L' UMANOIDE

Metropolis, pianeta della galassia di Eraklon, sta per affrontare il suo momento più drammatico. Lord Graal è appena evaso dal satellite-prigione dove suo fratello, capo della pacifica Metropolis, lo aveva esiliato. Malvagio ed assetato di potere, Graal ha propositi di vendetta che potrebbero alterare per sempre il destino della democrazia galattica…

La didascalia, letta da un invisibile Narratore, scorre sullo sfondo costellato di stelle e ci trasporta nello spazio profondo di un universo lontano lontano. Un’astronave della Polizia Spaziale insegue un altro velivolo, intima l’alt e, per tutta risposta, viene disintegrata. A bordo non vi sono comuni criminali, c’è Lord Graal in persona.

Stanco della pace e intenzionato a liberarsi del fratello, Graal spedisce su Metropolis un commando di soldati incaricandolo di rubare il Kappatron – una potente arma segreta capace di trasformare qualsiasi uomo in un essere quasi invincibile – e uccidere tutti i testimoni.

Al massacro scampa solo la ricercatrice Barbara Gibson, grazie all’avvertimento ipnotico del giovane tibetano telepate Tom Tom, suo allievo.

Operato il furto, Lord Graal fa rotta verso Luna Noxon, dove l’aspettano la sua amante, Lady Agatha, e Kraspin, il folle inventore del Kappatron (fatto fuggire dal manicomio criminale proprio da Lady Agatha che, per mantenersi giovane, si serve di un siero ideato dallo scienziato stesso).

Il primo soggetto su cui viene sperimentato il Kappatron è Golob, un gigantesco custode coloniale rimasto isolato su una nave in avaria, che ha la disgrazia di trovarsi sulla stessa rotta di Lord Graal e la cattiva idea di chiedergli aiuto. Catturato e trasformato in un Umanoide di forza smisurata, controllato tramite una sonda innestata sulla fronte, viene depositato nei pressi di Metropolis a seminare distruzione. L’unico che riesce a fermarlo è Tom Tom, per mezzo dei suoi poteri ipnotici. Rimuovendo la sonda che ne condiziona il comportamento, il giovane riesce addirittura ad ammansirlo.

Nel frattempo Barbara Gibson viene catturata dai soldati di Lord Graal; la ricercatrice, rea a suo tempo di aver denunciato l’amorale Kraspin alle autorità, è infatti nel mirino dello scienziato, che pretende vendetta.

In soccorso di Barbara partono Nick (il capo delle guardie di Metropolis), Tom Tom e l’ormai rinsavito Golob. Abbattuti dalle astronavi nemiche, precipitano su Noxon, in prossimità della base di Graal, e corrono a liberare la bella, sconfiggere il crudele Lord, fermare Kraspin, salvare Metropolis e l’universo…

FANTASCIENZA BAMBINA

L’ Umanoide è stato realizzato in seguito al successo di Guerre Stellari ed è contemporaneo del più noto Star Crash. È una produzione girata in autarchia, che presenta alcuni pregi e parecchi difetti tipici del cinema di fantascienza “made in Italy”.

Molte sono le ingenuità nella pellicola di ALDO LADO (o GEORGE B. LEWIS ). Talvolta sono imputabili alla mancanza di effetti speciali adeguati, già a partire dai titoli di testa, che poco si differenziano dalla didascalia che li segue, rendendola meno incisiva: lo sguardo dello spettatore rischia di scivolarvi sopra e passare oltre. Anche Guerre Stellari si apre con la famosa scritta che scorre in sovrimpressione per aiutare a immaginare un mondo del futuro, fiabesco; l’incipit de L’Umanoide narra invece gli eventi che precedono la carrellata iniziale sull’astronave di Graal, antefatti che, sceneggiatura e budget permettendo, avrebbero anche potuto essere mostrati sullo schermo in tutta la loro concretezza.

I soldati nel laboratorio risultano involontariamente goffi, così incerti su quale involucro aprire per trovare la sostanza pericolosissima; il recupero del Kappatron assume toni sospesi tra il “gioco delle scatole” di un celebre quiz, e la ricerca del cervello adatto alla costruzione del Mostro di Frankenstein.

