scienziato che l’ha messo al mondo. Pare che la Fata Genetica abbia giocato strani scherzi a tutti quanti: uno spettatore maturo riesce a parteggiare per queste creature contorte, un giovanissimo si appassiona meno.

Le scene di violenza abbondano; anche se i dettagli più macabri rimangono sottintesi, grazie a una sceneggiatura ben costruita, alcune scene risultano davvero indigeste, se immaginate attraverso gli occhi di un bambino: le sequenze della droga che porta alla follia i tre Ciclopi punti dalle pulci, One che si trasforma in un bruto, la fine delle sorelle siamesi…

La cornice è quella di una fiaba a tinte cupe, e davvero ambiguo è il legame che si forma tra la piccola Miette e One. La bambina (Judith Vittet) dovrebbe avere nove anni, ma ne dimostra di più; è maturata sulla strada, era a capo di una baby gang, assomiglia a una modella in miniatura, ammicca alle Lolite dei manga, come pura e a Olivia, la fidanzata di Braccio di Ferro. One (interpretato da Ron Perlman) guarda caso è un ramponiere, un marinaio, ed è un adulto; è una montagna di muscoli, forte e di animo innocente, si guadagna da vivere come artista di strada facendo prove di forza. La relazione tra i due rimane volutamente in bilico tra quella di fratello-sorella e qualcosa di diverso. Ovviamente non si arriva a particolari espliciti: ci sono scambi di sguardi che ricordano Lolita di Stanley Kubrick, One dorme su delle balle di farina abbracciato alla bambina di cui si intravedono le gambe nude, si fa tatuare ‘Miette pour la vie’ sull’avambraccio, la coccola, le sussurra all’orecchio… Uno spettatore giovanissimo forse non se ne accorgerebbe, o magari sì, come se ne rendono conto i compagni della gang, mentre l’immaginazione meno sana potrebbe navigare a gonfie vele nel torbido mare della pedofilia.

Forse proprio questa ambiguità, in Italia, ha relegato la pellicola esclusivamente nel mercato dell’home video: distribuita malamente, in sala non è mai giunta, con buona pace di quanti amano le fiabe d’autore per adulti. Con qualche sforzo è reperibile in DVD; se vi capitasse tra le mani, non perdete questo titolo. Sospeso tra omaggio all’horror del passato e alla fantascienza steampunk, il film incanta e sorprende.

 

Cuccussette vi ringrazia della lettura.

Questa recensione è stata edita da TERRE DI CONFINE  https://www.terrediconfine.eu/la-citta-dei-bambini-perduti/

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