Il capo di Metropolis viene chiamato Grande Fratello: facile citazione dei capolavori di FRITZ LANG e di GEORGE ORWELL, resa oggi tragicomica dall’omonimo reality show. Il buon leader decide comprensibilmente di tacere sul furto dell’arma; nemmeno per un istante sospetta un’eventuale complicità tra Barbara Gibson e Graal e Kraspin. Un paio di battute spiegano i rapporti tra la protagonista ed il mad doctor, si crea un breve background, tale da giustificare tanta fiducia nella donna da parte del Grande Fratello e tanto odio da parte del geniale scienziato. Ma le spiegazioni biografiche aggiungono poco alla trama, purtroppo, poiché si affastellano senza dispiegarsi in scene e sequenze ben strutturate.

Il Grande Fratello, pur essendo a capo di un’oligarchia e quindi coadiuvato dai Cinque Maggiori, decide in prima persona ed incarica il capo della Sicurezza, Nick, di ricostruire gli eventi (eventi che però già ritiene concatenati, alla faccia di ogni ragionevole dubbio, quasi avesse letto quello che prevedeva la sceneggiatura, come Lord Casco in Balle Spaziali!). Mentre ministri, segretari, o assistenti, tutti compaiono di sfuggita, tacciono e si fan da parte.

Gli sforzi per motivare le azioni di personaggi altrimenti troppo elementari, e regalare loro un passato – seppure fatto di esili battute – sono deleteri, al pari delle troppe coincidenze. Tutti conoscono tutti, e lo spettatore riceve l’impressione che in quell’universo, in apparenza sconfinato, ci si comporti come in un feudo di duemila anime, dove niente accade per caso.

Anche i costumi tendono quasi sempre a confermare stereotipi radicati: così che, all’apparire dei vari personaggi, lo spettatore capisce da subito cosa aspettarsi da loro. Nero e rigido il Cattivo, dark e sexy la Cattiva, bianchi e monacali il buon Grande Fratello e la Dama in Pericolo, beige (come i cavalieri Jedi?) per il giovane avventuroso… Non c’è bisogno di lunghe spiegazioni, i personaggi entrano in scena e agiscono proprio nel modo previsto, un po’ come avveniva un tempo con le maschere della Commedia dell’Arte.

La principale debolezza della pellicola è probabilmente costituita dagli scarni dialoghi. Alcune battute risultano quasi ridicole; ad esempio, quando Graal chiede al suo fido scienziato come mai sia certo che il grosso tecnico Golob sia l’uomo ideale per l’esperimento col Kappatron, il folle genio rivela che… glielo ha detto il computer!

La protagonista Barbara purtroppo non ha il carisma di Stella Star di Star Crash; la sua lotta contro i malvagi è narrata a parole più che mostrata con fatti. Addirittura, scappa strillando a gambe levate e abbandona il piccolo Tom Tom alle prese col violento energumeno cibernetico. Poi, con la brillante idea di andare da sola a mettere in guardia il Grande Fratello, s’infila nei guai facendosi rapire.

Difficile affezionarsi a Nick, per molti aspetti il ruolo rimane poco definito. È il capo della Sicurezza, il capitano della Guardia? È un mercenario? È un rampollo dell’oligarchia? È il compagno di Barbara? Piomba sullo schermo, lo incontriamo con i signori di Metropolis, vediamo che sa pilotare l’astronave, spara con l’esultanza di un ragazzino che giocasse a “Space Invaders” nel bar del paese, e se occorre combatte a mani nude. Ce lo mostrano impegnato in scene d’azione, che potevano risultare avvincenti soltanto se si fosse instaurato un certo coinvolgimento emotivo: siccome nulla sappiamo di lui e poco ci viene rivelato, Nick rimane un estraneo.

Discutibile anche la scelta di affiancare il cane robot al grosso umanoide: introduce pause umoristiche degne delle giocose risse di Uno sceriffo extraterrestre poco extra e molto terrestre, commedia a base di scazzottate in cui un ragazzo alieno fa amicizia col voluminoso sceriffo BUD SPENCER. Film divertente e garbato, tuttavia destinato ad un pubblico familiare.

Questo è l’altra grossa pecca: in genere, ogni pellicola – o piuttosto, ogni opera di ingegno – cerca di rivolgersi in modo più o meno consapevole a un determinato target di utenti, più o meno ampio. In rari casi è davvero possibile soddisfare fasce di età diverse, più spesso la scelta di coinvolgere i più piccoli condiziona gli interi contenuti trattati, limitando i particolari cruenti o erotici, così come problematiche sociali o esistenziali. Nel caso de L’Umanoide, ci sono scene di nudo e di tortura che a suo tempo vennero censurate, almeno in parte. Si tratta di sequenze poco adatte ai bambini degli anni Settanta così come a quelli di oggi. Eppure le prodezze di Tom Tom e del gigante buono accompagnato dal cane robot cercano di strizzare l’occhio proprio a spettatori giovanissimi.

A mano a mano che la vicenda procede, i personaggi adulti vengono relegati in secondo piano, finendo per diventare meno importanti. Si dimostrano inetti, insipidi o perversi. Si ammirano le grazie di Barbara Gibson con l’abito bianco bagnato, e le scollature generose di Lady Agatha, e non si può fare a meno di Lord Graal, del dottore pazzo e anche del baldo eroe, ovviamente, ma alla fine, eccezion fatta per le parentesi horror di Lady Agatha, tutti sembrano declassarsi a far da accessori, poco più che comparse necessarie ad animare la scena attorno a Golob e Tom Tom.

Purtroppo c’è una specie di radicale cambio di target, e ahinoi avviene in itinere.

Alla fine non si sa se si tratti di un film per adulti che non ha saputo sopravvivere alle censure e portare all’estremo atmosfere sado-maso e gotiche, o piuttosto una pellicola per ragazzi che a malincuore ha dovuto inserire qua e là particolari per adulti, in modo da potere essere meglio distribuita. Mettendo da parte per un istante i dubbi su cosa, quanto e come possa essere mostrato ai giovanissimi, resta il fatto che i piccoli scalpitano all’idea di fare o vedere cose “da grandi”, mentre gli adulti sbadigliano davanti a situazioni ingenue o bambinesche. Tanta indecisione nuoce a L’Umanoide assai più dei mezzi tecnici ed economici inadeguati.

Telefilm come i britannici Doctor Who o Zaffiro e Acciaio furono anch’essi a basso costo, e la ristrettezza si vede tutta, si traduce in interni spogli o in trucchi rozzi, tuttavia non va mai ad incidere sulla sceneggiatura, sull’interpretazione o sulle atmosfere evocate. Esse a volte sfiorano temi adulti, attraverso giochi di parole e particolari non così evidenti, in modo che l’adulto colga e il bambino non ci faccia caso. Non si può dire che avvenga lo stesso ne L’Umanoide, purtroppo.

C’ERA UNA VOLTA…

I personaggi mancano di introspezione, anche rispetto agli esili cliché della fantascienza pulp; tre di loro, tuttavia, si rivelano interessanti, proprio perché appaiono alternativi rispetto alla consuetudine narrativa di genere, oppure perché concretizzano libidini, incubi e paure di rado confessati al cinema.

Lady Agatha ricorda nella sua sete di siero e sangue la contessa Erzebeth Bathory e i vampiri in genere, quelli dell’omonimo film di Freda in particolare. Una dark lady stereotipata negli intenti ma esplicita nella sua trasgressività. Le sadiche torture consentono di mostrare addirittura – era il ‘79 – un seno nudo, e sono ereditate dal fumetto horror erotico europeo. Le sequenze in cui l’infernale macchina che serve a produrre l’elisir della giovinezza risucchia i fluidi dalle giovani vittime rappresentano, ancor oggi, una discutibile quanto coraggiosa fusione di erotismo e orrore, che una pellicola d’oltreoceano, soprattutto se prodotta a Hollywood, mai avrebbe mostrato, pena di incorrere nella censura. Alcune di quelle scene sono state a suo tempo effettivamente tagliate, e sono riapparse adesso in versioni integrali!

Altrettanto interessante, e assai meno consueta, la figura dell’Umanoide. Di solito, soprattutto sul grande schermo e prima di Blade Runner, i robot erano macchine, prodigi della tecnologia, e non avevano nulla di vivo. L’Umanoide è diverso; fa pensare al Golem, per il fisico gigantesco vestito di abiti color polvere che tendono a rendere rigida la figura, e perché viene controllato tramite una sonda, posta sulla fronte. Il Golem delle leggende degli Ebrei di Praga veniva animato tramite il potere della parola “Verità” (Emeth) incisagli sulla fronte. Come il Golem viene distrutto cancellando l’aleph iniziale della parola (che diviene Meth, ovvero “Morte”), l’Umanoide ritorna ad essere buono una volta rimossa la sonda.

Se l’origine è antica, l’aspetto e le azioni della creatura di ALDO LADO anticipano quello che sarà un successo americano, posteriore di parecchi anni: Terminator. Le analogie col guerriero bionico venuto dal futuro sono a dir poco sorprendenti. Entrambi sono combattenti creati dalla scienza, con volti inespressivi – almeno fino a quando non recuperano la propria umanità –, guidati da qualche scellerato potente. La differenza è che l’Umanoide italiano è molto più vecchio del cyborg americano, mentre di solito Hollywood precede Cinecittà! Prova evidente che molti registi italiani avrebbero inventiva da vendere, ma che questa dote viene spesso lasciata da parte per compiacere la logica di produzioni più convenzionali. Notevole la scelta di far sconfiggere Lord Graal dal gigante buono, piuttosto di scegliere una scontata vittoria del bel giovanotto.

Il motivo d’interesse per il terzo personaggio, Tom Tom, si allaccia alla suggestiva idea del viaggio nello spazio e nel tempo; un proiettarsi altrove grazie al potere della mente. D’altra parte, alcune scritture dei Lama indicano una cosmologia assai complessa secondo cui nell’universo coesistono diverse dimensioni, ciascuna popolata da entità diverse.

Tom Tom proviene dal Tibet di secoli prima, e lo vediamo incontrarsi con altre entità che non appartengono alla realtà di Barbara e di Graal. Il ragazzo è un deus ex machina, per certi versi può quindi risultare antipatico; i suoi poteri mistici risolvono praticamente tutte le situazioni disperate: la premonizione dell’agguato, la miracolosa umanizzazione di Golob, i contatti con misteriosi salvatori armati di archi e frecce laser, l’aprirsi e chiudersi di portelloni in momenti provvidenziali ecc…

Tom Tom è una presenza resa necessaria dall’inconsistenza della sceneggiatura, ma almeno è insolita e poetica. È una sorta di “angelo custode” buddhista, un individuo che, meritevole di raggiungere il Nirvana, accetta di “fermarsi” nel mondo e di aiutare chi ha bisogno. In mezzo a tanta semplificazione di personaggi, caratteri ed eventi, sorprende la mancanza di una definitiva vittoria del Bene sul Male, tipica della mentalità puritana. Per bocca di Tom Tom, apprendiamo che il Male non può venire sconfitto, ma solo combattuto.

Un tocco realistico giunge dagli effetti speciali, curati dal maestro ANTHONY DAWSON (o ANTONIO MARGHERITI) a sua volta regista di pellicole di fantascienza. Sono ovviamente realizzati con tecniche artigianali e grande creatività. Proprio nell’uso sapiente di modellini di grandi dimensioni ed effetti ottici azzeccati il film ritrova una sua bellezza naif ma avvincente. Le astronavi si muovono in modo vettoriale, come qualsiasi corpo che attraversi il vuoto. Non corrono né compiono manovre inverosimili. Atterrano lente in grandi hangar e hanno dimensioni proporzionate alle figure umane poste vicino – mentre spesso le astronavi cinematografiche risultano piccole rispetto ai loro piloti.

Molto particolari le sequenze dell’attacco dell’Umanoide, girate in un palazzo in costruzione, forse un hotel o un centro congressi, un set che ben si fonde con altri modellini di Metropolis più o meno dello stesso colore. Anche gli hangar dovevano essere stati veri capannoni, o teatri di posa vuoti.

MARGHERITI ha fatto miracoli con un budget nemmeno alla lontana paragonabile a quello dei film americani, e la passione del bravo regista trasuda da ogni inquadratura. Un buon montaggio valorizza tutte le trovate, e la fotografia riesce a rendere interessanti luoghi e situazioni altrimenti sciatti e banali.

Le musiche di ENNIO MORRICONE sono un misto tra sinfonico ed elettronico, e spesso ricordano le sinfonie di Beethoven. Possono anche non entusiasmare, comunque hanno un loro stile preciso che ben accompagna il film, ed ammicca alla fusione di passato e futuro tipica del sottogenere fantascientifico detto “space opera”.

POP ART

Fin dalle prime inquadrature, si capisce che si tratta di un film girato parecchi anni fa, nato sull’onda del successo mondiale di Guerre Stellari. Ma le somiglianze con il grande classico si limitano a costumi e ambientazioni, e riguardano più la forma che i contenuti o le atmosfere. Avviene qualcosa di analogo allo “spaghetti western”, che ha rivisitato l’epopea della colonizzazione degli Stati Uniti alla luce di una disincantata, affettuosa ironia.

Nel caso de L’Umanoide, situazioni e stereotipi vengono sviluppati con spirito ingenuo e trasgressivo. L’umorismo è semplice, diretto, in parte ereditato dalla “slapstick comedy”. Non ci sono pretese di analisi sociale tramite paradossi ed utopie, e nemmeno compaiono citazioni continue di altri film, in modo da solleticare la curiosità degli appassionati o accontentare i critici. ALDO LADO vuole far passare un’ora e mezza senza pensieri, in un universo da favola, tutto di evasione. Nessuno, a partire dal regista, si vergogna di assolvere tale compito.

Mentre Star Crash, altra space opera made in Italy del periodo, si sforza di emulare la saga di GEORGE LUCAS, e gioca la carta delle continue citazioni di altre pellicole, L’Umanoide cerca una maggiore autonomia narrativa. A suo modo raggiunge l’indipendenza dai modelli più famosi, nel senso che interpreta un futuro medievaleggiante con spirito naif e fantasia degna di un vecchio peplum.

Nel cast ci sono anche attori che avranno una carriera abbastanza fortunata, come il gigantesco protagonista RICHARD KIEL, meglio noto per l’interpretazione di Squalo nella saga dell’Agente 007, o CORINNE CLÉRY, passata poi alle fiction nostrane. Le musiche sono del Premio Oscar ENNIO MORRICONE, gli effetti speciali sono curati da un vero maestro… eppure resta un “B-movie”.

O meglio: un capolavoro del trash!

Gran parte dei B-movie sono dimenticabili e mediocri, nel senso che fanno di tutto per apparire migliori secondo i criteri estetici dettati dai critici “seri”, ovviamente senza riuscirci; L’Umanoide cerca solo di divertire in modo fracassone e sgangherato, riunisce tantissimi stereotipi del cinema di genere, privilegia gli aspetti pulp e li enfatizza.

Oggi appare assai datato, molto più di Star Crash; e fa sorridere. La carica sadomaso si è attenuata nonostante l’impeccabile montaggio, visto che oggi le donnine spogliate invadono i teleschermi anche per pubblicizzare gli spaghetti, mentre il telegiornale ci mostra scene assai più raccapriccianti. Un eroe come Nick verrebbe accolto con sonore pernacchie dalle ragazzine, che di certo non vorrebbero essere imbranate quanto Barbara Gibson!

Perché allora merita vedere, almeno una volta nella vita, un film simile?

Forse, perché è così brutto da diventare sublime, come Plan 9 from outer space di EDWARD D. WOOD JR. O, piuttosto, perché ha la bellezza dei quadri di ROUSSEAU IL DOGANIERE, il pittore che raffigurava giungle surreali senza aver frequentato l’Accademia e senza dar peso a regole compositive di prospettiva e proporzioni.

Inoltre, L’Umanoide scorre, non promette di essere un impossibile capolavoro, magari involontariamente fa ridere, trasmette allegria… e ha un fascino tutto amatoriale. È un modello di cinema alla portata della gente comune, sia come contenuti che come stimolo a partecipare direttamente alla Settima Arte. Non lasciamoci ingannare dai nomi famosi coinvolti: a parte i plastici realizzati da artigiani specializzati, e la colonna sonora, gran parte degli effetti speciali è oggi alla portata dei cineamatori volenterosi armati di videocamera e computer. In teoria, è difficile che un affiatato gruppo di appassionati di fantasy o fantascienza non disponga di un modellista, di un amico con la cinepresa, di un PC con installato un programma di ritocco grafico, uno per animare le gif necessarie a creare certi effetti speciali, e di un software per fare editing video.

Qesta pellicola è un invito a fare del cinema un’arte alla portata di molti, che evoca ricordi di sale cinematografiche specializzate in seconde visioni, odore di popcorn e duri di menta, sgranocchiar di semi di zucca…

 

Cuccussétte vi ringrazia della lettura.

La recensione è stata edita da TERRE DI CONFINE  

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